Gianbattista Baronchelli – detto GiBì – è stato un noto corridore ciclista. Con Tommaso Scandroglio ha recentemente pubblicato il volume “Pedalando per il Cielo, Fede, vittorie e sconfitte di un campione” (La Nuova Bussola Quotidiana). Durante il Giro d’Italia, Giordano Cavallari ha raccolto la seguente testimonianza. SettimanaNews la pubblica in occasione della chiusura della edizione 2020 della più importante corsa a tappe italiana.
- Gianbattista o Giovan Battista, come ti posso chiamare?
Il mio nome all’anagrafe è Gianbattista, mentre nel mio attestato di battesimo, avvenuto quattro giorni dopo la mia nascita (il 6 settembre 1953) è stato scritto Giovan Battista Baronchelli. Forse è un segno che un giorno avrei riscoperto pienamente il mio battesimo e il mio nome vero.
- Gianbattista, sei noto come un campione di ciclismo: vuoi ripercorrere le tappe della tua vita nello sport?
Sono nato a San Martino di Gusnago in Comune di Ceresara in provincia di Mantova, benché i miei genitori fossero entrambi delle valli bergamasche. I contadini di montagna scendevano allora in pianura in cerca di lavoro. Per questo i miei genitori, assieme ai miei zii, si sono trovati a vivere in una cascina mantovana. All’età di un anno la mia famiglia ha cambiato di nuovo abitazione ed è andata a Solferino, sempre in provincia di Mantova. Là sono rimasto sino alla età di 5 anni. Da Solferino siamo andati a Quinzanello (Brescia). Nel ’63 siamo giunti ad Arzago d’Adda, ove tuttora io vivo.
A scuola ero assai scarso. Sono stato bocciato due volte alle elementari. Ho conseguito la licenza media. Ero molto timido, timidissimo. I continui spostamenti e i cambi di scuola non mi hanno aiutato. All’età di 4 anni ho contratto una malattia infettiva e sono stato ricoverato per 40 giorni in ospedale, totalmente distaccato dalla famiglia. Non ricordo niente di quel periodo, ma penso sia rimasto in me per tutta la vita. La mia timidezza, il fatto di trovarmi in difficoltà a contatto con altre persone, mi ha fatto sempre soffrire, specie in considerazione dello sport che ho fatto, in cui stavo in mezzo a gente che mi chiedeva di parlare.
Sono il settimo di 9 fratelli: 3 sorelle e 4 fratelli. Sono l’ultimo dei maschi. Tutti abbiamo, più o meno, lo stesso carattere riservato. Il fatto di aver vissuto l’infanzia solo tra noi, isolati e distanti dai centri urbani, deve essere stato determinante. Non avevamo neanche il tempo e la possibilità di frequentare i nostri coetanei. Dovevamo lavorare. Anch’io, all’età di 8-9 anni, ho iniziato a lavorare nella cascina. Per i miei genitori la scuola era importante, ma più importante era il lavoro. Non abbiamo mai sofferto la fame – almeno io non lo ricordo – ma certamente si viveva con molta semplicità. Il clima nella grande famiglia era comunque molto bello: tra fratelli si giocava e si litigava, ma eravamo molto uniti. I miei genitori erano credenti e praticanti. Mi hanno educato secondo la dottrina cattolica e col loro esempio.
A 13-14 anni non pensavo allo sport. Vedevo mio fratello Gaetano che aveva una grande passione per la bici. Lui iniziò a correre un anno prima di me. Quando vidi che andava in allenamento ed evitava il lavoro, pensai di correre anch’io. Rido mentre dico questa cosa, ma è sostanzialmente vera per i pensieri che avevo da bambino. Mio papà era appassionato di bici, come i miei zii e come tanti uomini di quel tempo. Ricordo ancora il giorno della morte di Fausto Coppi. Avevo 9 anni. Ricordo il senso di lutto e di abbattimento calato improvvisamente sulla cascina. Ho capito quanto per papà, per gli zii e per la mia gente, fosse importante il ciclismo. Ma quel giorno, per la prima volta, più che alla bicicletta, pensai al fatto della morte. Pensai che un giorno anche i miei genitori non sarebbero stati più con me.
Gli inizi e la carriera
Mio papà era contento che anch’io iniziassi a correre in bicicletta. Anche mia mamma in fondo lo era, ma era pure preoccupata: come ogni mamma si preoccupava di una cosa così faticosa e pericolosa che stava toccando al figlio. Ho iniziato a gareggiare nella categoria degli esordienti. L’anno successivo ho cominciato a vincere gare. Nel ’70 sono passato nella categoria degli allievi. Pur dovendomi confrontare con ragazzi che avevano un anno più di me, ho iniziato a distinguermi. Riuscivo a fare 60-70 chilometri di fuga solitaria.
La passione per la bicicletta mi è venuta vincendo in quel modo. La mia carriera ciclistica è andata in crescendo, sinché a 20 anni ho vinto il Giro d’Italia dilettanti e il Tour de l’Avenir, nel giro di 45 giorni. Diventai professionista con tutti gli occhi puntati su di me. Dovevo essere il nuovo Coppi. Nel mio primo Giro d’Italia da professionista sono giunto secondo – per soli 12 secondi di distacco – alle spalle del mio mito Eddy Merckx. Terzo fu Felice Gimondi. Persi per un’inezia. Tutti aspettavano la mia fulgida carriera. Ma non è stato così. Dopo un mese – stavo partecipando ad una delle gare in circuito che seguono il Giro di Italia – in discesa mi sono trovato davanti una bambina sfuggita al controllo dei genitori: per evitarla sono andato a sbattere contro una cancellata, fratturandomi. Sono seguite 3 operazioni e 3 mesi di gesso. Ho perso il resto della stagione.
L’anno successivo, 1975, i miei dirigenti decisero di farmi partire molto forte già dalle prime gare. Dovevo assolutamente vincere il Giro d’Italia. Ma in quell’anno, all’inizio dell’ultima tappa, ero solo quarto in classifica. Si doveva scalare il passo dello Stelvio. Ebbi una crisi e finii al decimo posto. Quello fu il periodo più buio. L’anno precedente ero stato definito il nuovo Coppi. Solo un anno dopo fui definito un corridore finito. L’umore dei tifosi e dell’ambiente era già mutato, come sempre succede: un corridore viene acclamano sinché vince.
In breve: sono stato 3 volte sul podio del Giro d’Italia, 2 volte secondo, una volta terzo; 3 volte sono arrivato al quinto posto, 2 volte al sesto, 2 volte al decimo. Ho vinto 2 volte il Giro di Lombardia. Sono arrivato una volta secondo al mondiale di Sallanches, forse il più impegnativo della storia del ciclismo, alle spalle di Bernard Hinault. Nell’89 ho smesso di correre dopo quasi 16 anni di professionismo e più di 90 corse vinte.
Dopo tutto questo, dico di essere stato un mezzo campione. Avrei potuto vincere 2 o 3 Giri d’Italia, ma non ne ho vinto neanche uno. Per tante ragioni che posso provare a spiegare.
I gravi incidenti hanno avuto sicuramente il loro peso. Dopo la caduta del ’74 – il ricovero e gli interventi chirurgici in un piccolo ospedale – mi sottoposi ad analisi che rilevarono un’infezione al fegato. Ritengo che quell’incidente abbia negativamente influenzato la successiva carriera. Non mi sto giustificando: le cadute sono nei casi del ciclismo come della vita.
Nei primi anni di professionismo ha pesato poi la mia immaturità. Negli anni successivi, l’avvento di due corridori quali Moser e Saronni non ha giocato a mio favore: venivano disegnati Giri d’Italia con tappe che andavano bene per le loro caratteristiche, non per le mie – perché io preferivo le grandi montagne –, tanto che ad un certo punto smisi di mirare al Giro per puntare alle gare classiche in linea. Non ho avuto inoltre un’adeguata scuola o formazione ciclistica. I miei primi dirigenti erano bravi, tenevano a me, ma non avevano sufficiente esperienza per prepararmi al professionismo. Contava molto, allora, prepararsi correndo in pista, perché in pista si imparava ad avere il colpo d’occhio e di pedale nelle gare su strada.
Il mio carattere ha avuto pure una parte non meno importante. Si dice che in gara – solo in gara – si debba essere egoisti e cattivi. Per me questo non ha senso: ognuno è quel che è! Ora ci rido sopra, ma il mio carattere mi ha evidentemente limitato, così come la mia scarsa capacità di comunicare: non mi riferisco tanto alla conoscenza delle lingue, quanto ai rapporti, ad esempio, con la stampa. Avevo timore di parlare. I giornalisti mi chiamavano sul palco per le interviste e io cercavo di andare via.
Inutile dare la colpa all’uno o all’altro: ero io a scappare. Mentre, per essere riconosciuto quale campione e avere tanti tifosi, avrei dovuto essere sempre disponibile a parlare e a dire anche degli spropositi. Quando parlavo, non avevo mai molto da dire, per coerenza: se perdevo, non potevo dire altro che qualcuno era stato più bravo di me, punto e basta. Non potevo apparire diversamente. Con ciò ho avuto meno tifosi, ma forse, quelli che ho avuto, mi hanno apprezzato così come ero.
Dopo il professionismo
- Poi che cosa hai fatto nella vita?
Al termine della carriera ciclistica, nell’89, entrai nel negozio di biciclette che era già stato avviato assieme a mio fratello Gaetano. Siamo sempre stati insieme. Per tanti anni abbiamo portato avanti il negozio, sino a pochi mesi fa. Entrambi pensionati, lo stiamo ora trasformando in una sorta di museo della bicicletta, coi nostri ricordi.
- Perché non sei rimasto nell’ambiente del ciclismo professionistico?
Non volevo stare più a lungo lontano da casa. La lontananza mi pesava. Non sono rimasto soprattutto perché non mi piaceva l’ambiente. Io ne sono uscito abbastanza male. La separazione dalla squadra di Moser nell’86 aveva segnato la mia carriera, determinando la mia emarginazione. Non era mia intenzione restare in un ambiente che mi aveva rifiutato.
Ma per me non è stato difficile tornare alla vita normale. Mi sono sposato nell’87. Nell’89 è nata la mia prima figlia, nel ’90 la seconda. Il mio figlio maschio è nato nel 2001. Ho potuto vedere la nascita e la crescita dei miei figli. Per questo motivo non ho nessun rimpianto.
- Nel tuo libro parli di una svolta nella tua vita avvenuta una decina di anni fa: cosa puoi dirne?
Sto dicendo che la mia vita è cambiata il 4 aprile del 2011 alle 4.30 del mattino, quando mia mamma è passata a miglior vita. Ho sentito dentro di me qualcosa di nuovo che non avevo mai sentito prima. Io credo che la fede di mia mamma sia stata trasmessa a me in quel preciso momento. Questa esperienza porta il nome di Gesù. Non può essere altrimenti. Da quel momento certe cose che sino ad allora erano state per me così importanti sono divenute sempre meno importanti, se non addirittura indifferenti, per lasciare spazio solo a ciò che più conta nella vita: la famiglia, gli affetti, i valori motivati dalla fede.
Riscoprire il proprio battesimo
Quel momento è caduto in un periodo molto difficile. Avevo in corso un problema familiare. Quel che è entrato nel mio cuore mi ha dato la forza di affrontarlo e di trovare la serenità. Ora sto bene. Di fronte ai problemi relazionali è facile cercare di fuggire e cadere nel peccato. Ora so che c’è un modo di stare nelle difficoltà che consente di restare sereni, benché portando la propria croce. Piano piano sono cambiato. La dimostrazione sta nel mio essere diverso. Ad esempio, ora sto parlando di me e sto dicendo di cose grandi. Riesco persino a parlarne in pubblico senza difficoltà, ciò che non mi è mai riuscito prima.
Dopo aver letto molto in questi ultimi anni, penso di poter parlare di conversione a Gesù, benché non sia mai stato a lui ostile. Ritengo che la mia conversione abbia avuto un momento di inizio e che, una volta iniziata, debba durare per il resto della mia vita.
I momenti peggiori e di prova sono ancora davanti a me. Sicuramente davanti a me, come a tutti, c’è la morte. Penso di avere fede. Penso di avere speranza. Ma la certezza dell’Amore di Dio in Gesù Cristo mi sarà data solo in quel momento. Intanto mi alleno. La mia vita da cristiano è ancora simile alla vita sportiva, ma in vista di un traguardo molto più grande, il vero traguardo.
- Con questa scoperta di fede vedi la tua carriera, il ciclismo e la vita in un altro modo?
A volte mi chiedo: se avessi vinto, come il grande Eddy Merckx, 5 Giri d’Italia, 5 Tour, 3 Mondiali, 7 Milano-Sanremo e un’infinità di altre corse, sarei felice? Alla fin fine tutti abbiamo dei limiti. E alla fine tutto passa. Che senso avrebbe? Ora mi dico che non sono arrivato a certi risultati perché doveva arrivare per me un risultato ancora più importante. Magari fosse arrivato prima!
Forse avrei sofferto meno. Per me la gioia della vittoria durava in fondo una sera perché il giorno dopo dovevo tornare ad allenarmi duramente o a fare un’altra corsa che avrei potuto perdere, dovevo affrontare di nuovo altri sacrifici, fare altra fatica, andare incontro ai pericoli e alla disonestà. Sì, certo sono contento di aver vinto tante corse, ma la felicità vera non è quella: solo da poco me ne sto rendendo conto.
Nello sport, ma penso soprattutto nel ciclismo, per arrivare ai risultati bisogna fare tantissimi sacrifici, saper rinunciare nelle piccole come nelle grandi cose, dalla alimentazione al divertimento. La rinuncia è in vista del costante miglioramento delle prestazioni. Ma per vincere neppure questo basta. Un’importanza fondamentale sta nella squadra. Si vince o si perde con la forza e la coesione di una squadra. Un altro mio limite è stato – ora lo capisco – non aver saputo creare attorno a me un gruppo saldo di compagni e di amici. Ho sempre pensato che fossero i dirigenti e i direttori sportivi a doverlo fare per me. Ma non è stato così, o quasi mai. Spesso hanno fatto il loro interesse, non il mio bene.
Da professionista avevo in mente di dedicarmi all’educazione dei giovani. Ma come ho detto, per una buona formazione ciclistica, serve una scuola che neppure io ho avuto. Ma anche per l’impegno educativo il carattere mi avrebbe limitato. Ai giovani bisogna saper parlare. Mio figlio maschio ora ha 19 anni. È andato in bici tra gli 8 e gli 11 anni ed è stato lui ad insegnarmi ad andare piano: strano, no!? Lui stava sempre indietro, io rallentavo e lui stava ancora indietro mentre si guardava attorno! Mi sono detto: beh, è un ragazzo intelligente, ha capito cosa più conta. Non mi rammarica dunque affatto che non mi abbia seguito in bicicletta.
Ciclismo: soldi e doping
Da genitore e da corridore so troppo bene a quali sacrifici e soprattutto a quali pericoli e rischi si sarebbe esposto. Perché so bene quanti interessi e quanti denari inquinano il ciclismo come il mondo dello sport in genere. E quando lo sport viene inquinato non è più lo stesso: è qualcosa che solo assomiglia allo sport. Ci sono troppe persone che girano attorno e che sono interessate che l’atleta vada oltre sé stesso. Mi riferisco al doping. Ai miei tempi si usavano gli ormoni per elevare le soglie della fatica. Alla fine della mia carriera sono arrivati i metodi di ossigenazione del sangue.
Ora so qual era il gioco: gli sponsor ci mettevano un sacco di soldi e i risultati dovevano arrivare, in un modo o nell’altro. Tutti erano, più o meno, coinvolti. Quando ora sento dirigenti e direttori sportivi che si scandalizzano per il doping penso che farebbero meglio a tacere. Di doping parlo quasi mai, perché solo chi è senza peccato potrebbe scagliare la pietra. Ma non c’è nessuno in grado di farlo. Quando ho capito, ho pensato alla mia salute, perché volevo vivere anche dopo l’agonismo. Se non sono più dentro all’ambiente è anche per questa ragione.
- Ti accorgevi delle cose belle che stavano attorno a te mentre correvi in bicicletta? E ora?
No, non mi accorgevo della bellezza dei paesaggi. Io ho girato tutta l’Italia e non ho mai visto niente! Ero troppo concentrato su quello che stavo facendo. Quando staccavo gli altri non sentivo neppure la fatica. Dopo il professionismo ho fatto gare amatoriali in mountain-bike e andavo sempre di corsa, sempre a tutta, anche negli allenamenti, sia perché avevo poco tempo a disposizione, sia perché non potevo sopportare l’idea di farmi battere. Ho rallentato negli ultimi anni. Anche questo fa parte della mia trasformazione. Da un anno non vado neppure in bici, perché ho preso ad andare a piedi, da solo, fuori dal traffico e dalla confusione: così ho imparato a pregare e a meditare. E sto meglio.
Raccontare la propria fede
- Prima non pregavi? Che cosa è cambiato nella tua pratica religiosa?
No, non pregavo. Facevo un segno della croce prima di partire. Non portavo, né tanto meno esibivo, segni religiosi. Semmai c’era la mamma ad infilarmi una madonnina nella tasca interna della maglia. Ero caratterialmente così: non avevo nessuna esibizione, neppure religiosa. Da questo punto di vista sono rimasto in quel modo. Dico il rosario, ma non porto neppure la coroncina: uso le dita delle mani.
La differenza sostanziale è che ora non faccio niente per nascondere la mia fede, anzi sento di dover dire apertamente che la fede mi ha cambiato la vita e che solo ora sto bene. Mi viene spontaneo manifestare quello che sento. Non riesco a trattenerlo. Ma non voglio eccedere. Sono ben consapevole di poter produrre sugli altri persino un effetto opposto a quel che desidero.
- Perché hai scritto con Tommaso Scandroglio il libro Pedalando per il Cielo?
Nella mia vita ho pedalato tanto. Ho fatto non so quante decine di migliaia di chilometri in bici. Dopo la mia conversione continuo a pedalare, ma in maniera diversa, con una consapevolezza diversa. “Pedalare per il Cielo” vuol dire vivere e fare delle cose col Signore e per il Signore, quindi per le vie del Cielo, per uno spazio celeste e infinito che è il mio Cielo e il Cielo di tutti.
Col mio libro spero di incontrare altri che abbiano voglia di pedalare per il Cielo e, dall’alto, guardare alle cose di questa vita in maniera diversa, come succede a me. Magari qualcuno troverà motivo di accostare le sue ruote alle mie e di percorrere un pezzo di Cielo assieme a me.
Vedendo acaso e per cuorisità qualcosa di Lui su Youtobe, mi ha colpito il suo modo di sorridere e mi sonodetto che ci doveva essere un qualche segreto. Ho visto che è Gesù! Un bel traquardo arrivare da Lui!
Grazie davvero a un campione di cui non conoscevo il lato intimo. Per me, grande tifoso di Moser, è una scoperta! Tra l’altro, nella sua estrema modestia e anche ritrosia a parlare di sé, delle tante corse vinte (a me ne risultano 89, più 2 crono-staffette) Baronchelli ha taciuto le 6 vittorie consecutive nel Giro dell’Appennino, corsa dura per scalatori veri. Non credo che nessun corridore abbia mai vinto una corsa tante volte ininterrottamente. Non vedo l’ora di leggere il libro.