«La prima immoralità è quella di fuggirsene fuori dalla storia, di immaginarsi per idealismo che il mondo non aspetti altro che l’espressione dei nostri desideri per conformarvisi» (Paul Thibaud, 1984).
La guerra in Ucraina, per le sue caratteristiche genetiche e morfologiche – il ritorno della guerra di aggressione condotta secondo moduli novecenteschi, pur in epoca nucleare – sta costringendo una generazione come la mia, che immaginava di doversi fare domande di altro tipo, a porsi quesiti che speravamo di poter evitare; mentre le risposte che iniziano a profilarsi sembrano andare lungo vie che solo pochi mesi fa non avremmo immaginato.
Potrebbe essere questo il significato dell’espressione “historia magistra vitae” che molti, da Cicerone in qua, hanno usato, magari per dire che non lo è.
La rimozione del problema della difesa
Di grande interesse appare in questo senso rileggere un articolo sul tema della pace e degli armamenti di Paul Thibaud, direttore di Esprit, apparso sulla rivista nel 1984[1] e recentemente ripubblicato da Vita e Pensiero.[2]
Il testo colpisce per tre motivi che rimangono validi, si sia d’accordo o meno su alcune delle sue considerazioni relative alla difesa armata.
Il primo di questi motivi è che la sua lettura mette in evidenza come l’attitudine e la capacità stessa di riflettere sul tema erano in quegli anni, in ambito cattolico, ben maggiori di quanto non lo siano attualmente.
Tanto da indurre a chiedersi per quali motivi, nei decenni successivi, tali facoltà siano andate regredendo, con il risultato di lasciare una parte rilevante della politica internazionale priva di una riflessione maturata in ambito cristiano o influenzata da esso, che sia finalizzata a fornire indicazioni utilizzabili di policy.
Penso che una spiegazione possa essere la seguente. Come sappiamo, nel mondo cattolico – diciamo pure in noi stessi – è andato diffondendosi un certo tipo di pacifismo che potremmo dire per brevità “senza se e senza ma”. Come fossimo diventati tutti sognatori della profezia di Isaia, molti di noi hanno fatto proprio un orientamento sul tema della guerra e della pace che appare, spesso inconsapevolmente, indirizzato ad un unico piano, quello escatologico.
Ciò è avvenuto secondo modalità di pensiero portate in modo troppo semplificatorio a ritenere di poter trarre da quel piano indicazioni operative e di carattere immediatamente normativo, quasi la profezia fosse realizzabile qui e ora in tutta la sua radicalità, se solo si volesse.
Una delle implicazioni del diffondersi di questa cultura è stata l’impossibilità di riflettere sul tema della “difesa” e quindi delle armi.
Dico proprio delle armi, a meno che non si ritenga la difesa non violenta un metodo di azione sempre efficace, capace cioè di sviluppare la “forza” necessaria nel campo dei rapporti tra stati, anche quando «l’avversario [non è] obbligato da certi principi o a causa delle sue convinzioni o a causa delle pressioni che l’ambiente esercita su di lui», e che si pensi possibile omettere il fatto duro che «nelle relazioni internazionali né la possibile violenza, né il livello dei conflitti di valori sono a priori limitati» (Thibaud).
Se la guerra comunque intesa è il male assoluto, se l’impiego delle armi (anche per difendersi) è sempre guerra, se – ma è il punto decisivo – possiamo pensare che essa possa essere sul serio espunta già oggi dalla storia umana, allora non ha più senso parlare di “difesa armata”. La produzione di armi è già di per sé un male, sempre e in ogni caso.
Da lì ad accettare l’idea «sentimentale» – così la definisce Thibaud – che la guerra sia nient’altro che il risultato della produzione di armi, perché se ci sono devono essere usate e perché chi le produce è interessato al loro uso, il passo è breve. Ciò annichilisce sul nascere qualsiasi discorso che provi a dibattere il tema della difesa, la sua necessità, i modi, le responsabilità connesse.
Ad arenarsi, come è facile constatare, è anche la riflessione sulle regole con cui, eventualmente, la guerra andrebbe condotta, secondo convenzioni sottoscritte dalle parti su modelli come quello della Convenzione di Ginevra.
Al contrario, Thibaud può farlo senza timore a partire da due premesse, quella assiologica sui valori – di cui dirò tra breve – e quella che impone di «accettare l’esigenza della difesa. Non vediamo nulla che possa dispensarcene», come egli dice.
Una delle implicazioni del rifiuto di entrare nel merito del tema “difesa” è che, in questo modo, si finisce per occultare il fatto che essa viene surrettiziamente delegata ad altri. Così è stato ed è nel caso dell’Europa del secondo dopoguerra e del così detto “ombrello atomico” americano alla cui ombra hanno vissuto e vivono i nostri paesi.
Scrive Thibaud: «La strategia di difesa dell’Europa poggia da trent’anni a questa parte sulla dissuasione atomica americana». Nel contempo, gli europei possono sentirsi «seccati», nonché preoccupati, dal dover ospitare una parte dell’arsenale atomico USA sul proprio territorio. Una prima ipocrisia.
L’altra implicazione di questo rifiuto, più interna al mondo cristiano-cattolico, è una specie di divisione dei compiti tra i gruppi e le sensibilità pacifiste, da un lato, i cui richiami se venissero consapevolmente collocati in un quadro escatologico e non pretendessero di determinare indicazioni immediatamente operative svolgerebbero una funzione appropriata, e, dall’altro i politici cattolici dotati di serie responsabilità (i Mattarella, i Prodi, i Letta).
Costoro sanno di non poter evitare la questione, perché sono consapevoli che i rapporti internazionali sono fatti anche della forza dissuasiva derivante dalle strutture di difesa. Essi sono perciò costretti a entrare nel merito di tali politiche, assumendosi la “colpa” che gli altri preferiscono lasciare sulle loro spalle, salvo criticarli proprio per questo, cosa che li lascia infine isolati dal proprio retroterra culturale e indeboliti. Una seconda ipocrisia.
Sarebbe interessante capire quanta parte delle scelte relative alla difesa armata dei paesi europei sia rimasta occultata nell’ombra dei palazzi del potere anche a seguito di questi meccanismi che inducono nell’opinione pubblica paura e rifiuto, dietro la speranza che la guerra non verrà più. Direi anche sempre più nell’ombra, perché i decisori vivono nell’impossibilità crescente di parlarne apertamente a causa di una temperie culturale che ritiene disdicevole la questione stessa.
Una domanda che mi pongo, ma su cui non sono in grado di dare una risposta sicura, è quanto su questa autolimitazione del pensiero dalle conseguenze non del tutto limpide abbia pesato il magistero stesso, con le sue ripetute dichiarazioni, ancorché piuttosto generiche, sull’inaccettabilità della guerra, unita a un certo rifiuto ad entrare nel merito delle situazioni storiche in cui la guerra inesorabilmente riappare, dato che il Regno “viene”, certamente, ma non è ancora “venuto”.
Una cosa è il “mai più la guerra” inteso come perorazione accorata e richiamo forte ai decisori, tesi a scongiurare lo scoppio di un’altra guerra, una cosa è il “mai più la guerra” nel senso di una norma generale inviolabile a qualsiasi prezzo in termini di libertà, come dirò tra breve.
Tutto ciò, al di là del giusto richiamo ad accantonare la guerra come mezzo per dirimere le controversie internazionali, potrebbe aver contribuito a gettare nell’ombra la questione della difesa (necessità, forme e regole), aver favorito il diffondersi di atteggiamenti non esenti da ipocrisia, aver lasciato senza sostegno coloro che di fatto si trovano in guerra anche se magari non per colpa loro, come oggi accade in Ucraina (colpa immediata almeno, perché nel lungo periodo vale il “Chi di voi è senza colpa…”).
In sostanza, secondo questa ipotesi da verificare meglio, una teologia del magistero sempre più decisamente orientata al rifiuto della dottrina tradizionale, posta giustamente in discussione dai tratti che la guerra potrebbe assumere in epoca nucleare, e orientata a negare a priori la possibilità della guerra, di qualsiasi tipo di guerra, quasi immaginando un mondo in cui la forza non esercita più alcun ruolo, senza però che a ciò abbia corrisposto una vera e propria rielaborazione approfondita di categorie come guerra e pace, avrebbe potuto avere come esito una perdita di capacità di riflessione e una rimozione delle condizioni storiche concrete in cui il problema si pone.
Cosa che si manifesta oggi nelle difficoltà con cui la questione del conflitto in Ucraina viene affrontata. Si veda a questo proposito l’incertezza dello stesso Bergoglio sulla questione dell’invio o meno di armi in Ucraina.
Dare un contenuto definito alla parola pace
Un secondo motivo di interesse dell’articolo di Thibaud è che in esso si richiama fin dall’inizio la necessità di assegnare dei contenuti di valore definiti alla parola pace.
È abbastanza evidente come, quando si parla di pace oggi, a venire in primo piano è la sopravvivenza fisica e cioè il valore vita, intesa nel senso di nuda vita, secondo il motto estremo: “meglio schiavi che morti”. Tanto più facilmente ciò avviene in ambito cattolico, da quando, in modo particolare a partire dall’enciclica Humanae vitae, il valore della vita è andato affermandosi e assumendo un primato che in altre epoche teologiche non aveva avuto, senza peraltro che ciò venisse quanto meno problematizzato.
Thibaud si chiede – non è il solo ovviamente – se per definire il contenuto del termine pace non dovrebbe essere dato uno spazio equivalente al valore libertà, da lui intesa in senso forte, come possibilità di contribuire a determinare la propria storia personale e collettiva: dal fare una propria famiglia a partecipare all’attività civica e politica.
Egli allude cioè a una concezione attiva e positiva del valore libertà citando a suo sostegno quella frase di sant’Agostino (dal De Civitate Dei) – “Initium ut esset creatus est homo, ante quem nullus fuit”, l’uomo è creato per cominciare, per dare inizio a qualcosa[3] – su cui anche Anna Harendt ha fondato il proprio concetto di libertà, intesa come la capacità dell’uomo di “essere” un nuovo inizio (cf. Origini del Totalitarismo).
Non solo vivere dunque, ma anche (difesa delle) ragioni per vivere. Estremizzando di nuovo, secondo il motto: “meglio morti che schiavi”.
In modo particolare, nel caso di cui si discute oggi, questa impostazione implica difesa del diritto dei popoli di disporre di se stessi e non solamente tutela della vita, purchessia.
Al contrario di ciò – sottolinea Thibaud – nel periodo della guerra fredda gli europei dell’ovest hanno troppo facilmente accettato un ordine internazionale in cui era legittimo che polacchi, cechi, ungheresi ecc. non potessero autodeterminarsi.
Gli Accordi di Helsinki avrebbero dovuto favorire una evoluzione all’Est in senso democratico, ma poi di fatto ciò non avvenne (fino all’implosione del sistema sovietico che condusse al crollo del muro) e gli occidentali non seppero darne una attuazione fruttuosa.
In modi molto simili a quelli con cui in quei tempi operava l’URSS, imponendo all’Ovest di lasciar fare nei paesi d’oltrecortina, pena la guerra, l’intervento di Putin in Ucraina implica oggi un tentativo di «costringere gli occidentali a scegliere tra due ordini di valori di cui non ci è possibile rinnegare né l’uno né l’altro: l’ordine della pace e del rispetto della vita, da un lato, l’ordine della libertà, dall’altro».
Se si accetta l’orientamento proposto da Thibaud, dare un contenuto di valore al termine pace implica dunque rifiutare «una nozione immorale di pace fondata sullo sfruttamento della paura», evitare atteggiamenti cinici e semplificatori e induce alla ricerca di bilanciamento tra i due termini.
Ciò costringerebbe ad abbandonare il rifiuto, in nome di una negazione assoluta della persistente realtà della guerra, di entrare nel merito delle situazioni in cui essa si manifesta e aiuterebbe a discriminare contesti tra loro diversi in cui dovrebbero valere valutazioni differenti.
Una cosa è infatti un conflitto come quello attuale, in cui può valere ancora un criterio di proporzionalità tra la difesa delle libertà, nonché della sovranità statuale, e i costi anche tragicamente in termini di vite umane che comportano i mezzi utilizzati per raggiungere quei fini.
Un’altra è la situazione che si determinerebbe nel caso di una guerra nucleare a tutto campo in cui ogni proporzionalità verrebbe a cadere e si dovrebbe, allora sì, accettare il principio “meglio schiavi che morti”, essendo in gioco la sopravvivenza stessa dell’umanità.
Vorrei notare, per finire su questo punto, che la discussione sui contenuti della pace ripropone esattamente la stessa polarità che era emersa a suo tempo nei dibattiti nati sulla liceità delle misure antipandemiche.
Anche qui era in gioco sia il valore vita che il valore libertà e si trattava di trovare la mediazione migliore e più lungimirante tra i due valori. Si veda a questo proposito il dibattito tra Habermas e il filosofo del diritto Günther (in “Giustizia insieme” del 30/05/2020) in cui l’oggetto del dialogo era la possibilità/necessità di un bilanciamento tra i diritti in gioco: vita e dignità umana (libertà).
L’analisi della situazione. Condizione per accertare la validità etica dell’azione
Il terzo motivo di interesse dell’articolo apparso su Esprit è che esso induce a riflettere, come fa accuratamente Thibaud, anche sul fatto che, per dare sostanza concreta agli orientamenti di valore individuati, abbiamo bisogno di determinare i margini di azione di cui disponiamo. Questo implica la necessità di una accurata diagnosi della situazione storico concreta in cui ci si trova ad agire.
Quello che di solito chiamiamo “momento dell’analisi” (ricostruzione analitica dei fattori in gioco, dei vincoli, delle risorse e diagnosi) non è solo un’attività accademica gratuita, ma è fondamentale per orientare le strategie di azione e determinare la loro congruità con gli orientamenti di valore. Si tratta infatti di comprendere quali alternative di azione sono effettivamente disponibili nel tentativo di raggiungere il bene che appare possibile nelle condizioni date.
Nello specifico del conflitto attualmente in corso si tratta di comprendere quali sono gli interessi in gioco, le logiche di azione delle potenze coinvolte, prendendo in considerazione sia le dichiarazioni di principio che le azioni concretamente sviluppate.
E si tratta di provare ad immaginare gli effetti che le diverse strategie di azione disponibili produrrebbero sul ricercato bilanciamento tra i valori di riferimento, difesa della vita e della dignità umana. Senza questo genere di attività vengono a mancare sia l’efficacia dell’azione che la possibilità di accertare la sua validità etica.
Se infatti non è nelle nostre disponibilità fare un salto dal mondo del peccato a quello della salvezza e si tratta più modestamente di adottare il principio del bene possibile (o del male minore) la questione di quello che debba essere il bilanciamento auspicabile tra valori in competizione all’intero di una situazione data, “è tutta nell’analisi e nella valutazione di proporzionalità tra conseguenze positive e negative, a breve e lungo termine, per sé e per gli altri, che si possono prevedere e soppesare, ponderare”. Lo scrive il teologo morale Giuseppe Trentin.
Come ho cercato di comprendere nel testo dal titolo “La frattura tra realismo politico e speranze di un nuovo ordine mondiale” alla lettura del quale rinvio gli interessati[4] questo tipo di analisi, quando viene applicata alle relazioni internazionali, tanto più in un quadro di conflitto militare, non può però evitare di fare i conti con una situazione di costitutiva incertezza degli attori (e quindi anche dell’analisi), tanto da richiedere in certi casi modalità di azione tipiche del procedere (rischiosamente) per prove ed errori (quasi secondo una logica degli esperimenti…).
In un certo senso si potrebbe dire che la ricostruzione della situazione concreta è un passaggio importante e necessario, ma non del tutto dirimente ed appare tale da ridurre solo parzialmente la responsabilità degli attori nella scelta dell’azione migliore dal punto di vista del bilanciamento dei valori in gioco, fatto che nel caso del conflitto in Ucraina dovrebbe indurre a dare il giusto peso a principi di precauzione.
Questa pare infine essere la condizione dell’uomo-attore storico quando opera nel campo delle relazioni internazionali. Sempre che non si scelga la facile via delle parole vuote: “andrà tutto bene”.
[1] A suo tempo suscitò molto interesse il fatto che, in modo inatteso, la rivista della “sinistra cattolica” francese, fondata da Emmanuel Mounier, prendesse le distanze dalle proposte avanzate dai movimenti pacifisti a proposito della questione degli armamenti.
[2] https://rivista.vitaepensiero.it//news-vp-plus-pace-e-pacifismo-nelleuropa-di-oggi-5857.html
[3] “Affinché ci fosse un inizio fu creato l’uomo, prima del quale non esisteva nessuno”.
Sono totalmente d’accordo con l’analisi di Castegnaro, in particolare sulla indubbia ipocrisia di certo pacifismo cattolico (Magistero a volte compreso) che prescinde ingenuamente dalle situazioni concrete nei rapporti internazionali, lasciando soli i cristiani impegnati in decisivi ruoli politico-istituzionali, chiamati ad assumere difficili scelte operative. Il profetismo è fondamentale al pari di un lucido realismo in materie di questa natura.Se deve valere solo il primo, non si chieda ai laicii cattolici di impegnarsi in politica. Pena la frustrazione pià penosa. Si mediti sulla decisa scelta atlantica (politica e militare) di De Gasperi e sull’impegno armato dei tanti partigiani cattolici, come Ermanno Gorrieri.
È veramente apprezzabile lo sforzo fatto dall’Autore.
Il tentativo di svolgere un discorso razionale fondato sulla Fede appartiene alla più alta tradizione cattolica.
È vero anche che questi tentativi oggi sono sempre più rari e vengono sostituiti da un indistinto profetismo escatologico privo di qualsiasi senso di realtà.
Grazie.
La democrazia è un valore irrinunciabile?
Tommaso Cavazzuti
In Occidente la democrazia è considerata un valore irrinunciabile. Al punto da considerare una guerra con numerosi morti e distruzioni di ogni tipo, come quella in Ucraina, un male minore rispetto alla sua rinuncia. Pur ritenendo con assoluta sicurezza che la democrazia con tutti i limiti resta la forma migliore di organizzazione di uno Stato, ritengo sia utile fare qualche riflessione su questa posizione; anche perché quando una cosa è ritenuta indiscutibile nasconde quasi sempre una visone ideologica che difende qualche interesse.
La prima osservazione è di carattere storico. La democrazia rappresentativa come l’abbiamo oggi è relativamente recente. Fino al 1800, sono prevalsi sistemi monarchici o oligarchici anche in Occidente. Quando ci si rifa alla democrazia ateneniese del quarto secolo prima di Cristo, si dimentica che si trattava di una città e escludeva gli schiavi, ritenuti non cittadini soggetti di diritti. Anche in governi monocratici il governante ha saputo ascoltare e diendere i diritti e la libertà dei propri sudditi. Non sono rari, soprattutto nell’Oriente cristiano, re e principi considerati santi. In Occidente abbiamo il caso di san Luigi IX di Francia.
Una seconda considerazione riguarda i limiti inerenti alle stesse democrazie. I sistemi elettorali che definiscono la maggioranza che ha il diritto di governare non permettono sempre di dar voce ai migliori. E le minoranze non sempre vedono rispettati i loro diritti. Inoltre, la capacità degli eletti nell’interpretare la volontà degli elettori non è sempre quella che ci si aspettava. Una volta eletti, sono tentati da interessi che non hanno nulla a che vedere con il bene comune. Soprattutto, i mezzi per ottenere il consenso popolare spesso non sono democratici, nel senso che dipendono dal potere, molto disuguale, di chi li usa.
In terzo luogo, la difesa della democrazia è intesa come difesa della propria lubertà. Però, se ben consideriamo, la libertà che lo Stato democratico si impegna a rispettare ha molti limiti; intrinsici alle leggi stesse dello Stato. Le leggi obbligano o proibiscono. E spesso si contrappongono a quello che sarebbe il nostro libero volere. Coloro che in questo tempo di pandemia hanno polemizzato su certe restrizioni imposte dal governo, dimenticano che lo Stato esiste proprio per questo: rendere possibile la convivenza, armonizzare interessi contrastanti, difendere il più possibile i diritti di tutti, impedire a chi ha fatto del male di continuare a farlo.
E’ mportante, poi, considerare un altro aspetto. Lo Stato, democratico o no, non può difenderci dai limti inerenti alla persona stessa. Son i limiti indotti dai condizionamenti sociali o dalla storia personale di ognuno. I condizionamenti sociali sono quelli che ci inducono a pensare e a esprimere giudizi che non concorrono al nostro vero bene. Sono i condizionamenti indotti dalla pubblicità, dalle tante mode, dal bisogno di offrire una immagine di noi stessi che sia accettata dagli altri, dal pensiero dominante, ecc. Ognuno di noi, poi, ha una storia che ci condiziona. Possiamo aver interiorizzato fin dall’infanzia una cultura che presenta aspetti positivi, ma anche negativi. Possiamo avere inibizioni, fobie, preconcetti, forme di ignoranza non colpevoli. Son tante le cose che possono offuscare la nostra mente e indurci a fare scelte che noi stessi, più tardi, giudichiamo sbagliate.
Un’ultima considerazione, la più imporante. Lo stato non può difenderci dai limiti che la nostra storia e la società ci impone, ma allo stesso tempo non potrà mai toglierci la libertà interiore che noi abbiamo conquistato. Ne sono testimonianza i martiri e gli eroi di ogni tempo. Questa libertà interiore, poi, dà la forza di lottare contro lo Stato dittatoriale; e quando questa lotta è comune alla maggioranza della popolazione diventa una forza che progressivamente apre la porta per una vera democrazia.
Se è così, dobbiamo chiederci: qual è realmente il male maggiore? E’ la perdita momentanea della democrazia, che possiamo sempre recuperare, o lo è la perdita di tante vite umane e la distruzione di quelle condizioni che rendono la vita sopportabile? E’ una domanda la cui semplice formulazione sembra inorridire molti. Io ritengo sia una domanda necessaria e degna di essere discussa. Di fronte a due scelte, in sé negative, si è sempre ritenuto che ci sia l’obbligo di scegliere il male minore. Di fronte a una aggressione, c’è il dovere di difendersi usando tutti i mezzi che non rappresentano un male maggiore. Il Catechismo della Chiesa cattolica indica le condizioni che rendono la difesa legittima e addirittura necessaria. Le indico a seguire.
2265 La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità.
2309 Si devono considerare con rigore le strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale. Occorre contemporaneamente:
— che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo;
— che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci;
— che ci siano fondate condizioni di successo;
— che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione.
La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune.