Coniato dallo storico francese Fernand Braudel, il termine longue durée rappresenta una delle più significative acquisizioni della riflessione storiografica del Novecento.
La «lunga durata»
Per Braudel, la storia può essere pensata come una vasta distesa d’acqua attraversata da correnti che scorrono a livelli e velocità diverse: l’increspatura di superficie rappresenta i mutamenti che si avvicendano repentini secondo il breve respiro della limitatezza temporale propria dell’esistenza umana; più in basso vi sono le fluttuazioni cicliche, che caratterizzano in particolar modo i fenomeni dell’economia; scendendo ancor più in profondità si trovano correnti che agiscono secondo archi temporali dilatati in misure secolari o millenarie addirittura.
Se le narrazioni della storiografia tradizionale, imperniate sugli avvenimenti di carattere politico e militare, si presentavano con un carattere cronachistico, la nascita della storiografia economica e sociale ha dirottato l’attenzione sulle fluttuazioni cicliche che oscillano a un livello più profondo rispetto agli événements.
Ma, rilevava Braudel, poiché al di sotto degli accadimenti della storia evenemenziale e della storia ciclica scorre il tempo rallentato, al limite dell’immobilità, della longue durée, impostare la spiegazione dei fenomeni storici solo sullo sfondo del tempo breve impedisce di coglierne e comprenderne fino in fondo la complessità.
Secondo lo storico francese, la storia può essere pensata nella sua totalità solo alla luce della lunga durata, perché la lunga durata, con il suo respiro secolare, è, della storia, l’imprescindibile struttura portante.
Violenza sulle donne. Il rischio è ridurla ad enumerazione spiccia o resoconto di fatti di cronaca, oppure circoscriverla entro il perimetro, per quanto ampio comunque limitato, dell’analisi delle dinamiche psicologiche, affettive, familiari, educative e sociali che agiscono nei singoli casi di violenza.
Ma c’è dell’altro, molto più in profondità. Per scoprirlo è necessario scendere giù, giù, fino alle falde di storia lenta, semi-immobile, che condizionano e dominano i nostri comportamenti e i nostri schemi mentali; giù, fino alla struttura profonda generatrice della violenza di genere.
Violenza di genere, l’inconfessato peccato originale
Attraverso i loro miti di fondazione, le civiltà ebraica, greca e romana si sono interrogate sul perché della presenza del male nel mondo e nella storia. Mentre sono nei campi, Caino alza la mano contro il fratello Abele e lo uccide; Eteocle e Polinice consumano il loro odio fratricida ammazzandosi l’un l’altro davanti alla settima porta di Tebe; Remo scavalca il solco tracciato da Romolo per delimitare i confini della città e il fratello, irato, lo colpisce a morte.
Il potere terribile della colpa primigenia del fratricidio grava sulle origini. La violenza perpetrata da una mano maschile contro un altro maschio, fratello, figlio della stessa umanità, è una violenza che rimorde la coscienza del singolo e della comunità. Ogni volta che una guerra si affaccia alla storia, riaffiora, talvolta sottile, talvolta dirompente, un’accusa o un’autoaccusa: uccidere un uomo è uccidere mio fratello. La mano che ha dato la morte al fratello diventa pungolo, assillo che angoscia e tormenta.
Non così per la violenza contro le donne. Presente in tutti i racconti di fondazione, la violenza di genere è riassorbita, innominata, nella narrazione; nascosta in modo subdolo tra le pieghe del racconto, viene normalizzata e presentata come logica e ineluttabile conseguenza della indiscussa e indiscutibile superiorità maschile.
La catena della violenza sulle donne si dipana attraverso i secoli e le culture, come un dato che non fa problema e che non chiede di essere tematizzato: il corpo e la libertà delle donne sono per i maschi terra di conquista, dominio, sfruttamento, sono strumento, oggetto, e conferma di potere. Così è la vita, così è la storia.
Nel mondo greco è la guerra il teatro principale della violenza di genere: le donne del mito – Criseide, Polissena, Ifigenia, le donne di Troia – e le donne dei racconti degli storici sono sempre parte del bottino dei vincitori o vittime da immolare per supplicare o celebrare la vittoria.
Nel mondo romano lo stupro delle Sabine, integrato nel mito urbigonico, si fa archetipo che legittima la violenza di genere in quanto necessaria alla nascita della città. E mentre iI sangue di Remo versato da Romolo diventa sacer nepotibus cruor, sangue maledetto per i discendenti, della violenza usata contro le donne non ci si dà mai pena alcuna.
Abramo baratta la propria libertà e la propria sopravvivenza, in terra d’Egitto prima e in Gerar poi, cedendo al maschio potente di turno il corpo di Sara («Di’ che sei mia sorella…»). Dina, l’unica figlia di Giacobbe ricordata e nominata dal narratore biblico, è vittima di uno stupro che i suoi fratelli vendicano stuprando a loro volta donne destinate ad un desolante anonimato collettivo.
E poi, Giudici 19, disgustosa storia di maschi che per salvaguardare sé stessi non esitano a farsi scudo di un corpo femminile: «“Ecco mia figlia che è vergine, io ve la condurrò fuori, abusatene e fatele quello che vi pare”. (…) Allora il levita afferrò la sua concubina e la portò fuori da loro. Essi la presero e abusarono di lei tutta la notte fino al mattino; la lasciarono andare allo spuntar dell’alba».
La colpa di Caino rimane, il fantasma di Abele inquieta le coscienze. Il levita, invece, può continuare imperterrito nei secoli a fare a pezzi la sua concubina.
Donna vita libertà
Voglio pensare che qualcosa stia cambiando. Perché oggi la violenza di genere viene nominata e fa problema e l’uccisione di una donna in quanto donna non è più un indistinto generico, ma si chiama femminicidio.
Perché, oggi, l’idea di maschio superiore è in crisi, in piena crisi, e tante ragazze e tanti ragazzi si stanno facendo carico di spaccare, in modo irreversibile, la struttura della lunga durata del maschilismo.
Perché, dopo poco più di due secoli di storia, i pensieri sviluppati dalle riflessioni femministe stanno scardinando alle fondamenta il sistema patriarcale.
«La lunga durata è un personaggio ingombrante», scriveva Braudel. Come il fato per gli antichi. «I nostri schemi mentali», scriveva, «sono prigioni di lunga durata».
Forse l’onda lunga del patriarcato sta arrivando alla fine. Vorrei poter pensare che quelli che stiamo vivendo siano gli ultimi sussulti di un’onda millenaria che ha segnato la storia con la sua idea di un potere che è tale solo in quanto logora chi non ce l’ha.
I femminismi ci educano a pensare che il potere è davvero tale, solo se declinato «insieme e per», non «contro e sopra». Nella tristezza dolorosa di questo che ci appare come un lungo inverno, mi sembra di poter sentire come un fermento di primavera evangelica.
molto interessante il tema della lunga durata che rimanda a radici, spessore, profondità nascoste che in fondo gli eventi hanno sempre purchè pensiamo, ci interroghiamo senza cercare facili risposte. GRAZIE.
Condivido. Articolo molto bello; ben scritto ed incisivo grazie alla sua brevità. Penso che la violenza di genere sia un qualcosa di antico, forse atavico come altre forme di tirannia, lungi dall’essere estirpato. Cosa ci si attende da un mondo in cui le controversie di qualsiasi fatta si pensa di risolverle con la violenza? Siamo in una fase dello sviluppo dell’umanità che contempla tuttora la violenza come strumento lecito di risoluzione di qualsiasi controversia, pare evidente. Questa liceità intrinseca, sostanzialmente accettata, non può che manifestarsi a trecentosessanta gradi nella sopraffazione volgare che una qualsiasi forza muscolare permette, in ogni sua declinazione. Ne usciremo solo quando cresceremo come specie in un modo che mi risulta ora difficile intravvedere. I contenimenti sociali temo saranno solo palliativi, seppure è auspicabile troveranno una qualche efficacia. La logica della sopraffazione purtroppo è ancora profondamente ed animalmente connaturata alla nostra specie.
Credo che dipenda dal peccato originale.
Il sacrificio di Cristo ci offre una via d’uscita che pretende la nostra cooperazione.
A questo servono il battesimo, la confessione e la comunione al Corpo e al Sangue di Nostro Signore.
Poi c’è qualcuno che va dicendo in giro che per essere perdonati non occorre pentirsi, che l’inferno non esiste e altre amenità simili.
Adelmo Li Cauzi, invece di offendere quanti sono impegnati a “rendere ragione della speranza che è in noi” (cfr 1Pt 3,8-17), prova a metterti in discussione. Sforzati di pensare la fede.
Ho offeso qualcuno? Mi dispiace profondamente, non ne avevo nessuna intenzione.
Io sono il primo dei peccatori, il primo che deve pentirsi il primo che ha bisogno di perdono.
Su questo non ci sono dubbi.
Il collegamento della sudditanza ed umiliazione millenarie delle donne al concetto della lunga durata è un ‘intuizione rivelativa e su cui riflettere nello stesso tempo.
Mi chiedo spesso quale sentimento la discriminazione di genere , che ferisce e addolora le donne ogniqualvolta il fenomeno si presenta, genera nel maschio e soprattutto in colui che ha maltrattato e umiliato.
Forse che la “primavera evangelica “ con cui si chiude il testo vuole anche richiamare alla misericordia e alla compassione che ancora una volta richiedono la fatica e la benedizione delle donne ?
Anche la storia della Chiesa può essere riletta sulla “lunga durata”. Una tale rilettura potrebbe forse anche aiutare a comprendere origini, conseguenze e limiti della radicata cultura e sensibilità “maschile” che tuttora la caratterizza e che è poi palese a livello istituzionale. Pensare ancora di affrontare tale questione sublimando teologicamente la dimensione femminile, relegando le donne nell’empireo delle idee e marginalizzandole a livello decisionale e “gestionale”, mi sembra ormai improbabile e fuori dalla Storia
Le citazioni bibliche sono veramente impressionanti.
Bellissimo articolo.
Penso però che le recenti violenze contro le donne non siano un retaggio del passato ma il frutto avvelenato di una decadenza morale tutta contemporanea.
È una mia opinione ovviamente.
Per il resto grazie, le parole dell’Autrice sollevano domande e riflessioni non banali.