Il 12 dicembre ricorreva il 5° anniversario dell’accordo di Parigi, il più grande impegno globale sul clima sottoscritto dalla gran parte dei Paesi del nostro Pianeta. È l’apice del 2015, caratterizzato da uno straordinario percorso di crescita e di consapevolezza sui temi ambientali; infatti, nello stesso anno, vengono pubblicate l’enciclica Laudato si’ e l’Agenda ONU 2030, con i 17 obiettivi strategici da conseguire nei prossimi dieci anni.
Il 2015 fornisce all’umanità intera le basi culturali, le motivazioni politiche, economiche e sociali e gli obiettivi per rendere il mondo un villaggio globale a misura d’uomo. Di più, anche le tecnologie necessarie sono in larga parte conosciute, disponibili e sufficientemente mature per il grande salto verso la decarbonizzazione del nostro sistema.
Il 2015 ha consegnato a tutti i governi le indicazioni generali da seguire almeno fino al 2050, ma la politica si è bloccata: non è stato solo Trump, la cui vittoria nel 2016 porta all’uscita degli USA dall’accordo, ma anche la diffidenza della Cina, della Russia (frenati dalle miniere e dai giacimenti sul loro territorio) e l’inazione dell’Europa, rimasta ferma a causa del travaglio interno di alcuni importanti Paesi membri (l’Italia in particolare, ma non solo).
Il Covid-19 ha cambiato lo scenario
La prospettiva, fino a un anno e mezzo fa, era che gli impegni di Parigi sarebbero stati disattesi, certificando l’ennesimo fallimento.
L’entrata in scena del Covid-19 ha profondamente cambiato lo scenario: le classi dirigenti nel mondo hanno preso consapevolezza del fatto che “siamo sulla stessa barca” e che nessuno si salva da solo, come ha detto papa Francesco durante la preghiera del 27 marzo nel deserto di Piazza San Pietro. La pandemia è una malattia acuta, i cui effetti sono immediati su tutti noi, mentre il cambiamento climatico è cronico, gli effetti sono più distribuiti nel tempo, ma altrettanto devastanti.
Nel 2020 il cambiamento di prospettiva è radicale e l’Europa riprende l’iniziativa, varando un fondo che, per la prima volta nella storia, porta al debito comune europeo. Si possono considerare l’evoluzione degli Eurobond, proposti da Prodi e da altri, e sempre bloccati dall’austerità tedesca. La pandemia fa crollare l’idea di una Germania che si disinteressa del destino degli altri Paesi (il popolo greco ne sta ancora pagando le conseguenze…), ma, al contrario, diventa la guida anche per gli altri Paesi, assumendosi onori ed oneri. Tornerò tra poco sulle positive conseguenze del nuovo corso tedesco.
In Cina, il dramma della pandemia, prima taciuta, poi, almeno apparentemente, domata, produce un cambio radicale nelle scelte del gruppo dirigente del partito comunista e in particolare di Xi Jinping. Bastano pochi mesi perché capiscano che non esiste un altro pianeta e che la Cina non può crescere in un mondo malato.
Nonostante le evidenze scientifiche, l’America trumpiana era ferma sul negazionismo del cambiamento climatico, così la Cina vede l’opportunità per recuperare il gap tecnologico sulle energie rinnovabili. La svolta è ufficializzata a fine settembre, durante la 75ª Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel discorso registrato inviato a New York, Xi Jinping rivendica la volontà di costruire la pace e prende impegni precisi per il suo Paese: il picco delle emissioni di anidride carbonica ben prima del 2030 e la neutralità nelle emissioni entro il 2060. La Cina si sposta a fianco dell’Europa con una strategia di sviluppo radicalmente diversa da quella vista finora.
Gli Stati Uniti sono il Paese che ha subìto le conseguenze maggiori della pandemia. L’arrivo del vaccino è la speranza per ritornare ad una nuova normalità, che sarà, per molti aspetti, diversa dalla precedente. Innanzi tutto perché il presidente è cambiato: tra qualche anno lo comprenderemo meglio, ma il grande nemico di Trump è stato il “virus cinese”. Prima della pandemia, infatti, tutti gli indicatori economici erano positivi. Parafrasando lo slogan trumpiano, l’America era di nuovo grande e i sondaggi non lasciavano scampo ai candidati democratici, tutti piuttosto deboli. Il mondo si stava preparando ad un altro mandato del comandante in capo, ma è arrivata la pandemia, che ha cambiato completamente le carte, prima dal punto di vista sanitario, poi economico e quindi politico.
Cambia il sistema energetico
L’arrivo alla Casa Bianca di Biden è un ottimo segnale per il nostro Pianeta, perché gli Stati Uniti dovrebbero rientrare nell’accordo di Parigi e impegnarsi nella salvaguardia del nostro ecosistema. In realtà, questi anni non sono stati persi, anzi. Il pragmatico spirito americano ha continuato a lavorare verso la transizione energetica. È utile ricordare che, nel 2016, Trump fu eletto indicando il carbone della Pennsylvania come fonte energetica primaria.
Lo ha coerentemente sovvenzionato, ma non è bastato, perché il vantaggio del solare e dell’eolico nella produzione di energia elettrica è ormai talmente ampio che le centrali a carbone chiudono. È un ottimo segnale per il nostro futuro energetico, perché la transizione energetica non solo è necessaria, ma è anche vantaggiosa dal punto di vista economico!
Ecco un aspetto decisivo, colto in America e anche in Cina: cambiare il sistema energetico è necessario per salvare la Terra, ma oggi è vantaggioso dal punto di vista politico, economico e del benessere complessivo della vita delle persone. Pensate allo smog della Pianura Padana o delle megalopoli cinesi, con le conseguenze sulla salute e sulla qualità della vita dei cittadini. Di più, i grandi giacimenti di gas e di petrolio causano tensioni internazionali, con conseguenze drammatiche. Ad esempio, in Africa, nel Nord del Mozambico, e nel Mediterraneo orientale, dove lo scontro è durissimo, proprio sulla spartizione delle ricchezze energetiche. Cosa succederebbe in un mondo decarbonizzato, dove sole e vento sono disponibili a tutti?
L’Europa, consapevole del nuovo scenario, si sta preparando, spostando ancora più in alto i suoi obiettivi. Grazie all’impegno, soprattutto nei confronti dei Paesi dell’Est, della cancelliera Angela Merkel e della presidente della Commissione Ursula von der Leyen, sono stati raggiunti risultati inimmaginabili fino a un anno fa.
Dopo l’approvazione del Recovery Fund, il Consiglio Europeo ha trovato l’intesa per ridurre almeno del 55% le emissioni di anidride carbonica entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990). Teniamo conto che, dal 1990 al 2019, la riduzione è stata del 24%, quindi gli Stati si impegnano a fare una ulteriore riduzione del 30% delle emissioni in soli dieci anni!
Tutti i capi di Stato, sui loro canali social, hanno salutato con grande favore il risultato ottenuto. A titolo di esempio, riporto il tweet di Macron, che riassume bene il senso dell’accordo raggiunto: «Alla vigilia del quinto anniversario dell’accordo di Parigi, noi europei ci impegniamo a ridurre le nostre emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55% entro il 2030. Dieci anni sono domani. Quindi facciamo di tutto per avere successo. Adesso. Tutti insieme. Perché non esiste un piano B!».
La sfida, in vista della conferenza di Glasgow di novembre 2021, è lanciata, con l’auspicio che Europa, Cina e Stati Uniti definiscano gli obiettivi e il percorso per rivoluzionare il sistema economico e superare, dopo più di due secoli, l’era dei combustibili fossili.