«C’è tra i sassoni l’abitudine di erigere, in terreni appartenenti a persone nobili e buone, non una chiesa, ma l’immagine della santa croce, consacrata a nostro Signore e venerata con grande onore, posta in un luogo elevato così da offrire la migliore opportunità per la frequente preghiera quotidiana» (Vita Willibaldi).
Nota. A lato la Croce di Ruthwell, ricostruita nel 1823 dopo che la Chiesa presbiteriana di Scozia nel 1640 aveva ordinato di farla a pezzi come “oggetto idolatra”, cosa che avvenne nel 1642. Sui bordi si vede una inscrizione in caratteri runici, che riporta parti dei versi 39-65 del poema. La grande croce, alta m. 5,28, pare sia stata eretta vicino alla costa, dove terminava il Vallo di Adriano, rivolta a ovest, quasi a funzionare come segnale indicatore per chi arrivava dall’Irlanda. Le scene di questo lato sud, si ipotizza che rappresentino, dall’alto in basso: Marta e Maria, la donna che piange ai piedi di Gesù (Lc 7,37-38), la guarigione del cieco nato, e più sotto, ma qui non visibili, l’Annunciazione e la Crocifissione.
Introduzione
«La storia della poesia cristiana in Inghilterra comincia con un capolavoro», afferma con tono perentorio, ma pienamente giustificato, J.A.W. Bennett nel suo Poetry of the Passion (Oxford 1982), una pregevole raccolta di studi su dodici secoli di poesia inglese sul tema della croce. Questo capolavoro è un poemetto di 156 versi, giunto a noi in un codice del secolo X ora a Vercelli, ma composto probabilmente all’inizio del secolo VIII, epoca a cui viene fatta risalire una grande croce di pietra, nota come “Ruthwell Cross”, che porta incisi sui bordi in lettere runiche alcuni versi dell’opera. Ignoto l’autore, come è tipico della letteratura altomedievale; inesistente il titolo; gli editori moderni hanno scelto di qualificarlo come “Sogno della croce” a partire dall’incipit, ma Bennett preferisce parlare di “Visione della croce”; a mio avviso credo che il termine che forse meglio caratterizza il genere di questo testo sia “contemplazione”. L’ambivalenza comunque rimane, perché, nelle quattro parti di cui è composto il poemetto, l’io narrante della prima e dell’ultima parte è il veggente, dove la croce è oggetto del sogno-visione, mentre nelle due parti centrali è la croce ad essere protagonista narrante, dove più che sognare essa ricorda. Si è pensato che le quattro parti, nella loro dinamica e sviluppo, potessero adattarsi bene ai giorni che vanno dal Giovedì Santo alla Pasqua come modo di meditare sul Mistero Pasquale, oltre che dare l’occasione di ricuperare gemme della tradizione cristiana che rischiano di giacere neglette nei depositi delle biblioteche. L’esposizione comprende una mia traduzione del testo antico-inglese (I titoli delle quattro parti sono miei), seguita da un commento mirato ad aiutare la lettura e la comprensione, oltre a fornire, si spera, spunti per la meditazione.
I. La visione notturna della croce gloriosa
Attenti! Un’eccelsa visione / io voglio raccontare,
un sogno che sognai / nel mezzo della notte,
quando uomini e voci / giacevano a riposo.
Mi sembrò di vedere / un albero magnifico
ascendere nel cielo / di luce circonfuso,
un tronco radiosissimo. / Tutto quel segno era
di oro rivestito: / belle gemme splendevano
ai confini del mondo, / ed altre cinque stavano
sul suo braccio traverso. / L’angelo del Signore contemplavano
tutte le belle creature. / Non era affatto un patibolo infame,
ma là lo contemplavano / gli spiriti beati,
gli uomini della terra, / e tutta la magnifica natura.
Mirabile era il tronco del trionfo, / e io da peccati macchiato,
ferito da colpe. / Vedevo il legno della gloria,
adorno di vesti regali, / scintillante di luce,
coperto tutto d’oro; / gemme avevano
avvolto di fulgore / l’albero del potente.
E però dentro quell’oro / intuire potevo
dei malvagi l’assalto / poiché presto iniziò
sul lato destro a sanguinare. / Tutto ero d’angoscia pieno,
impaurito davanti alla bella visione. / Vedevo quel segno vivente
cangiare vestito e colore: / ora pareva bagnato e intriso
da un colare di sangue, / e ora di tesori ricoperto.
Così io là giacendo / per lungo tempo
contemplavo con cuore triste / l’albero del salvatore,
fino a che non udii / che esso parlava,
prese a dire parole / quel legno nobilissimo.
“Attenti!”. L’incipit assomiglia a un vigoroso squillo di tromba che mira a svegliare da un possibile torpore. Paradossalmente, ciò su cui si vuole attirare l’attenzione è una “visione”, declinata subito come “sogno”, là dove ci si aspetterebbe un invito a vegliare! Ma è il caso di ricordare che il lessico del “sogno” non è un geniale artificio retorico, ma ha un preciso fondamento biblico, in particolare in testi di carattere sapienziale o apocalittico: vedi Gb 33,15-16 e Dn 7,13, dove si parla esattamente di “visioni notturne”. In Giobbe è scritto: «Per mezzo del sogno nella visione notturna, quando il sopore si riversa sugli uomini ed essi dormono sul loro giaciglio, allora egli apre l’orecchio agli uomini, e li erudisce istruendoli nella disciplina». Pare che l’anonimo poeta anglosassone si sia ispirato proprio a questo testo nel suo incipit. È il caso allora di ricordare che il “sogno”, e il “sonno” in cui avviene, sono chiari indizi di un atteggiamento “passivo”, ma non inerte, in cui l’uomo fa tacere azioni e parole per essere totalmente recettivo in un atteggiamento contemplativo.
La visione parte da un’apparizione abbagliante, che tiene il veggente in sospensione tra la sorpresa e il desiderio di capire quello che è costantemente chiamato con termini allusivi e diversamente qualificati: albero (3 volte), legno (2), segno (2), tronco (2), patibolo, angelo del Signore. La sinonimia serve a trasmettere la complessità del segno, la ricchezza del mistero, che verrà svelata e dipanata a poco a poco nel percorso contemplativo. Si noti la tecnica particolare della poesia anglosassone: si procede per versi formati da due parti, determinate de tre parole che allitterano (iniziano cioè con lo stesso suono, una sorta di rima iniziale), due nel primo emistichio e una nel secondo. La traduzione, potendo solo raramente riprodurre le allitterazioni, ha cercato però di mantenere la concisione e la compattezza del testo, oltre che rimarcare, quando possibile, una certa cadenza ritmica, anche perché si deve immaginare che il testo sia letto, o meglio proclamato, a voce alta (ho l’esperienza, su una cassetta, della lettura di questa traduzione da parte di un attore molto bravo), staccando le frasi, che in una lettura silenziosa andrebbero lette ripetutamente anche per percepire il viluppo e l’intreccio lessicale, che ha fatto pensare a celeberrime miniature dell’Inghilterra del tempo, e che, se si vuole, rimanda al festina lente di tanta polifonia. Non è una lezione cattedratica o un trattato di teologia sistematica: proprio la cornice del sogno richiama una fluidità che è più propria dell’esperienza che non della sua “messa in ordine”, come accade nella meditazione, che fa appello più ai sentimenti che agli schemi.
Segnalo ora brevemente i passaggi della visione. La sorpresa iniziale è “un albero magnifico”, un segno di un incredibile splendore collocato su uno sfondo cosmico. Se si vuole visualizzare questa immagine, si pensi ai mosaici absidali di Santa Pudenziana o a quello di San Clemente a Roma, e soprattutto a quello di S. Apollinare in Classe a Ravenna, dove la croce gemmata appare su uno sfondo di cielo stellato, inscritta in un cerchio ricoperto di pietre preziose. La visione è chiaramente già immersa nella luce della gloria: il tronco, rivestito d’oro e di gemme, “ascende” verso il cielo, e per ancora maggiore chiarezza, non è più un “patibolo infame”, ma un segno che sta nel centro dell’universo, attorniato da angeli, uomini e natura (cf. Fil 2,6-11). Questa presenza del triplice universo rovescia la vergogna descritta da Paolo in 1Cor 4,9, dove la sofferenza dell’apostolo è chiamata “spectaculum”, termine usato da Luca per la crocifissione (Lc 23,4), e che sarà impiegato, come si vedrà, nello stesso “Sogno”.
Il secondo passaggio, cruciale, è l’apparire di segnali che contraddicono la visione gloriosa. “Mirabile era il tronco del trionfo, / e io da peccati macchiato, // ferito da colpe”. Quelle ferite, che appaiono cripticamente nelle “cinque gemme che stanno sul braccio traverso” non possono non evocare le cinque piaghe, solo che qui il veggente coglie un drammatico rapporto con l’albero glorioso e splendente: se quelle gemme sono l’altra faccia delle ferite, le ferite, del crocifisso e della croce, sono quelle che i suoi peccati hanno lasciato in lui, oltre alle “macchie” che si contrappongono al fulgore delle gemme. Insieme a questo contrasto che descrive lo strano legame che unisce il veggente al “segno”, il poema intravede un altro dramma dietro lo splendore, cioè il retroscena della visione gloriosa: “E però dentro quell’oro / intuire potevo // dei malvagi l’assalto / poiché presto iniziò // sul lato destro a sanguinare”. La piaga del costato, che apre l’ingresso al cuore, diventa ora centrale, e provoca una reazione di paura che subentra all’esaltazione dell’inizio: “Tutto ero d’angoscia pieno, // impaurito davanti alla bella visione. / Vedevo quel segno vivente // cangiare vestito e colore: / ora pareva bagnato e intriso // da un colare di sangue, / e ora di tesori ricoperto”. Il mistero pasquale di morte e risurrezione non è più una formula mummificata, non è più solo un principio teologico, ma diventa sensazione, che ha sì la fluidità che hanno i sogni, ma che significa pure quell’alternanza tra gioia e dolore, tra benessere e malessere che forma una parte consistente della nostra vita. Rimando per questo allo straordinario cap. 15 di Giuliana di Norwich, Una rivelazione dell’amore (Ancora, Milano 2015), dove la grande mistica, attingendo dalla propria esperienza, si preoccupa di tranquillizzarci, affermando che “Dio vuole che sappiamo che egli ci mantiene sempre nella medesima sicurezza, sia nella desolazione che nel benessere” (p. 171.172).
La sorpresa arriva alla fine: dopo una lunga contemplazione, fatta “giacendo”, quasi a suggerire uno stato di paralisi, con una reazione che va dallo stupore incantato e a “un cuore triste”, ed è che “il legno nobilissimo” prende a parlare. La croce da oggetto diventa soggetto!