SettimanaNews ha ospitato un’Appello di teologhe e teologi ai vescovi italiani per l’istituzione di una commissione indipendente esterna sugli abusi sessuali e di potere avvenuti nella Chiesa italiana. L’importanza del tema e delle forme con cui verrà affrontato da noi, chiede l’apertura di un dibattito a più voci nel quale possano trovare spazio diverse sensibilità e prospettive di approccio – in un confronto tanto rigoroso quanto rispettoso.
Il fatto che la questione degli abusi all’interno della Chiesa interessi la teologia non è scontato e merita forse qualche ulteriore parola di riflessione.
Vi sono almeno tre motivi che hanno mosso chi ha redatto l’appello sottoscritto alcuni giorni fa da più di quaranta teologhe e teologi italiani.
Per un senso condiviso
Il primo riguarda non solo la teologia ma, più in generale, il pensiero. Veniamo da secoli in cui abbiamo ritenuto scontato e ovvio che il fine del pensiero sia il sapere e la sua elaborazione. La lezione degli ultimi grandi filosofi della modernità ci mette, però, sull’avviso; non pensiamo solo per accumulare sapere, bensì per un’operazione ben più complessa e fondamentale: abitare il mondo.
Le vie della conoscenza, nel legame con il linguaggio che ne costituisce il tessuto, sono le vie attraverso cui il caos trova significato, diventa mondo e genera un senso condiviso; sono le vie attraverso cui, allo stesso tempo, si impara ad avere a che fare con ciò che mondo non è, con quell’im-mondo che fa, pur sempre, parte della vita.
L’opzione teorica della filosofia matura del Novecento si fa oggi ancora più evidente nella sua urgenza, non solo nell’ambito della teologia, della filosofia, delle scienze umanistiche: un sapere che non renda il mondo più accessibile a tutti, che non sappia prendere sul serio la domanda su come abitare insieme il mondo, facendo fronte anche alle sue componenti più irrazionali, un sapere che non sappia costruire e custodire lo stare degli uomini, si condanna all’inutilità, all’irrilevanza e può diventare persino dannoso, là dove avanza la pretesa di disabilitare tutto ciò che gli è estraneo.
La scommessa è questa: che, prendendo sul serio il compito di abitare il mondo, il pensiero non sia per questo meno rigoroso, meno fedele ai suoi metodi e alle sue certezze, che non rinunci ai suoi strumenti teorici. Il fatto che alcuni teologi ritengano necessario pensare insieme un fenomeno così doloroso e immondo, non è una presa di posizione inopportuna, ma un tentativo di rispondere, con gli strumenti a disposizione della loro disciplina, ad una questione che caratterizza l’epoca.
È piuttosto chiaro che l’appello non sostituisce questo lavoro (ed è anche per questo che alcuni hanno scelto di non firmare): esso è, piuttosto, un invito, la richiesta di essere messi nelle condizioni di comprendere. Indubbiamente, può lasciare perplessi il fatto che una tale operazione sia fatta da teologi e teologhe: altri soggetti, primi tra tutti le vittime, hanno diritto pretendere una commissione indipendente, con ragioni ben più cogenti.
Ciò non toglie, però, che, nell’assoluto rispetto di questa priorità, si domandi di essere messi in grado di esercitare la responsabilità specifica che compete al loro lavoro, a partire dallo specifico punto di vista della teologia.
Comprendere l’accaduto
Da questo viene il secondo motivo: per poter essere compreso (a partire da qualunque punto di vista, compreso quello teologico), il fenomeno deve essere conosciuto realmente, in tutta la sua portata.
Una commissione di inchiesta, in questo senso, non ha solamente il compito di attribuire colpe e responsabilità, ma anche di restituire una visione più chiara, un quadro più completo di una vicenda i cui tratti non sono solo inquietanti, ma soprattutto poco definiti, almeno nel contesto italiano. Affinché una comprensione del fenomeno sia possibile, c’è bisogno di conoscere meglio non solo i processi umani che soggiacciono al fenomeno degli abusi, ma anche la logica soggiacente alla reticenza (che dovrà essere, appunto, valutata) da parte dell’istituzione nel denunciare, nel dare credito alle vittime, nel far fronte in modo efficace.
Tale logica appare talvolta incomprensibile, tanto più se ha coinvolto anche uomini di Chiesa che, in altri ambiti, sono stati coraggiosi, limpidi e schietti nel denunciare il male. Proprio da questo viene l’esigenza di sapere.
Alcune chiavi di lettura, spesso contrastanti, in questi anni, sono state proposte, sia da ambienti interni alla Chiesa, sia da ambienti ad essa molto lontani e persino ostili: una gestione clericale dell’autorità, il decadimento morale della post-modernità, una cristologia ambigua, un paternalismo narcisista e autoreferenziale, il legame tra sessualità e potere… e molto altro ancora; tuttavia, affinché la comprensione di questi percorsi non sia ideologica o pretestuosa, è necessario guardare alla realtà e ascoltarla profondamente, partendo anzitutto dall’esperienza delle vittime.
La lezione che viene dai percorsi di riconciliazione e di giustizia riparativa è che non esiste possibilità di comprendere il male (e tanto meno di ricostruire i legami feriti) fino a che non c’è spazio per la verità dell’esperienza vissuta.
I firmatari dell’appello chiedono un percorso in cui questa verità emerga, grazie all’ascolto competente e intelligente, sia delle vittime, sia di chi ha avuto una responsabilità, anche indiretta, del loro dolore. Fino a quando questo tipo di verità non è disponibile, i tentativi di comprendere hanno come unico punto di partenza le convinzioni personali.
Una commissione esterna
Da questo consegue il terzo motivo, esplicito nel documento: la necessità di fare appello a competenze esterne. Nessuno si illude che l’indipendenza dall’ambiente ecclesiale sia condizione sufficiente perché emerga la verità, tuttavia appare, quantomeno, come condizione oggi necessaria. Le ragioni di una scelta di questo tipo sono diverse.
Se ne è voluta indicarne una, senza volere negare le altre: la vicenda degli abusi, a lungo rimasta sotto traccia, è emersa grazie alla pressione che ambienti extra-ecclesiali hanno esercitato sul mondo cattolico, mostrando talvolta una capacità di assistere e di accompagnare le vittime che appariva indisponibile, nella Chiesa; lo dimostra (in modo paradossale) il fatto che qualcuno, nonostante le evidenze, lo consideri ancora uno strumento pretestuoso di attacco al mondo cristiano.
Proprio perché il nesso tra abuso e potere è un elemento decisivo (ma verificarlo sarebbe uno dei compiti dell’indagine), la possibilità di fare appello a una figura plurale dell’autorità, a un convergere di autorità differenti, l’alleanza tra voci eterogenee, appare come un passo oggi necessario.
La visione ambigua del rapporto Chiesa/mondo a cui l’appello allude, deve essere superata per propiziare una cura comune e per fare luce su un nodo che, forse, non riguarda solo la Chiesa, ma propriamente l’esercizio dell’autorità e che può trovare nella condivisione di questo esercizio un primo passo di riscatto.
Ma, appunto, prima di tutto, ci è necessario capire. E, per farlo, dobbiamo potere ascoltare.
- In collaborazione con il blog “Come Se Non” di Andrea Grillo.
Purtroppo anche se l’articolo è interessante, io credo che la questione (l’abuso sessuale) non venga affrontata come si dovrebbe dai firmatari. Detto in altro modo non si va al cuore della questione, non si affronta il nocciolo della questione (miopia?). Dietro ad un abuso sessuale, anche da parte di un sacerdote, c’è un problema di carattere psico-pedagogico. Il più efficiente sistema di prevenzione non potrà nulla se non si affronta in modo serio – non attraverso processi di maquillage – la questione educativa nella Chiesa e, quindi, se non si mette a tema una riforma delle strutture che ad essa sono preposte. Questo è il vero problema … il resto è contorno o peggio chiacchiericcio che non credo aiuti nessuno . Dispiace che teologi di un certo calibro non se rendano conto, tanto più che talvolta – non sempre! – dietro ad una persona che abusa c’è qualcuno che ha abusato di lei (ecco perché il problema è di carattere educativo), ma di questo evidentemente non se ne vuol parlare in alcun modo.