Perché è cosi difficile pensare una commissione indipendente sugli abusi in Italia?
Ipotesi su alcune questioni teologiche a monte
Riprendiamo qui brevemente l’appello ai vescovi italiani per una commissione di indagine sugli abusi in Italia che usi un metodo attento[1] e possa attingere a competenze indipendenti[2].
Il testo è stato già commentato su SettimanaNews da Roberto Maier (qui) e Andrea Grillo (qui), qui ci permettiamo di rilevare alcune questioni teologiche (e non solo) che stanno sullo sfondo e che influenzano la difficoltà di una assunzione della questione in maniera più pertinente. Ne ricordiamo, tra le molte possibili, almeno quattro: il tema dell’affidabilità, le possibili cause – ne ricordiamo due – di un certo senso di superiorità e di ingiudicabilità da parte del corpo ecclesiale, il difficile superamento di una rappresentazione – di cristianità – del legame società e Chiesa.
Nel ricordare queste dimensioni teologiche più sistemiche siamo consapevoli, in primo luogo, che esse sono sempre variamente intrecciate alle biografie e ai vissuti – personali e collettivi – e lì probabilmente è il contesto proprio del lavoro di verità e di guarigione richiesto; in secondo luogo, siamo coscienti del fatto che, dentro “sistemi” spesso ideologicamente – e a volte moralmente – compromessi, molte persone sono state comunque in grado di esistenze buone e scatti di comprensione profondamente evangelici.
L’affidabilità
Talora in ambito ecclesiale si tende a non considerare in un quadro sistemico la questione degli abusi – ma anche altre serie questioni – in base all’assunto che vi sarebbero ben altri problemi e che le urgenze della Chiesa contemporanea in Italia si troverebbero altrove. Tale posizionamento non sembra tener conto delle evoluzioni avvenute in altre zone del globo.
A ben vedere, questo modo di procedere sorvola troppo velocemente su un dato evidente che ora emerge anche dalla stessa commissione CEI preposta a questo[3]. Nei suoi tre documenti/sussidi finora pubblicati emerge con grande chiarezza la dimensione sistemica che tocca tutti gli ambiti e le strutture della vita ecclesiale[4]. La vicenda degli abusi viene spesso descritta come una sorta di punta d’iceberg di modelli, prassi operative e rappresentazioni spirituali non capaci di rispettare le coscienze, le intelligenze e i corpi delle persone affidate, in qualche modo, alle cure del corpo ecclesiale[5].
Gli abusi sui corpi sono l’ultimo anello – tragico – di una catena che si basa su presupposti particolarmente confusi e non verificati di gestione del potere e dell’autorità a più livelli. Recentemente uno studio accurato – di Dom Dysmas de Lassus, padre generale dei Certosini su Risques et dérives de la vie religieuse – ha mostrato la questione dal punto di vista specificamente teologico-spirituale, mostrando con grande chiarezza la possibile pervasività – in varie dimensioni della vita e delle istituzioni cristiane – di un sentire e di una cultura incapace di rispettare le persone nel sacrario della loro coscienza e libertà.
La recensione di Elsa Antonazzi[6] ha mostrato bene cosa significa tale tendenza – talora interiorizzata “a fin di bene” e proprio per questo non problematizzata – che arriva a schiacciare l’anima[7]. Tale intreccio di problemi ha un’ulteriore dimensione che è molto complessa, ma per certi versi anche immediatamente intuibile: il corpo ecclesiale è rappresentato, nella lunga tradizione cristiana, come un sacramento della cura amorevole del Dio rivelato da Gesù di Nazareth che passo “facendo del bene” (At 10,38). Amore eccessivo di Dio che si manifesta come una singolarissima – e ogni volta inaudita[8] – capacità di sollevare l’umiliato e offeso dal bordo della strada e della vita per ridare vita, dignità e salvezza[9].
La vicenda di Gesù e il suo evangelo, che sono al cuore della vita di ogni comunità cristiana, sono la manifestazione storica e definitiva della affidabilità di Dio[10]. Cosa significa qui affidabilità? Significa che è possibile affidarsi al mistero del Dio rivelato da Gesù nello Spirito sapendo che non mi farà del male, ma mi guiderà e solleverà dalla polvere[11].
In una recente ricerca sul vissuto di fede da parte di un gruppo di giovani ricercatori in una città del nord Italia è emersa una descrizione di Dio molto particolare, in singolare sintonia con la rivelazione evangelica. Uno dei giovani ricercatori coinvolti afferma nel corso delle sessioni di lavoro che “quando penso Dio, penso a qualcuno che non mi schiaccia e non si approfitta delle mie debolezze, ma mi sostiene nella mia fragilità”[12].
È difficile trovare parole più precise per descrivere la ferita che la vicenda planetaria e pluriforme degli abusi ha inflitto al cuore teologico – ossia la rappresentanza storica del mistero dell’amore di Dio – dell’essere sacramentale della Chiesa. Varrebbe la pena fare ogni sforzo per affrontare il tema – e quindi anche assumere il rischio di una commissione con competenze indipendenti – perché ne va di un aspetto del tutto centrale della vita della comunità cristiana, che vive in mezzo alle persone in nome del vangelo di Gesù. Proponiamo, quindi, un’ipotesi su tre questioni teologiche che paiono sottendere alla difficoltà di un’assunzione coraggiosa delle domande del nostro tempo.
Il senso di superiorità: i superiori e gli inferiori
La seconda questione di natura teologica riguarda il senso di ingiudicabilità e di superiorità rispetto al mondo, coltivato spesso dall’istituzione ecclesiale.
È un tema che ha manifestazioni storiche varie e complesse, per noi è importante rilevare alcune delle ragioni per cui un certo modo di intendere l’appartenenza all’istituzione Chiesa produce un senso di “esenzione” dalle responsabilità storiche e comuni a partire da una percezione di superiorità e alterità. Ci sembra che questo atteggiamento – che conosce varie versioni e attuazioni – sia causato da almeno due radici teologiche profonde.
Descriviamo, ora, la prima di queste. Si tratta di una sorgente ideologica molto ampia con molte declinazioni storiche. La possiamo sinteticamente descrivere come uno strutturale atteggiamento coloniale. Negli anni scorsi è stata sollevata giustamente la questione della complessa saldatura e dell’intricato legame tra occidente, modernità e cristianesimo. Qui possiamo ricordare le vaste e acute riflessioni di autori come Erich Przywara[13], Ivan Illich[14], Paolo Prodi[15], Marcello Neri[16], Bruno Latour[17] che, partendo, certo, da temi e metodi differenti, hanno spesso trattato dei rischi della perversione di un cristianesimo che, dimentico della lavanda dei piedi (Gv 13), del racconto del samaritano (Lc 10) e della morte di Gesù fuori dalle mura (Eb 13,12-14), si è amalgamato, in un intreccio complesso, con l’impresa moderna a matrice coloniale, pensandosi non come una cultura tra le tante culture umane, ma come la cultura – per dipiù – cristiana.
È la modalità coloniale di sentire il mondo che talora anche “a fin di bene” si pone come superiore e in diritto di intervenire e plasmare ciò che è altro da sè. Recentemente papa Francesco è intervenuto con un importante discorso su questo tema[18] in riferimento a quanto avvenuto nei confronti delle tribù indigene del Canada. Dopo averne descritto la storia attraverso la metafora dell’albero afferma: “ma il vostro albero che porta frutto ha subito una tragedia, che mi avete raccontato […]: quella dello sradicamento. La catena che ha tramandato conoscenze e stili di vita, in unione con il territorio, è stata spezzata dalla colonizzazione, che senza rispetto ha strappato molti di voi dall’ambiente vitale e ha provato ad uniformarvi a un’altra mentalità. Così la vostra identità e la vostra cultura sono state ferite, molte famiglie separate, tanti ragazzi sono diventati vittime di questa azione omologatrice, sostenuta dall’idea che il progresso avvenga per colonizzazione ideologica, secondo programmi studiati a tavolino anziché rispettando la vita dei popoli. È qualcosa che, purtroppo, avviene anche oggi, a vari livelli […]. Quante colonizzazioni politiche, ideologiche ed economiche ci sono ancora nel mondo […] incuranti delle popolazioni, delle loro storie e delle loro tradizioni, e della casa comune del creato. È purtroppo ancora molto diffusa questa mentalità coloniale”[19].
Proseguendo il discorso, papa Francesco sottolinea come tale approccio coloniale ha un bisogno intrinseco di creare degli inferiori da educare e gestire: “attraverso le vostre voci ho potuto toccare con mano e portare dentro di me, con grande tristezza nel cuore, i racconti di sofferenze, privazioni, trattamenti discriminatori e varie forme di abuso subiti da diversi di voi, in particolare nelle scuole residenziali. È agghiacciante pensare alla volontà di istillare un senso di inferiorità, di far perdere a qualcuno la propria identità culturale, di troncare le radici, con tutte le conseguenze personali e sociali che ciò ha comportato e continua a comportare: traumi irrisolti, che sono diventati traumi intergenerazionali”.
Si tratta di un atteggiamento coloniale e svalutante che si è spesso saldato e rafforzato “a fin di bene” con le istituzioni educative cattoliche: “provo vergogna, dolore e vergogna per il ruolo che diversi cattolici, in particolare con responsabilità educative, hanno avuto in tutto quello che vi ha ferito, negli abusi e nella mancanza di rispetto verso la vostra identità, la vostra cultura e persino i vostri valori spirituali. Tutto ciò è contrario al Vangelo di Gesù. Per la deplorevole condotta di quei membri della Chiesa cattolica chiedo perdono a Dio e vorrei dirvi, di tutto cuore: sono molto addolorato. E mi unisco ai Fratelli Vescovi canadesi nel chiedervi scusa. È evidente che non si possono trasmettere i contenuti della fede in una modalità estranea alla fede stessa: Gesù ci ha insegnato ad accogliere, amare, servire e non giudicare; è terribile quando, proprio in nome della fede, si rende una contro-testimonianza al Vangelo”.
Tali prassi abusanti – le cui testimonianze impressionano[20] – non sono dunque state frutto solo della deviazione di alcuni, ma il frutto di una sistemica perversione a matrice coloniale della modalità di intendere il vangelo. Perversione interpretativa capace di istituire un gruppo superiore con un compito educante verso un altro insieme di inferiori[21].
Il senso di superiorità: il nuovo popolo eletto
Una seconda radice del senso di superiorità tipico di una prassi ecclesiale capace di abusi di varia natura ha una caratteristica simile all’inconscio umano: è una realtà radicata in vicende del passato, ma è sempre estremamente presente e influente, sebbene spesso celata.
È una vicenda posta ampiamente a tema dalla riflessione storica ed esegetica ed è stata descritta come teologia della sostituzione: la Chiesa, composta di ebrei e gentili credenti nel messia Gesù, progressivamente si è pensata sempre più in chiave solo gentilica e come la sostituta storico-salvifica del popolo d’Israele. L’elezione in tale visione sarebbe transitata dal popolo ebraico – che risulterebbe così rinnegato da Dio – alla Chiesa cristiana.
Il tema è una sorta di problema permanente di ogni teologia cristiana e richiede una continua rielaborazione dei testi e della tradizione. La questione è certamente molto ampia, ma ci pare importante e capace di fornire chiavi di lettura penetranti anche per il nostro tema. Qui sembra utile, per descrivere la connessione tra auto-comprensione superiore, sostituzione del popolo eletto e possibilità di prassi abusanti, riportare una citazione di un testo inedito di Gian Domenico Cova che a lungo ha riflettuto su tali questioni[22]: “vedo in questi giorni come sia di pochi la percezione della gravità di quanto emerge nella scoperta delle sepolture di massa senza nome in Canada. […] Resto persuaso della possibilità, ma anche della necessità di ricondurre la storia che emerge a quanto abbiamo compreso in questi anni sulla portata devastante del supersessionism [la dottrina della sostituzione d’Israele da parte della Chiesa, ovvero della Cristianità], che nel lungo periodo ha prodotto, in particolare in occidente, un’autocoscienza di superiorità illimitata, di popolo eletto titolare del diritto/dovere di dominio universale.
Si obietta che violenze di dominatori ci sono sempre state, in ogni cultura e ben prima che il cristianesimo si potesse autodefinire come Verus Israel, e certamente è vero, ma resta il fatto che, da un lato, è stata solo la cristianità occidentale a diffondersi in tutto il mondo, nella secolarizzazione/globalizzazione dal colonialismo ad oggi, e, dall’altro, ha potuto in buona coscienza praticare forme di dominio e di violenza che oggi vediamo chiaramente come contrarie all’evangelo. La suora canadese, che gestiva quelle cosiddette scuole con bambini strappati alle famiglie (contro il diritto naturale che la Chiesa stessa proclama) e li seppelliva senza nome nel cortile, come il generale von Trotha che sterminava gli Herero, potevano farlo da cristiani […] si possono spiegare solo se li si vede all’interno di qualcosa di più grande di loro, che impediva loro di vedere la realtà: e di ciò che facevano e dell’evangelo.
Naturalmente c’erano buoni e cattivi, come sempre e dappertutto, e ci saranno state buone suore canadesi che facevano quel che potevano in quelle case, come ci sono stati missionari martiri che facevano del bene fin dall’epoca della «conquista» del Messico, ma è evidente che la forma della relazione tra i popoli della Chiesa/cristianità e i popoli delle Americhe, dell’Africa e dell’Asia è stata quella che sussiste tra superiori e inferiori, e questa forma è stata sistemica. Se ci si chiede come tutto questo sia stato possibile, trovo la risposta nel fatto che per un soggetto cristiano questo è stato possibile perché si è compreso come Verus Israel: ed è stato così per gli spagnoli cattolici come per gli olandesi calvinisti.
E forse è stata proprio questa emulazione tra diversi pretendenti alla carica di Verus Israel vero a dare all’occidente quella spinta, che la cristianità orientale non ha avuto (anche per altre ragioni, naturalmente: la presenza dell’Islam…). […] Da quando abbiamo cominciato a vedere il supersessionism ci si può aspettare di tutto dalla/nella conoscenza storica, che diventa purtroppo sì fonte di grande tristezza ma consente anche di leggere il Nuovo Testamento come forse non è stato mai letto dopo i primi secoli. E riusciamo anche a capire come sia stato possibile che ciò che era chiarissimo a Paolo sia divenuto impraticabile per la cristianità dei secoli successivi.
Poteva e doveva essere evidente a un cristiano spagnolo o inglese o fiammingo del sedicesimo e diciassettesimo secolo che un indio o un nero erano gentili come lui. Leggendo Paolo o gli Atti non può essere che così, ma lo vediamo solo oggi, e nel frattempo è accaduto quello che è accaduto. Ed era talmente immane la forza di chi veniva a dominare come un potere superiore che doveva essere la verità e così quegli stessi popoli diventavano cristiani e le stesse vittime hanno mantenuto tanto a lungo il silenzio sulle violenze subite. Anche a questo riguardo sappiamo che ci sono stati sempre credenti sinceri tra i popoli violentati, ma è altrettanto evidente che una reale condivisione di vita ecclesiale tra le Chiese e all’interno delle diverse Chiese non è ancora possibile e ci sono tante comunità etniche in troppi contesti “cristiani”, dal Nordamerica al Sud Africa […]”.
Crediamo, in pieno accordo con l’autore, che questa chiave di lettura di un problema teologico, per così dire, “a monte” aiuti nel comprendere molte questioni “a valle” nella storia del cristianesimo e nella nostra storia attuale.
I residui della cristianità: quieta non movere
Dopo aver analizzato le questioni teologiche dell’affidabilità e delle radici dell’atteggiamento di superiorità implicate in un corpo ecclesiale che ha ospitato sistematicamente la cultura dell’abuso, rimane nella nostra breve analisi una quarta questione. Questa potrebbe essere descritta come un atteggiamento di prosecuzione residuale dell’idea e della prassi della cristianità, intendendo per cristianità quel complesso di legami interiori, sociali, culturali e politici che hanno dato forma in vari modi a una società cristiana, o meglio ad una società che si definiva cristiana e quindi: superiore ed eletta.
Alcuni anni fa – nel 1994 – Giuseppe Dossetti diagnosticò con precisione la fine storica di un certo modo di pensare il cristianesimo in Italia come cristianità e come società cristiana: “non c’è un’età post-cristiana per chi ha fede. C’è [però] un’età che ha un regime mutato, un regime globale (culturale, sociale, politico, giuridico, estetico) non ispirato al cristianesimo. Cioè un’età non più di cristianità. Questo sì, e di questo dobbiamo convincerci. La cristianità è finita. E non dobbiamo pensare con nostalgia ad essa, e neppure dobbiamo a ogni costo darci da fare per salvarne qualche rottame. Il sogno dello storico Eusebio di Cesarea – che ha idealizzato Costantino e la sua opera, anzi il regime che direi formalmente teodosiano più che costantiniano, di Teodosio il Grande che ha dato le prime linee di una struttura cristiana dell’Impero – è finito, irrimediabilmente finito. È finito dappertutto. L’Italia ha conservato alcuni rottami sino a ora, ma erano rottami, non più ben giustificati neppure alla coscienza dei nostri politici, tanto è vero che su alcuni valori supremi, che consideravamo supremi – come il divorzio e l’aborto – non abbiamo saputo condurre una linea di resistenza a un livello storico e culturale adeguato, e siamo stati sconfitti. Come dovevamo esserlo. Non perché i principi e i valori che difendevamo non fossero veri nella loro sostanza ultima, ma perché non potevano essere difesi in quel contesto e in quel frammento di pensiero non organico, non motivato in maniera nuova e creativa”[23].
Recentemente – nel dicembre 2019 – papa Francesco parlando della conversione e del cambiamento in relazione alla pastorale nelle grandi concentrazioni urbane ha affermato: “nelle grandi città abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti: Fratelli e sorelle, non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede – specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente – non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune”[24].
Tali diagnosi – pur essendo descrizioni precise dei fenomeni in atto – fanno fatica ad entrare nelle rappresentazioni del vissuto ecclesiale. Si tratta infatti della fine di un modo di pensare, sentire e agire per aprirsi a modalità diverse di vivere l’essere cristiani e l’essere Chiesa. Tale difficoltà di assunzione di un tempo e mentalità nuove si riflette spesso in quella modalità per cui si preferisce quieta non movere piuttosto che chiamare le cose con il loro nome, prendere l’iniziativa e tentare percorsi nuovi.
Questo pare essere anche una delle cause profonde della diffidenza ad affrontare con chiarezza e trasparenza la questione sistemica degli abusi: ci si illude che le cose potranno andare avanti più o meno tranquillamente, evitando di smuovere troppo le acque e di turbare – come si sente dire – il popolo di Dio. Si tratta di un atteggiamento comprensibile, ma ormai fuori tempo perché non coglie il cambiamento in atto e la necessità di una testimonianza evangelica più limpida che non si nasconde dietro i residui della cristianità e di un certo rimanente consenso sociale[25].
L’idea di non convocare una commissione indipendente ha le sue radici proprio nel non cogliere il senso del cambiamento dei tempi con la perpetuazione di modi di procedere che non vogliono affrontare i problemi, rimuovendoli e minimizzandoli. In proposito conviene citare ancora un’espressione contenuta nel dialogo tra papa Francesco e i nativi del Canada. Bergoglio, riprendendo alcuni discorsi ascoltati, sottolinea alcuni punti importanti e afferma: “comincio da un’espressione che appartiene alla vostra saggezza e che non è solo un modo di dire, ma un modo di vedere la vita: “Bisogna pensare sette generazioni avanti quando si prende una decisione oggi”. È saggia questa frase, è lungimirante, ed è il contrario di quello che succede spesso ai nostri giorni, dove si inseguono traguardi utili e immediati senza considerare il futuro delle prossime generazioni”.
Dopo aver riletto alcune questioni teologiche d’orizzonte, che influenzano in profondità e rischiano di bloccare un’attenta assunzione della sfida rappresentata dalla cultura degli abusi nel vissuto ecclesiale, probabilmente potrebbe essere questo il criterio – degli aborigeni canadesi – da assumere: “bisogna pensare sette generazioni avanti quando si prende una decisione oggi”.
[1] Rispetto al metodo il discorso è aperto, l’appello non implica l’assunzione obbligatoria di metodi usati altrove, come quello dell’inchiesta francese che probabilmente si espone ad alcune possibili critiche.
[2] http://www.settimananews.it/chiesa/abusi-appello-ai-vescovi-italiani/
[3] Cf. Servizio Nazionale per la Tutela dei minori e delle persone vulnerabili (SNTM) https://tutelaminori.chiesacattolica.it/
[4] Per un’ottima presentazione del tema e un allargamento delle prospettive si veda S. De Vito, «Scandalo di pochi, mediocrità di molti». Sulle dinamiche di guarigione ecclesiale dagli abusi a partire da Rm 6,1-14, in Gregorianum 103, 2 (2022) 287-307
[5] SNTM, 25: “«È molto importante sapere che l’abuso sessuale, in genere, è l’ultimo anello di una catena di abusi sull’altro: sulla sua sensibilità e sulla sua coscienza, sulla sua libertà e i suoi sentimenti, sulle sue scelte e i suoi giudizi. Proprio a tale motivo si parla di abuso di relazione, di fiducia, di ruolo, di potere, o di abuso verbale, emotivo, fisico, psichico, sessuale e anche spirituale. Particolare attenzione va data a quello che viene definito abuso emotivo: svergognare, ridicolizzare, disprezzare, compiere gesti minacciosi. L’abuso emotivo è sempre presente nei soggetti abusanti assieme ad un ricatto affettivo che ha molta presa su minori e persone vulnerabili: privilegiare la persona attraverso regali e forme diverse di preferenza, condividere segreti, mantenere legami di controllo. Questa forma, già espressione di un abuso di potere, può essere presente contemporaneamente all’abuso fisico e sessuale ed è comunque in sintonia con esso».
[6] http://www.settimananews.it/vita-consacrata/abusi-nella-vita-religiosa/
[7] Cf. D. De Lassus, Schiacciare l’anima. Gli abusi nella vita religiosa, EDB, Bologna 2021.
[8] http://www.settimananews.it/chiesa/lo-strappo-evangelico/
[9] Cf. E. Przywara, Che cos’è Dio? Eccesso e paradosso dell’amore di Dio: una teologia, F. Mandreoli – M. Zanardi (ed.), Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2017.
[10] Cf. P. A. Sequeri, Il Dio affidabile, Queriniana, Brescia 1996.
[11] Cf. P. A. Sequeri, Il timore di Dio, Vita & Pensiero, Milano 2008.
[12] Viaggio intorno al mondo. Un’esperienza di ricerca tra fedi, appartenenze e identità in trasformazione, a cura di F. Mandreoli e G. Cella, Zikkaron, Marzabotto 2019.
[13] Cf. E. Przywara, L’idea d’Europa. La crisi di ogni politica cristiana, F. Mandreoli – J. L. Narvaja (ed.), Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2013.
[14] Cf. I. Illich, Celebrare la consapevolezza. 1951-1971, Opere complete Vol. I, a cura di F. Milana, Neri Pozza, Vicenza 2020.
[15] Su Paolo Prodi e la sua ampia e profondamente unitaria ricerca storico-istituzionale si veda https://www.mulino.it/paoloprodi
[16] M. Neri, Fuori di sé. La Chiesa nello spazio pubblico, EDB, Bologna 2020.
[17] Su Bruno Latour si veda il Dossier in via di pubblicazione presso la Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione n. 51 (2022) e B. Latour, Non siamo mai stati moderni, Elèuthera, Milano 2009.
[18] http://www.settimananews.it/papa/ai-popoli-indigeni-del-canada/
[19] Ibid.
[20] Sul tema del genocidio culturale (e non solo) degli aborigeni canadesi si veda M. Cinque, «Il genocidio dei bambini», in Il Manifesto, 11 gennaio 2022 e l’ampia serie di articoli in http://www.settimananews.it/?s=canada
[21] Si veda M.P. Giovannoni, «L’antropologia dei moderni di Bruno Latour: strumenti non teologici per ripensare teologicamente la decolonizzazione, l’interculturazione e la testimonianza cristiana», in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione n. 51 (2022) (in uscita) e N. Manghi, «Abidjan, 1974: nel laboratorio di Latour», in Aut Aut (2021)391, 110-124.
[22] Cf. G. D- Cova – C. Neri – E. Norelli (ed.), La chiesa al posto d’Israele? La nascita di un’ideologia nella separazione tra cristiani ed ebrei nel II / III secolo, Morcelliana, Brescia 2021.
[23] G. Dossetti, Il discorso di Pordenone, in Id., Il Vangelo e la storia, Conversazioni 1993-1995, Paoline, Milano 2012, 34.
[24] Papa Francesco, Discorso alla Curia Romana per gli auguri di Natale, Roma, 21 dicembre 2019 https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/december/documents/papa-francesco_20191221_curia-romana.pdf
[25] Molto interrogante, in proposito, la vicenda spagnola http://www.settimananews.it/chiesa/spagna-abusi-interviene-parlamento/
Grazie don Fabrizio, gli spunti sono tanti, difficile raccoglierli in un solo commento… sarebbe davvero importante riconoscere che la vicenda abusi pone questioni così profonde che per poter essere affrontate richiederebbero tempo e investimento di energie… Sono convinta anch’io che giochino meccanismi molto vicini a quelli dell’inconscio, come dici… il difficile mi sembra stia anche nel capire come creare le condizioni per portare avanti una riflessione capace di andare in profondità su temi come la colonizzazione, l’educazione… Da questo punto di vista mi verrebbe da dire che una commissione che si concentri sui numeri potrebbe avere un effetto fuorviante… andrebbe perlomeno affiancata o forse ancor meglio integrata con una riflessione che consenta di re-interpretare alcuni assunti sistemici, come quelli che proponi, alla luce di ciò che oggi si comprende meglio dell’annuncio proprio del Vangelo. Dove e come condurre una riflessione del genere, in modo che possa davvero coinvolgere tutti e non rischi di rimanere l’ennesima pubblicazione da custodire nelle biblioteche? A caldo mi verrebbe da rispondere che il sinodo in corso dovrebbe essere un’occasione da non lasciarsi sfuggire…