Teologia per tempi incerti: così titola un volume Laterza (Bari, 2018), a firma di Brunetto Salvarani. Riprendiamo la presentazione che ne ha fatto a Modena (29 maggio) Michelina Borsari. L’autrice di questo intervento, laureata in filosofia, è stata per 16 anni il cuore e il motore del Festivalfilosofia, che coinvolge le città di Modena, Carpi e Sassuolo.
Ci serve la Bibbia, afferma questo libro denso e ben scritto. È la Bibbia il farmaco capace di guarire i tanti mali da cui ci sentiamo circondati. E, se è ben vero che la Bibbia è lì da millenni, è però vero che 1) i tempi sono mutati e 2) non è neppure vero che la Bibbia è lì da migliaia d’anni se è rimasta un libro chiuso.
Rivincita di Dio o no?
Vediamo i tempi. Il libro prende avvio con una pittura di paesaggio a tinte piuttosto drammatiche. Cito: incerto, confuso, ansioso, depresso, autodistruttivo, rassegnato alla scomparsa dell’altro, decadente e decaduto… Lo avete riconosciuto nonostante il carico di colore: è il nostro tempo. Epoca del rischio e dell’incertezza – si dice –, come se ce ne fosse stata una in cui l’umano ha avvertito la sua vita come una traiettoria certa e sicura.
Il fatto è che, cito: siamo alla fine di un universo mentale, le Grandi Narrazioni hanno esaurito la loro forza propulsiva, non si intravedono modelli nuovi.
Persino le narrazioni delle fedi si sono fatte opache, afone, inservibili. Cito ancora: È l’intero convenzionale orizzonte religioso a essersi attorcigliato su se stesso e il cristianesimo tutto a essere andato in frantumi, rendendosi incomprensibile ai più e per molti versi innaturale. Tanto da sollevare una domanda inattesa: siamo gli ultimi cristiani? Ma come? Non eravamo nel momento della rivincita di Dio?
Contrordine: siamo nel tempo della rivincita di Dio ma, al tempo stesso, nell’epoca della sua sconfitta. Perché, se è vero che le religioni hanno acquisito visibilità nello spazio pubblico, è anche vero che non hanno per questo ripreso il dominio. In particolare, è dato per definitivamente concluso il regime di cristianità che ha plasmato la società e la cultura occidentali. Ne consegue un’indifferenza che aggrava il dramma dell’ignoranza religiosa in generale e della Bibbia in specie.
Ma, a ben vedere, la Bibbia – la Bibbia nella sua interezza col Primo e il Nuovo Testamento – per il cristianesimo romano è un’acquisizione recente, lanciata sul mercato dal concilio Vaticano II. 50-60 anni fa, l’arco di due generazioni. Prima di quella data, l’“Antico Testamento” restava la Scrittura ebraica, di fronte alla quale è convenuto durante l’intero millenario regime cristiano marcare la novità del Nuovo Testamento, che anche nel nome segnalava il suo carattere di superamento dell’Antico.
E giova ricordare che, sulla lettura della Bibbia, sulla possibilità di accedere direttamente al testo in lingua volgare, si era spaccata la cristianità. Così che quando, in qualche film, compare il Libro, state certi che si tratta di una Bibbia riformata.
La Chiesa di Roma e i suoi ministri no, non delegano, conservano – dobbiamo dire a caro prezzo – il monopolio della lettura. Tanto che, per la lunga e densa storia degli effetti della Bibbia – la sua Wirkungsgeschichte –, si dovrebbe più precisamente parlare di effetti delle sue interpretazioni.
Ecco dunque che, mentre la Modernità avanza prepotentemente con tutte le sue liberazioni (compresa quella dall’analfabetismo), il Vaticano II compie finalmente il grande passo: l’Antico Testamento entra nella messa e si comincia a leggere. E subito la Bibbia cambia, come del resto recita l’antico adagio ermeneutico: Sacra Scriptura cum legente crescit. È cambiato il testo? Certo che no (anche se le traduzioni fanno molto…). Ma sono mutati gli occhi, il significato e la portata delle parole, i tempi.
Fragilità di Dio
E, dato che, come abbiamo visto, i tempi sono incerti, perché questo libro che presenta in sette capitoli altrettante figure bibliche non titola Una Bibbia per tempi incerti, bensì Teologia per tempi incerti?
Teologia, credo, perché quello che preme all’autore non è la narrazione biblica, ma l’immagine di Dio che veicola. E qual è questa immagine? Quella di un Dio fragile. Una teologia della fragilità di Dio corre trasversalmente alle sacre Scritture – al Primo come al Nuovo Testamento – e ritaglia storie e personaggi (Giona, Noè, Giacobbe, Giobbe, Qoelet, Gesù, la Chiesa) che tutti rinviano allo specchio umanissimo della fragilità. Tutti compaiono con caratteri umani (sono peraltro tutti quanti uomini!), né perfetti, né perfettamente virtuosi. Non quelli del Primo Testamento e neppure quelli del Nuovo, sulla virtù dei quali basterebbe la scena della croce dove i 12 se la sono svignata (ma le donne no).
Insomma, le figure che Brunetto Salvarani seleziona per noi illuminandole della luce e delle ombre dell’umana fragilità non compongono un martirologio e non hanno la postura esemplare dei santi. Sono dei poveri Cristi, come tutti noi.
Anche Cristo? Anche il Dio degli eserciti? Qui sta il portato teologico del libro e la sua ragion d’essere: la fragilità è carattere dei tempi e dell’uomo perché è innanzitutto un carattere di Dio. Proprio in ciò saremmo fatti a sua immagine e somiglianza.
In questa lettura ardita naturalmente Brunetto Salvarani non è solo: lungo tutto il libro scorrono note colte e informatissime su un dibattito che data dal secolo scorso e che si è venuto articolando in modo crescente, alimentandosi proprio di quella lettura ebraica che il Concilio ha consentito abbassando gli steccati. Alimentandosi in particolare della teologia della Shoah.
Ai Gentili
Chi tra i cristiani fosse restato al Dio onnipotente (e del resto… Credo in un solo Dio, padre onnipotente…) potrebbe doversi mettere a correre. Ma il libro dichiara che la lettura della Bibbia è utile anche per i Gentili, in particolare per i Gentili italiani, che – e non solo per ignavia loro – sono tra i più malati di ignoranza biblica.
E qui si avvertono i Gentili che, senza la Bibbia finirebbero per sfuggire non solo le grandi e piccole opere della cultura letteraria occidentale, ma anche quelle pittoriche e visive, anche quelle musicali, in una parabola lunghissima che giunge fino ai blues di Sonny Bono.
Concordo, non c’è dubbio: anche i Gentili debbono abbassare gli steccati e mettersi a leggere la Bibbia: si ritroverebbero a casa. È un argomento che basta? Mi permetto di aggiungerne un altro che traggo da La santa ignoranza di Olivier Roy, Feltrinelli 2009.
Il libro chiarisce un malinteso di base: la secolarizzazione unita alla mondializzazione non ha cancellato la religione, ma ne ha prodotto una mutazione; l’ha separate dal suo contesto culturale, facendola apparire nei termini di una “pura religione”. In tal modo le ha garantito autonomia e capacità di espansione oltre il territorio di appartenenza storica.
Ora, deterritorializzazione e deculturazione sono proprio la cifra di un nuovo religioso che, nella sua “purezza”, si fondamentalizza. Il ritorno del religioso non è solo una sorta di illusione ottica, è anche il teatro dell’avanzata di versioni religiose che rifiutano di essere ridotte a sistemi simbolici e che rendono esplicita la rottura con le pratiche e le culture dominanti. Insomma, la battaglia per la Bibbia e quella per la cultura possono rivelarsi la stessa e identica battaglia: quella contro l’ignoranza e contro i fondamentalismi che ormai corrono agili anche nelle nostre strade.
Però, caro autore, sarebbe meglio, per questi Gentili bendisposti, citare almeno un’edizione di questa benedetta Bibbia. E non ridurla ai commenti, più o meno aggiornati: di cui non si accontenterebbero.