Il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II convoca tre delle voci maggiori della teologia europea: Ch. Theobald, E. Salmann e P. Sequeri si confronteranno sul tema “Oggi e domani: immaginare la teologia” (5 maggio 15.00 – diretta streaming, qui). Dichiarato l’intento di mettere mano a un nuovo paradigma del pensare e fare teologico, già abbozzato nell’opera dei tre teologi che hanno accompagnato e plasmato molto dell’intelligenza della fede nel post Concilio. Non si tratta però solo di un evento a sé stante, ma anche della consegna di un mandato all’impresa teologica. Consegna che Lucia Vantini raccoglie con lucidità e declina con originalità: facendosene carico condividendola con le lettrici e i lettori di SettimanaNews, perché “è tutta una comunità a dover sostenere la parresia di chi ha il dono della profezia”.
Ci sono momenti in cui la realtà e la sua destinazione sono affidate all’immaginazione delle persone al punto che l’audacia della loro visione può fare la differenza non solo per l’oggi ma anche per il domani. È con questo desiderio di prospettive che attendiamo il 5 maggio, quando tre grandi teologi prenderanno la parola sul presente e sul futuro della teologia.
In questo tempo di incertezza e di vulnerabilità, in mezzo a un vero e proprio conflitto simbolico tra diverse letture degli eventi, a Christoph Theobald, Elmar Salmann e Pierangelo Sequeri chiederemo ispirazioni per uno sbilanciamento verso il bene possibile anche in assenza delle garanzie necessarie.
Abitati dal domani
Viene allora in mente il famoso dipinto di Magritte, dal titolo particolarmente significativo: Chiaroveggenza. In questo quadro, l’autore rappresenta sé stesso mentre guarda un uovo e con il suo pennello intinto di nero lucente dipinge un uccello con le ali spiegate, che sembra quasi spiccare il volo oltre la tela. Viene così messa in scena la forza vitale nascosta nella storia, che rischia di restare nel silenzio per disattenzione o per paura, ma anche perché manca chi la racconti.
“Vederci chiaro” è dunque l’arte di anticipare l’esito buono dei processi in atto. È come nella famosa storia dell’uomo di Charles, che si era imbattuto in tre lavoratori duramente impegnati a spaccare pietre. Quando chiese loro che cosa stessero facendo, i tre – seppure apparentemente immersi nella stessa attività – gli diedero una risposta molto diversa. Il primo disse, stizzito e nervoso, che era impegnato in un lavoro stupido e doloroso, il secondo nominò la fatica ma aggiunse che almeno poteva rimanere all’aperto, mentre il terzo sorprese completamente il suo interlocutore: «Costruisco una cattedrale»[1].
Sono parole abitate dal domani, visioni radicate nell’oggi ma capaci di anticipazioni meravigliose e meraviglianti. Certe teologie sono così: anche quando raccontano le resistenze del mondo, danno l’impressione di costruire qualcosa di grande. Vale la pena incontrarle.
La nostra facoltà immaginativa è capace di tutto, lo sappiamo. Come attesta la storia, immaginando noi possiamo perderci o ritrovarci, coprire di bugie i vuoti esistenziali o aprire quegli spazi chiusi a chiave per paura, rifugiarci nel passato della nostalgia o fare fretta al futuro costringendolo ad anticipazioni promettenti, tradire la realtà o salvarla attraverso una nuova e audace forma di attenzione.
Immaginare la teologia vuole essere un evento che fa uscire da quest’ambiguità, spingendosi verso le parole incarnate, quelle che provengono dalla vita e vi fanno ritorno, esprimendo proprio in questa circolarità l’imprevisto della discontinuità pasquale.
È questo il desiderio profondo che anima la teologia, con quel logos affettivo che i nostri tre teologi hanno saputo e sanno esprimere molto bene, superando il famoso distico di Hölderlin: «Se hai intelletto e un cuore, mostra l’uno o l’altro. Se li mostri insieme, ti condannano l’uno e l’altro»[2]. In questa prospettiva, le parole buone della teologia non temono di nominare le croci del mondo e anzi avvertono in questo una precisa responsabilità.
Al contempo – e proprio in quanto ispirate da una logica pasquale – esse cercano e toccano i punti di leva dei processi di liberazione e di libertà dal male, significando e mettendo in circolo quella gratuità del bene di cui spesso ci si nutre quasi senza accorgersene.
L’arte della mancanza
Questa potenza simbolica non è scontata e si trova solo nelle parole che sorgono da una trama di relazioni ospitali, ben presente nei testi di Theobald, Salmann e Sequeri. In un tessuto dalle maglie ristrette, con pochi colori e sgualcito dal tempo della ripetizione, le parole nascerebbero già consumate e diverrebbero violente. Senza quest’immaginazione scambiata, non resterebbe che fare piccoli sogni di un ritorno all’equilibrio perduto, senza novità, senza guadagni sapienziali e senza le condizioni per quella prossimità solidale che in questo momento storico si è rivelata essenziale.
Il reale resterà fissato nella sua forma mortifera e saremo sempre distanti dal senso nascente delle cose. Come scriveva Etty Hillesum prima di morire ad Auschwitz, «se non sapremo offrire al nostro mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo, e non un senso nuovo delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e desolazione, allora non basterà»[3].
Questo senso nuovo delle cose dovrà certamente essere cercato e trovato insieme, donne e uomini, in un confronto che non scarta le teologie femminili e femministe. Si tratta di porre ad alta voce quella domanda che i discepoli hanno trattenuto nel silenzio, vedendo Gesù con la Samaritana: «Che cosa dici con lei?»[4].
La teologia allora si scopre parziale e impara l’arte della mancanza, la pazienza di fronte alle risposte che non arrivano, l’ascolto reale dei soggetti, la forza di riconoscere autorità spirituale a coloro che si trovano ai margini della storia.
Il buon uso della crisi
Se una teologia autentica si genera sempre nella capacità di ricevere parole da altrove, è da questa porosità che si misura la sua qualità e la sua capacità di non tradire il mistero di un futuro che ha fatto irruzione nel presente e non sa come dirsi.
C’è un buon uso delle crisi, scrive Christiane Singer[5]. Ogni crisi può essere un’occasione per evitarci il peggio, se ci liberiamo del nostro immaginario di sicurezza: a volte sembriamo quei passeggeri che hanno in mano un biglietto scaduto e lo agitano in modo ostentato davanti al controllore, nella speranza che quello non vada a leggerlo proprio da vicino. Una teologia troppo sicura di sé, immunizzata e senza pluralità, è destinata a perdere.
Questa sana insicurezza non manca certo di parresia[6], un valore che emerge nei contesti di disparità, quando chi parla mette in conto ripercussioni – o addirittura la morte – da parte del potere costituito. Questo si connette a ciò che già scriveva Caterina da Siena per la Chiesa tutta: «avete taciuto abbastanza. È ora di finirla di stare zitti. Gridate con centomila lingue. Io vedo che a forza di silenzio il mondo è marcito»[7]. Non è il coraggio del singolo, è tutta una comunità a dover sostenere la parresia di chi ha il dono della profezia.
In un tempo come questo, che ci ha sorpresi e s-coperti nella nostra vulnerabilità, possiamo lasciarci condizionare dal fatto che siamo feribili e metterci a distanza dal prossimo, con l’alibi della contaminazione; oppure possiamo dare valore a quell’interdipendenza sperimentata come inaggirabile e vitale.
Per le generazioni
Questo non è il momento della prova ma della scelta. Come si esprime papa Francesco: non è il tempo del giudizio di Dio ma è il tempo del nostro giudizio, è il tempo di riconoscere che cosa conta e che cosa passa, di separare il necessario dal superfluo, di fare i conti con le patologie e gli squilibri sociali, culture dello scarto, disuguaglianze, indifferenze[8].
Ereditando queste teologie profonde, che si sono assunte il compito della cura del presente e dell’immaginazione del domani, ci mettiamo in ascolto anche delle nuove generazioni. Senza la preoccupazione di condurle dove siamo noi, offriamo loro il credito che merita la vita nascente: «le radici dovrebbero avere fede nel fiore»[9].
Questa è dunque la forma della nostra responsabilità, forma pasquale per una teologia davvero all’altezza del reale nel tempo della crisi. Ne è intrisa la sapienza di questi tre «giganti della teologia», che si espongono ancora una volta come voci di una storia che non rinuncia a pensare e a cercare le tracce di Dio in ogni angolo della terra, in ogni forma dell’esperienza umana, e certamente in ogni spazio di confronto pubblico.
[1] Boris Cyrulnik, Parlare d’amore sull’orlo di un abisso. Il coraggio di farsi amare, Bologna: Frassinelli 2005, pp. 26–27.
[2] Friedrich Hölderlin, Le liriche, Milano: Adelphi 1993, p. 400.
[3] Etty Hillesum, Lettere 1942-1943, Adelphi, Milano 2001, p. 45.
[4] Gv 4,27. Cfr. Elizabeth Green – Cristina Simonelli, Incontri. Memorie e prospettive della teologia femminista, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2019.
[5] Christiane Singer, Del buon uso delle crisi, Servitium, Milano 2011.
[6] Michel Foucault, Corso tenuto a Berkeley nel 1983, qualche mese prima di morire.
[7] Cf. Le lettere di Santa Caterina da Siena, a cura di N. Tommaseo e P. Misciatelli, Orazio Spizio, ebook, 2019, p. 54.
[8] Papa Francesco, Perché avete paura? Non avete ancora fede?, ebook, LEV, Città del Vaticano 2021.
[9] Maria Zambrano, Persona e democrazia. La storia sacrificale, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 149.
Viene da chiedere, in relazione alla citata famosa storia dell’uomo di Charles, dov’è la «cattedrale» nel quadro di Renè Magritte, La chiaroveggenza? E siamo in tema del “vederci chiaro” in teologia.
Ma abbiamo preso a modello una certa verità suggerita da un pittore famoso, è stata una buona scelta? Perché è stata un’idea all’azzardo, come voler porre la domanda suddetta nientemeno che a un certo diavolo in rené Magritte.
Ma ci si è dimenticati della fissazione psicologica di René Magritte, la saboteur tranquille, perché con questa sua opera, La chiaroveggenza, egli la mette in opera in modo stupendo.
La fissazione psicologica: cos’è?
Che sia un pensiero o un gesto ricorrente, la fissazione psicologica rappresenta un ostacolo per il pieno sviluppo e la realizzazione di sé.
Quando si parla di fissazione psicologica, si parla di quello che può essere definito un pensiero ossessivo, una serie di pensieri ricorrenti oppure o, più in generale, una serie di gesti che vengono messi in atto dal soggetto, senza che questi se ne renda conto. Ma nel nostro caso Magritte non si pone la questione psicologica da risolvere che è un problena da psicologo; l’artista l’ha innesca come inciampo per chi si è disposto a sviluppare una serie di sapienti considerazioni sull’apparente tema dell’uovo e dell’uccello di R. Magritte.
Ed è magistrale come ci sia riuscito l’artista del sabotaggio.
Tutto è predisposto attraverso la configurazione della tavolozza su cui è dipinto l’uccello. Se la si guarda bene ci si rende conto che è a forma trapezia, cioè i due lati quasi in verticale sono paralleli e il lato superiore è ortogonale a questi, mentre l’altro inferiore è inclinato verso sinistra.
Cosa comporta questa forma? Una sola condizione della visione dell’osservatore, cioè che il suo sguardo sia diretto alla linea superiore della tavolozza, cosa che comporta la non visione della parte inferiore, cioè dello scenario dell’uccello. Di qui la causa della sua fissazione indefinita.
Capito l’inganno?
Ma c’è dell’oltre che si ravvisa nell’opera in osservazione che è lo scopo surreale del quadro di Magritte, cioè quello di obbligare l’inconscio dell’osservatore, a sua insaputa, a impatanarsi nella dimensione offerta dalla rappresentazione che fissa, come in croce inebetito, una certa linea, il limite superiore della tavolozza. Una fissazione perpetua che lo fa impazzire, come dire “chiodo scaccia chiodo”, liberando l’osservatore da un parassita che certamente alberga in lui. Ed ecco che la vera chiaroveggenza si delinea felicemente senza gli ostacoli del demonio volto a crearglieli per deviarlo dalla verità.
Se anche il demone del nostro inconcio concentrasse l’osservazione sul centro della tela per guardare l’uccello la relativa linea superiore dovrebbe essere obliqua come quella in basso.
In questo senso è salva la teologia, ed ecco il merito del diavolo Magritte.
Gaetano Barbella
Una riflessione sul futuro da immaginare per la teologia è quanto mai necessaria oggi. Ma la proposta è problematica e per certi aspetti nociva per almeno due motivi. Il primo: le figure teologiche interpellate appartengono al passato del sapere teologico. Personalmente ho di loro la più ampia stima ed affetto e imparo molto dalla loro lezione, ma una iniziativa così ad ampio raggio richiederebbe il coinvolgimento di almeno tre generazioni di teologi, con ampio spazio dato alle giovani marmotte della teologia, che hanno molto da dire a tutti noi. Il secondo: non si può immaginare la teologia del futuro senza uno sguardo approfondito al Mediterraneo come forma di pensiero. Quanto avremmo da immaginare, esporre ed imparare se invece che riavvolgere la pellicola per guardare sempre lo stesso film, usassimo la telecamera per filmarne di altri? Il resto è mero pensiero rappresentativo! Giuseppe Lorizio