Un gruppo di teologhe e teologi, convocati da mons. Vincenzo Paglia e da PierAngelo Sequeri presso la Pontificia Accademia per la Vita, ha pubblicato lo scorso 8 giugno un’appello per la fede e per il pensiero dal titolo “Salvare la fraternità – insieme“. Un progetto ad ampio respiro, di cui l’appello non è che il primo passo (cf. qui). La tesi di fondo: pensare teologicamente per salvare l’umano comune. La critica al maistream del narcisismo e alla subalternità alla ragione strumentale (tecnica) richiede una nuova responsabilità dell’intellettuale. L’enciclica Fratelli tutti legittima una nuova internità della Chiesa nel dibattito civile. Questo significa per la teologia archiviare la pretesa di sovraintendere alla cultura, di abbandonare l’interesse al potere a favore della testimonianza evangelica, di uscire da un linguaggio autoreferenziale. Per la Chiesa: passare dall’attenzione a sè stessa alla spendita per il bene di tutti. La proposta per l’intelligenza laica è di non affogare nella semplice destrutturazione, di legittimare il riferimento al trascendente e di evitare l’ennesimo “tradimento dei chierici” (Lorenzo Prezzi).
Quello che proponiamo in queste pagine è un appello con il quale confrontarsi, non semplicemente un’analisi da accogliere o respingere. Per essere più precisi, la descrizione della condizione ecclesiale e culturale che sollecita l’appello è lo strumento diagnostico che ne sostiene la motivazione e l’urgenza: non è un “direttorio” di tesi alle quali è chiesto di aderire, ma un “repertorio” di temi sui quali ci appare decisivo riflettere e discutere. L’appello, invece, “salvare insieme la fraternità”, scaturisce direttamente dalla provocazione dell’Enciclica di papa Francesco “Fratelli tutti”.
La nostra proposta è quella di raccogliere il senso profondo di questa definitiva provocazione – rivolta ad una chiesa sollecitata ad aprirsi e a un mondo tentato di chiudersi – inaugurando il clima di una “fraternità intellettuale” che riabiliti il senso alto del “servizio intellettuale” di cui i professionisti della cultura – teologica e non teologica – sono in debito nei confronti della comunità. Un ruolo che l’attuale condizione planetaria, in cui l’umanesimo – religioso e civile – è insidiosamente colpito al cuore da un virus che ci toglie il respiro, rende cruciale (K. Appel, C. Casalone, D. Cornati, J. Duque, I. Guanzini, M. Neri, G. C. Pagazzi, V. Paglia, V. Rosito, P. Sequeri, G. Serrano, L. Vantini).
Kairos attuale della fede
Il Papa Francesco ha in certo modo raccolto e condensato nell’enciclica Fratelli tutti il generoso impulso del suo ministero di timoniere della barca di Pietro, quella che porta Gesù. E non importa se Pietro ha paura come noi, nella tempesta. Nel famoso racconto evangelico (Mt 8, 23-27; Mc 4, 35-41; Lc 8, 22-25), i discepoli ebbero tutti paura della tempesta e implorarono il Signore di svegliarsi e di salvarli (“Salvaci, Signore, siamo perduti!”). La loro paura della morte fu amabilmente spinta da Gesù a riconoscere la povertà della loro fede. Quella paura non gli ha impedito, tuttavia, di esaudire la loro invocazione.
L’invocazione dei discepoli è goffa, e nella versione di Marco persino lievemente offensiva: “Maestro non ti importa che moriamo?”. La nostra invocazione contiene sempre una parte di ambiguità: la forza della nostra paura svela anche la debolezza della nostra fede. Il Signore ci rende consapevoli della parte fragile della nostra fede, e nondimeno ne accoglie la parte buona, che si rivolge a Lui per essere esaudita.
Dobbiamo domandarci se noi tutti abbiamo almeno l’ingenua sincerità di quella implorazione: e non mascheriamo il timore della nostra impotenza a governare le acque e i venti. Dobbiamo anche domandarci se non siamo indotti dalla paura a rimuovere la tempesta, simulando il possesso di una forza che non ci appartiene. O se siamo addirittura tentati di recitare la parte di Gesù, sostituendoci a Lui di fronte alla comunità nella tempesta, invece di invocarlo a nome di tutti: a costo di sentirci rimproverare – giustamente – la nostra debolezza.
I credenti che vivono in questo tempo, la vedono e la vivono la tempesta. Si rendono conto del pericoloso ondeggiamento della barca sulla quale stanno i discepoli che Gesù ha scelto per guidare la comunità sulla sua via. Si domandano, gli stessi credenti, se questi discepoli hanno realmente la fede in Gesù, come unico salvatore, che proclamano con tanto orgoglio. O se invece si comportano come se si fossero praticamente insediati al suo posto, scambiando la loro vocazione testimoniale come un privilegio ereditario che li esonera dalla aperta confessione della loro inadeguatezza.
Per grazia essi sono quello che sono: non per idoneità di ruolo o per meriti di carriera (1 Cor 15, 10). Non si tratta semplicemente di coltivare una virtuosa umiltà personale: la confessione dello scarto è una componente essenziale della confessione della fede. La formula perfetta della testimonianza del discepolo è sempre una: “Il Signore è l’unico salvatore. E non sono io” (cfr. Gv 1, 20). Le due parti dell’annuncio sono indissociabili, ed è venuto il momento di assegnare alla seconda la sua funzione essenziale. Il Signore è il Figlio eterno fatto uomo e ha un nome proprio. Il suo nome è Gesù. E se vi diranno “Il Cristo è qui, il Cristo è là, non credetegli” (Mt 24, 23).
Il corpo del Figlio fatto uomo è dato, certamente, perché tutti alla fine possano diventare un solo corpo vivente con Lui, al cospetto di Dio (LG, 9). Ma questa incorporazione non è – e non sarà mai – una sostituzione. La verità della prima parte dell’annuncio è messa al riparo dalla seconda. Soltanto a questa condizione possiamo confessare, ammirati e commossi, la verità del nostro intimo legame con il Signore: che però ci è donato in favore dell’humana communitas, e mai diventa proprietà privata della communitas fidelium.
Nell’odierno kairos della Chiesa ci sono molti e preoccupanti segni di occultamento di questa verità luminosa. E i segni di questo occultamento vengono a loro volta smascherati dalle terribili evidenze di una consacrazione profanata, di una vocazione contraddetta. Il fastidioso puntiglio delle minuziose e soffocanti dispute che trasformano la pratica della teologia in guerra per bande (“Io sono di Paolo, io sono di Apollo, io sono di Cefa”, 1 Cor 1, 12), è oggi persino sovrastato dalla plateale incapacità di discernimento delle simulazioni e delle perversioni che si accompagnano all’esercizio della responsabilità pastorale. L’eccesso di questa inettitudine degli apparati ecclesiastici è ormai un’evidenza planetaria.
Le litigiosità e le immoralità che abitano la provincia ecclesiastica sono ora percepite come un indice di fragilità del sistema, non semplicemente come debolezze occasionali. Non c’è dubbio che questa manifestazione faccia torto ad una enorme diaspora ecclesiale di sinceri e semplici credenti, come anche alla dedizione del servizio istituzionale di moltissimi uomini e donne. Ma è necessario ammettere che la gravità del fenomeno non consente la via delle cure palliative. Non c’è modo di esonerare l’istituzione dalla necessità di congedarsi coraggiosamente dalla deriva patologica del modello clericale di vita cristiana e di governo ecclesiale. Ricordando bene, naturalmente, che questo clericalismo è una forma mentale di riduzione ecclesiologica e di mondanità spirituale che può essere assimilata dai preti come dai laici (cfr. Francesco, Lettera al popolo di Dio, 20 agosto 2018).
L’autorevolezza sociale della Chiesa, in quanto automaticamente associata all’esemplarità antropologica della scelta religiosa, è tramontata. Il suo posto deve essere occupato piuttosto dalla franchezza testimoniale di una impensata grazia ospitale di Dio, che l’incarnazione del Figlio mette a disposizione della redenzione e del compimento dell’umanità di tutti (cfr. Fil 2, 5-8).
Il nuovo kairos che si è aperto nella storia della fede è il tempo in cui risuona l’attestazione del lavoro del regno di Dio nel campo del mondo secolare: non solo nel campo della comunità credente, ma nel campo totale della città dell’uomo. Il compito della Chiesa è renderlo accessibile, non requisirlo (Fratelli tutti, nn. 54-55). La vocazione storica del cristianesimo di questa epoca è questa. In questa prospettiva, la nostalgia di un mondo più accondiscente, e il risentimento per un mondo troppo ostile, vanno ugualmente deposti. Non esiste un mondo già pronto per l’avvento del regno di Dio.
Né esiste un mondo impenetrabile per questo avvento: per il suo lavoro e per i suoi segni, per il suo annuncio e per la sua testimonianza. Il compimento del regno di Dio trascende la storia della nostra iniziazione e della sua grazia: non è mai di questo mondo (Gv 14, 12). Eppure – è il miracolo della misericordia che abita le viscere di Dio – il regno di Dio germina sempre in questo mondo, come in ognuno dei mondi abitati dall’uomo (Gv 3, 16-17).
Il nostro appello per un nuovo ordine di servizio dell’intelligenza teologica e pastorale in linea con l’impulso kerygmatico del magistero che si esprime nella lettera enciclica del Papa non ha come obiettivo l’esegesi del suo testo, ma più esplicitamente la potenza del gesto in cui questo messaggio concentra la sua forza.
Desideriamo in primo luogo condividere con i teologi, i pastori, i discepoli e l’intero popolo dei credenti la percezione della krisis che l’odierna condizione ci impone e la determinazione della metanoia che la fede domanda alla teologia. In ultimo, però, ci siamo convinti ad osare anche un appello a tutti gli uomini e donne di buona volontà – cominciando dagli intellettuali, pur estranei o critici nei confronti della appartenenza religiosa – a riguardo dell’urgenza di una fraternità intellettuale che accetti di condividere una nuova prossimità con gli abitatori di questo tempo, bello e difficile.
Segni globali della crisi
Il nuovo mondo che dobbiamo imparare ad abitare, e aprire alla grazia dell’incarnazione redentrice del Figlio, si è annunciato nel nuovo millennio attraverso i segni forti della vulnerabilità del sistema che sostiene il modello tecno-economico globale dello sviluppo.
Naturalmente, siamo consapevoli del fatto che questo sistema, con i suoi indiscutibili meriti e le sue innegabili contraddizioni, è in misura decisiva una proiezione della cultura e della politica della modernità europea-occidentale: la quale, a sua volta, include una storia degli effetti della cristianità europea-ecclesiale. È necessario perciò tenere conto del fatto che i segni di crisi ‘umanistica’ osservati all’interno, e dall’interno, delle diverse comunità ‘umane’ della storia e del mondo, non possono essere interpretati allo stesso modo e con la stessa prospettiva attraverso gli strumenti tradizionali del pensiero europeo.
In modo analogo, dobbiamo anche essere avvertiti del fatto che le altre tradizioni religiose non presentano modalità di pensiero e di presenza, nell’ambito della cultura e della società, omogenee con i codici e le forme di elaborazione che caratterizzano l’esperienza europea del cristianesimo e le modalità della sua diffusione globale. È dunque necessario assumere un atteggiamento di umile e rispettoso ascolto delle loro specifiche tradizioni a riguardo delle tematiche religiose e umanistiche. Tuttavia, deve pur essere riconosciuto il fatto che la diffusione e l’assimilazione della cultura scientifica, tecnica, economica e politica che oggi appare determinante nella configurazione planetaria delle società organizzate dei popoli e delle comunità umane, è il frutto dell’espansione di strumenti e dispositivi socio-culturali elaborati in seno alla tradizione europea.
Questa osservazione, generale ma anche ovvia, deve oggi essere certamente assunta come tema di riflessione attenta e critica. Precisamente a motivo del fatto che appare giustamente in discussione proprio la qualità del progresso etico-umanistico che fino a ieri era spontaneamente associato all’espansione della strumentalità tecnica-economica europea e occidentale. L’evidenza critica di questa tensione, che guadagna terreno nella sensibilità dei popoli che appartengono a tradizioni culturali diverse, appare ormai insediata all’interno della nostra stessa cultura. In questa prospettiva, si può dunque dire che i nodi emergenti nella tensione globale fra secolarizzazione e religione, etica umanistica e sviluppo materiale, si presentano ormai essi stessi, fatte le debite differenze, come temi globali e unificanti della ‘questione umanistica’ della nostra epoca.
Eventi dirompenti, di proporzioni comunque inattese e di forte impatto simbolico, hanno platealmente annunciato la sistemica vulnerabilità delle società umane: anche quelle apparentemente più ricche e più sicure, più razionali e più propulsive. L’irruzione di una religiosità pervertita del sacrificio (il terrorismo fondamentalista), l’inganno della produzione finanziaria della ricchezza (la speculazione sul debito), la disperazione crescente dei popoli abbandonati (le migrazioni di massa), la fragilità sottovalutata della gestione tecnocratica (la paralisi della pandemia): sono gli eventi-sintomo di un presente della disillusione che si affaccia all’orizzonte dell’epoca.
Sullo sfondo dell’umanesimo personalistico e comunitario che accompagnava le promesse moderne della crescita economica e tecnologica, l’odierno riflusso delle pulsioni globali dell’individualismo e del tribalismo, con i loro endemici effetti di separazione etnica e di svuotamento democratico, ci ferisce con più cruda evidenza. La crescita della disuguaglianza proprietaria e dell’abbandono sociale, d’altra parte, moltiplica gli effetti negativi di una globalizzazione tecno-economica vistosamente separata da una corrispondente evoluzione della solidarietà etico-umanistica.
L’effetto emerge, culturalmente, dalle zone d’ombra della modernità occidentale del soggetto. La politica e il diritto della città secolare sono vistosamente in affanno nei confronti dello scarto ingovernabile tra la libertà delle affezioni individuali e i vincoli del bene comune. Il processo della loro separazione reale corre più veloce di ogni progetto di ideale ricomposizione. La globalizzazione della potenza tecnica ed economica, d’altra parte, con tutti i suoi innegabili vantaggi, non è minimamente in grado di disinnescare questo conflitto. In ogni caso, questa non sembra essere la sua preoccupazione dominante: al contrario, essa continua a rivestire la razionalizzazione dei suoi formidabili dispositivi di assoggettamento e di selezione con la retorica del suo eccitante immaginario di godimento e di inclusione.
La violenza anti-umanistica della presunta neutralità e universalità del dispositivo tecnico-economico, viene abilmente consegnata all’oblio di un passato imperialistico e coloniale che promette di non ripetersi. La sua oscura anima predatoria e separatrice, però, continua a mostrare i suoi effetti planetari sull’ecologia ambientale e sull’impoverimento sociale (Francesco, Laudato si’).
La narrazione degli effetti planetari di liberazione di enormi masse dalla condanna all’avvilimento e all’estinzione, legata al progresso tecnico-economico della ragione strumentale, non è falsa. Ma la riproduzione degli stessi effetti, con altri mezzi e su più larga scala, è ugualmente innegabile. La resistenza alla leale presa d’atto di questa contraddizione, legata alla massiccia piegatura ideologica della ragione tecno-economica, è il buco nero di una cultura individualistica della libertà e del progresso impavidamente associata al materialismo devoto dei beni e dei consumi.
La sua promessa di liberazione dell’individuo rimane però straordinariamente attraente per le masse: fino al punto da arrivare a ricomporsi con la suggestione esercitata dai vecchi modelli di una governance autoritaria e autarchica, che viene incaricata di difenderla. La sua affidabilità continua a puntare sulla narrazione di una potenza virtualmente distributiva e inclusiva del capitalismo finanziario, che giustifica la sua concentrazione elitaria nelle mani di pochi come la condizione inevitabile per l’incremento del benessere di molti. La promozione mediatica del desiderio godibile come scopo supremo della qualità esistenziale ha un effetto di incantamento globale. Dopo tutto, chi non vorrebbe vivere come noi? I supermercati sono sempre aperti, il divertimento è sempre in scena, le connessioni ci rendono presenti ovunque, la velocità moltiplica le opportunità, i servizi sessuali sono in libero accesso, i quartieri residenziali sono bolle di confortevole insediamento, protetto ed esclusivo, per il cittadino globale di ogni metropoli del pianeta.
Nella realtà, però, l’angoscia di un’esistenza insignificante, che ora abita pervasivamente le generazioni dell’emisfero occidentale, reclutate a sostegno di questo mondo confortevole e insensato, si salda sotterraneamente con la frustrazione di un’esistenza deprivata, in cui abitano da lungo tempo generazioni e popoli ormai sicuri di esserne esclusi, a vantaggio di una élite sempre più ridotta di privilegiati. La massa critica accumulata da questo segreto appuntamento nichilistico delle generazioni, destabilizza progressivamente tutte le istituzioni della convivenza umana e della creatività intellettuale.
Di fatto, l’aggiornamento politico del sistema, che ha reagito alla contestazione tardo-novecentesca del paternalismo autoritario assorbendo e rilanciando l’individualismo libertario in chiave di generalizzato diritto al godimento, non ha più nessun progetto di responsabilità per la comunità dei liberi e uguali. E niente che possa mettere in salvo le generazioni a venire dal dissolvimento tecnico-economico dell’umanesimo etico-politico. Più che la perdita del padre, ormai, è l’abbandono del figlio la cifra dominante della libertà dei moderni. La lotta totale dei figli – il volto perverso della fraternità dei liberi e uguali, disorientata e tradita da un potere svuotato di autorità – è annunciata. Infine, cercare di guarire l’individualismo con la sua esasperazione, non è neppure più solo un gioco indecente a somma zero: è una partita di giro con saldo inesorabilmente negativo.
Il fallimento degli esperimenti totalitari dell’individuo-massa che deve credere, obbedire, combattere per il partito, è ormai consegnato alla storia (ma sempre pronto a ritornare con altri mezzi). Il fallimento della sperimentazione neo-liberistica dell’individuo-massa, che deve calcolare, decidere, lottare per sé, va in scena proprio ora (mostrandosi del tutto impreparato a sé stesso).
Una convivenza umana plasmata dai valori del self-interest e indifferente all’etica della condivisione, paradossalmente, si rende immodificabile anche per l’attivismo rivoluzionario dei singoli. La trasformazione politica della società molecolare degli individui, liberi e uguali anche nella reciproca indifferenza, è ormai fuori portata anche per ogni pretesa soggettività messianica.
I collaudati algoritmi della lex mercatoria sostituiscono la competenza politica della humana communitas. La libertà che è virtualmente consegnata a ciascuno, cioè quella di essere l’imprenditore e il rappresentante di sé stesso, infatti, ha come riscontro la progressiva evaporazione delle istituzioni comunitarie che dovrebbero garantirla. L’ingenuità della formula “la mia libertà finisce dove incomincia quella dell’altro”, infine, viene qui alla luce della sua ombra inquietante, che l’astuzia della ragione neo-liberistica magicamente rimuove. La tesi, infatti, in un contesto di indiscriminata legittimazione dell’autorealizzazione espansiva e competitiva, incoraggia a immaginare l’ampliamento della mia libertà, per definizione, a spese della libertà dell’altro. Le leggi, prima o poi, seguiranno.
L’individuo riceve sempre meno dalla comunità, la comunità riceve sempre meno dall’individuo. La separazione dei beni impoverisce l’uno e l’altra. Tanto più che questa separazione viene alimentata dalla tenace persistenza di una doppia e contraddittoria ingiunzione che riceviamo quotidianamente dal sapere socialmente dominante.
Da un lato, il racconto della politica ci spinge all’obiettivo del totale arbitrio individuale, che ci rende padroni, per quanto ci riguarda, della differenza della vita e della morte, come anche della distinzione del bene e del male. Dall’altro lato, il racconto della scienza ci impone di accettare la nostra totale dipendenza dai dispositivi organici e tecnologici delle nostre funzioni superiori. Verosimilmente, non reggeremo ancora a lungo agli effetti mentalmente destabilizzanti di questo doppio legame, i cui effetti psico-patologici di massa sono già vistosi.
Nel frattempo, la demoralizzazione dell’amore del prossimo e l’indifferenza per la fraternità dei popoli si diffondono come un virus: e colonizzano vasti territori – geografici e mentali – dello spirito e delle istituzioni che danno forma umana alla nostra iniziazione alla vita (il matrimonio e la famiglia, il linguaggio e la comunità, la scuola e la cura, il lavoro e l’arte, il diritto e la politica).
In questo senso si può dire che la fraternità è la promessa mancata della libertà dei moderni (Francesco, Humana communitas, 11 febbraio 2019). E la salvezza della comunità, verosimilmente, assume oggi una priorità cruciale per lo stesso progetto di riscatto della qualità umana nella sua singolarità individuale. In altri termini, la fraternità/prossimità dell’umano diventa il tratto dominante della questione antropologica del nostro tempo (Francesco, Fratelli tutti, n. 8. 53).
La teo-logia, bene comune
La teologia attuale appare per lo più impegnata ad evangelizzare sé stessa e la propria tradizione, spendendo quasi tutto il suo impegno nell’aggiornamento semantico e/o nella riproposizione valoriale interna del suo patrimonio lessicale: di cui percepisce – ancora solo vagamente – l’estraneità culturale.
Nel quadro del suo pur generoso impegno di ermeneutica della tradizione della fede, ad intra e – nelle intenzioni – anche ad extra, si potrebbe dire che la teologia impiega la maggior parte delle sue risorse nella spiegazione di ciò che il cristianesimo non è, a dispetto delle sue apparenze. Quasi che l’evidenza della fede che rende questo mistero di Dio – la Chiesa stessa! – accessibile a tutti gli uomini e alle donne del proprio tempo, fosse da ritrovare faticosamente sempre al di là dei luoghi comuni in cui il cristianesimo è abitualmente parlato e praticato, visibile e intelligibile.
Questa fatica culturale dell’intelligenza credente, così largamente concentrata sullo sforzo di riconciliare la testimonianza autentica con il cristianesimo apparente finisce per diventare un peso insostenibile per l’agilità della cura pastorale della comunità. E sottrae slancio alla creatività intelligente del pensiero ispirato dalla fede. Nella cornice della sua pura ricomposizione ecclesiastica, il dibattito teologico, apparentemente così ampio di riflessioni, scritture, approfondimenti, progetti, non apre nel pensiero dell’epoca nessun solco a disposizione del seme evangelico, né lascia alcuna traccia del suo passaggio nelle vaste regioni dell’esperienza e del sapere umano.
Una tale sproporzione, fra l’enormità di una produzione di senso autoreferenziale e l’insignificanza della sua creatività culturale, pone persino un problema di moralità dell’investimento dei talenti affidati dal Signore alla generosità dei nostri investimenti. E il pensiero non è certo l’ultimo di questi talenti.
Il disinnesco di questa autoreferenzialità può trarre partito da una seria conversione alla chiave ermeneutica della condizione umana adottata da Gesù mediante la sua tipica strategia di confronto dialettico con il sacro: che sta alla radice di tutte le figure affettive della condizione umana (la nascita e la morte, il risentimento e il perdono, la povertà e la ricchezza, il potere e la malattia).
Gesù “dice Dio” sempre e rigorosamente in questo “spazio comune” dell’umano. La prossimità umana è sempre una decifrazione del sacro. La stessa perversione umana è sempre un fraintendimento del sacro. Oggi siamo perfettamente in grado di riconoscere che la pervasività fascinosa e terribile del sacro, dal punto di vista dell’antropologia culturale, sta proprio nel fatto che esso rimanda – in tutte le religioni, in tutte le culture, in tutte le civiltà – alla forma assoluta dell’ingiunzione e dell’interdetto che devono essere salvati ad ogni costo, se vogliamo salvarci.
La religione è la forma a noi nota di questa elaborazione e del suo esercizio nostrae salutis causa. Ma ora appare sempre più chiaro il fatto che il mistero di questo debito nei confronti del sacro continua ad operare anche a distanza dalle forme religiose tradizionali della sua interpretazione e del suo investimento esistenziale e sociale, culturale e istituzionale. La stessa società secolare odierna, in evidente difficoltà nella gestione del sacro, deve essere incalzata su questo tema, affinché produca un pensiero più smaliziato e più responsabile di questa dislocazione del sacro.
Che cosa è realmente questione di vita e di morte, per la città secolare, fino al punto da imporre il sacrificio della vita dei singoli? Chi e che cosa siamo disposti a custodire, ad ogni costo; chi e che cosa siamo disposti a sacrificare, senza colpa? La teologia, in virtù della propria specifica e insostituibile frequentazione e conoscenza dell’interpretazione del sacro, assimilata dalla radicale critica religiosa della religione stessa, rivelata in Gesù, è in grado di far lievitare il pensiero delle profondità pervasive del sacro – religiose e irreligiose – a vantaggio dell’intera cultura umana.
La teologia ecclesiale deve perciò acquisire lo stile di un pensiero creativo e ospitale per tutti, non ridotto a un gergo per iniziati. Sembra evidente che questo comporterà un significativo mutamento delle istituzioni ecclesiali. Quelle accademiche certamente, ma anche quelle di base. Il focus – e il canone – di questa trasformazione di base può essere riassunto in una immagine fondante della rivelazione medesima.
La scena originaria della rivelazione evangelica ha sempre questa struttura: Gesù, i Discepoli, la Folla dei chiunque (e l’Antagonista, variamente interpretato da figure religiose e/o civili). L’ecclesiologia moderna si è specializzata nel rapporto immediato fra Gesù e i Discepoli, rinviando a un momento successivo l’evangelizzazione della Folla. Fino a che tale evangelizzazione è venuta praticamente a coincidere con il reclutamento ecclesiastico e l’obbedienza gerarchica di fedeli battezzati. Questo irrigidimento e riduzione della scena “ecclesiale” originaria dell’evangelizzazione appare oggi in tutta la sua crisi “pastorale”: sia in ordine alla edificazione, sia in ordine alla missione della Chiesa.
I Discepoli chiamati da Gesù sono essenziali per la mediazione autorevole dell’autenticità della rivelazione: ma non sono l’unico modello della fede. Senza la Folla dei chiunque non si fa la Chiesa di Gesù. Non per caso la Samaritana e la Cananea, Zaccheo e il Centurione, figure emozionanti della fede suscitata e riconosciuta da Gesù, appaiono sottodimensionate nella teologia e nella pratica ecclesiale. La dimensione “popolare” della rivelazione e della relazione evangelica attivata dal quadro complessivo della manifestazione di Dio in Gesù, va dunque assimilata e restituita come “scena originaria” che definisce l’evidenza e la testimonianza della Chiesa nella condizione umana che è comune. Non si tratta di un concetto di classe o di un appello demagogico. Il “popolo di Dio” non è una quantità demografica o una selezione confessionale: il popolo di Dio è il simbolo reale della destinazione universale della grazia (LG, 9; cfr. Francesco, Fratelli tutti, 156-162).
Il popolo di Dio si apre un varco a partire dagli uomini e dalle donne delle Beatitudini, e frequenta i perduti e gli esclusi, in vista di una speranza della salvezza che si apre per tutti. Perché è l’apertura della grazia, la cui giustificazione è l’amore di Dio che fa nascere e fa rinascere: anche ai confini del nulla. Il modo di raggiungere e intercettare l’umanità alla quale è destinata la rivelazione della grazia di Dio nostrae salutis causa è questo.
Il luogo della fede – e del suo pensiero – si definisce in questo modo: la sua destinazione a tutto l’essere umano e a tutti gli esseri umani si rende intelligibile, persuasiva, salvifica, proprio così. Tutto il resto – ministero, carisma, istituzione – è al servizio di questo: o “serve” a questo o non serve “a nulla” (1 Pt 5, 3; 2 Cor 1, 24). Nemmeno se si parlano le lingue degli angeli o si spostano le montagne, nemmeno se si fanno miracoli nel nome di Gesù o lo si invoca continuamente ‘Signore, Signore’ (cfr. 1 Cor 13, 1-3; Mt 7, 21-22).
Il kairos odierno impegna la teologia, in primo luogo, alla riabilitazione del dono della parola in cui l’umanità dei popoli si dice e si ascolta direttamente. La scienza non ha alcuna ragione per mortificare l’irriducibilità della testimonianza che l’umano rende a sé stesso. Restituire dignità di parola e autorità di testimonianza all’immediatezza dell’umano che è comune – la vita quotidiana dei popoli, appunto – è la prima mossa che ci aspettiamo da una politica umanistica e da una cultura critica degna dell’autorità che le affidiamo.
Questa politica, al momento, non c’è. Il suo soggetto evapora e il suo pensiero è debole. Non mancano però le forze intellettuali che sarebbero disponibili a sostenere le premesse e le motivazioni di nuove politiche dello spirito. Sono molti, e sempre di più, gli intellettuali che vengono attraversati da un lampo di orgoglio per la loro antica missione umanistica. Per incoraggiare l’alleanza si tratta solo di vincere antiche diffidenze – imposte dall’inerzia degli apparati di appartenenza, più che da una convinzione argomentata e verificata – in nome della causa comune.
La causa comune è oggi la salvezza del senso umano dell’essere al mondo: del senso del suo ingresso, del senso del suo congedo, del senso di ciò che ogni singolo essere umano imprime per sempre nella storia del mondo. “L’unica filosofia capace di giustificarsi di fronte alla disperazione sarebbe quella di osservare tutte le cose nel modo in cui esse si presentano dal punto di vista della redenzione. La conoscenza non ha altra luce se non quella che al mondo deriva dalla redenzione: tutto il resto si limita a modificare continuamente le cose e rimane un brano della tecnica” (Th. W. Adorno).
Ebbene, sì, la causa della salvezza dell’umano – e con essa, dell’uomo e della donna che vengono al mondo – appare sempre più come il kairos condiviso di questo tempo di depressione del singolo e di agonia della comunità.
La fede non giustifica alcun privilegio dei fedeli, né impone alcuna estraneità degli altri, di fronte al comandamento universale del Creatore, sempre in vigore, che impegna tutti. Ossia, la consegna all’uomo e alla donna – anche a quelli che vivono ora! – del compito di dare bellezza al mondo e speranza alla storia: anche nei passaggi più difficili.
Questo passaggio, tuttavia, non si apre un varco nel mondo e nella storia senza la rivelazione inaudita della redenzione della creatura, attraverso l’evento della irrevocabile alleanza che Dio stabilisce con la creatura umana nell’umanità del Figlio crocifisso e risorto. Non c’è altra evidenza a sostegno della certezza che la fede evangelica comunica al mondo. La nostra causa, altrimenti perduta, è la causa della tenerezza di Dio. La potenza del nostro riscatto, altrimenti delirante, è la potenza dell’amore di Dio. Non c’è altra via della vita, né altra intelligenza della fede, in grado di illuminare la comune speranza.
L’arco riaperto all’ispirazione di una Chiesa dei testimoni della “sequela”, che si edifica in presa diretta con la prossimità di “chiunque”, unisce Ecclesiam suam e Fratelli tutti. La teologia deve costruire un ponte che lo renda praticabile. E attraversarlo per prima, rimuovendo gli ostacoli. L’intelletto d’amore al servizio della Chiesa che c’è, senza il quale nessun carisma ha valore, è un debito d’onore per il teologo credente.
La formula della “fraternità” ecclesiale, che il gesto dell’enciclica Fratelli tutti estende radicalmente alla “prossimità” evangelica di Dio, indica un tratto relativamente inesplorato della sua destinazione. La fraternità cristiana si purifica e si perfeziona nel dinamismo – sempre incompiuto – del pensiero e della contemplazione, della parola e dell’azione che portano alla luce la prossimità di Dio per chiunque. Una fraternità religiosa, ministeriale, sacramentale, rituale, che non arriva fino a questa sovrapposizione perderà sé stessa, si corromperà nell’intimo.
La sua comunione diventa sostituzione del fondamento che la edifica ed esclusione del destinatario che la giustifica. In quel momento stesso l’evangelizzazione è già fallita, malgrado le apparenze di una più estesa cristianizzazione. Questo sbilanciamento ricade fatalmente sul tempo estatico della liturgia, che dovrebbe aprire l’incanto per l’agire di Dio nel mondo e nella storia: la concezione mestamente autoreferenziale della comunione ecclesiale alimenta lo sfondo tipicamente depressivo di molte delle nostre liturgie. Il segreto appuntamento del kairos mondano di Dio e della parusia misterica del Signore si riempiono o si svuotano insieme.
Un appello ai discepoli
Secondo la lungimirante prospettiva teologica ed epocale dell’enciclica di Paolo VI “Ecclesiam suam”, il legame ecclesiale va concepito nella sua interezza secondo un ritmo di cerchi concentrici che abbracciano, già ora e sempre, mondi diversi: dai più vicini ai più lontani dal regno di Dio.
Questa visione profetica dell’ecclesiologia, che ancora non ha conosciuto la generosa ripresa teologica e pastorale delle sue sistematiche implicazioni, è la premessa adeguata della missione ecclesiale che l’enciclica “Fratelli tutti” dispiega compiutamente. In questa visione, la Chiesa è testimone della potenza unificante della grazia che riscatta il mondo: non lo strumento di una mondanità separata della fede che lo divide in due. Nessuna autentica comunione dei discepoli credenti si può dare, che non sia fondata sulla intercessione per l’intera comunità umana, qui ed ora.
Il Figlio non viene “per condannare il mondo, ma per salvarlo” (Gv 12, 47). E il Cristo morì per noi, empi, prima che ci convertissimo: ossia, ci salvò “quando ancora eravamo peccatori” (Rom 5, 6). Il primato di questa evidenza testimoniale della forma ecclesiae, radicata nell’universalità cristologica della grazia, deve ridiventare immediato nella percezione di chiunque e saldo nella convinzione dei credenti.
L’esperimento europeo della società cristiana – che a suo modo, ha pure cercato di scongiurare il radicale dualismo di due mondi totalmente contrapposti e separati dal punto di vista della salvezza e della destinazione dell’umano – tramonta ora irrevocabilmente.
La Chiesa sta uscendo proprio ora, faticosamente e generosamente, dall’equivoco sempre ricorrente dell’ultima tentazione respinta da Gesù, che è rimasta attraente per secoli. La missione religiosa va sottratta al governo politico della città secolare. La regia ecclesiastica della società civile, fatalmente indotta a fare sistema con i poteri mondani, toglie troppa libertà al vangelo e offre troppe opportunità al diavolo. Ora è necessario completare il processo, congedandosi anche dal progetto culturale di una regia ecclesiastica dei saperi umani. Questa doppia limitazione non va affatto concepita come distanza e dimissione della comunità credente dall’impegno a favore della condizione umana pienamente condivisa: al contrario.
La manifestazione di Dio va pensata – essa stessa – come “bene comune”, da trafficare per arricchire la comunità umana, e non come una “proprietà privata” della comunità ecclesiale, che assicura una rendita di posizione. L’obiettivo non è l’esercizio di un super-potere, o l’egemonia di un pensiero unico, più o meno giustificato dalla fede. L’obiettivo la riapertura, nella storia comune, di una speranza di riscatto per il mondo condiviso. Incominciando proprio dall’impossibile possibilità della speranza per coloro che sono già da ora poveri e deprivati, scartati e perduti: apparentemente senza appello. La Chiesa testimonia l’appello di Dio proprio e prima di tutto a loro: e quindi per tutti. L’edificazione di un mondo cristiano parallelo, alternativo a quello umano che è comune, rappresenta un passato della storia della testimonianza, che ora non illumina il futuro che le viene aperto da Dio.
I nativi cattolici della cristianità europea continuano a rappresentarsi in qualche modo il loro cristianesimo come un modello sul quale l’intera cattolicità planetaria deve sincronizzarsi e conformarsi: vuoi in ordine ad una ritrovata continuità della tradizione autentica (riabilitando la sua immagine contro-riformista), vuoi in vista di una nuova cristianità riformata che ne dovrebbe nascere (ritrovando la primitiva purezza). In entrambi i casi, l’immagine di fondo insiste comunque sulla riabilitazione di un ritorno al passato. Questo rinvio archeologico, anche a prescindere da ogni valutazione dei suoi argomenti, sottrae mente e cuore al compito di abitare il nuovo kairos di Dio: che nel passato, semplicemente, non c’era. Un mondo umano istituzionalmente non-religioso è un interlocutore storicamente inedito. La bellezza e la sfida del kairos che Dio ci chiede di abitare evangelicamente e creativamente sta qui.
Il nostro appello, infine, è un appassionato invito alla teologia professionale – e in generale ad ogni credente – perché offra uno spazio privilegiato e comune all’impegno di decostruzione del duplice dualismo che ci tiene attualmente in ostaggio: fra la comunità ecclesiale e la comunità secolare; fra mondo creato e il mondo salvato.
Il primo lato del dualismo che deve essere decostruito è appunto quello che conferisce plausibilità al rapporto chiesa-mondo, come se fossero realmente due mondi, che si possono – si devono – abitare alternativamente, per negoziarne successivamente il rapporto e l’intesa. Noi credenti siamo un modo di abitare il mondo di tutti, ma non siamo tutt’altro mondo.
Totalmente appassionati per il suo destino forgiato dall’alleanza operosa dei popoli e insieme chiamati di abitarlo come iniziazione alla vita nuova che deve venire da Dio. In realtà, abitiamo in questo modo anche la chiesa: non come un’aristocrazia spirituale degli eletti, che poi si concilia con la mondanità spirituale del suo sostentamento, ma come una tenda ospitale che custodisce l’arcobaleno dell’alleanza fra Dio e la creatura umana, a cominciare dalla più esposta alla vulnerabilità della vita. Esiste una drammatica potenza del male, nel mondo: ma non esiste una maledizione divina sul mondo.
In questo momento l’habitat ecclesiastico appare molto sbilanciato sull’idea di un mondo-rifugio, dove avvengono miracolosamente le cose della grazia. In realtà, le cose della grazia avvengono, grazie a Dio, ogni giorno e in tutto il mondo. Questo dice la fede nell’avvento imprevedibile e nella prossimità universale del regno di Dio.
Il grembo di questo accadimento è il comandamento creaturale di Dio, che affida il mondo e la storia all’uomo, alla donna e alla generazione, al pensiero e al lavoro, all’arte e alla tecnica, alla economia della città ospitale e alla passione per la giustizia condivisa. L’evidenza primaria della fraternità ecclesiale deve restituire la parola di Dio a questa vitalità e questa vitalità alla parola di Dio.
L’autorevolezza di questa parola dell’intesa dell’uomo e della donna, che è chiamata a governare il mondo nell’attesa quotidiana dei doni di Dio è oggi troppo mortificata da una scienza presuntuosa e da una teologia gergale. Il compito primario dell’intellettuale, credente e non credente, è quello di restituire autorità di testimonianza dell’umano alla vita comune dei popoli. La fede stessa impara l’umano dall’umano. Il Figlio di Dio, non per caso, ha sostato per un tempo incredibilmente ampio nel grembo dell’umano, crescendovi in età, sapienza e grazia: imparando da noi come ci prendono il cuore, e come ci trapassano l’anima, le cose della vita.
E quando incominciò a parlare e ad agire “le cose del Padre”, il “popolo” ha percepito infallibilmente la profondità di questa dimestichezza. Ed è rimasto impressionato dalla sensibilità con la quale la novità evangelica di Dio si faceva strada in essa. In questo scambio emozionante, il pensiero della fede e il pensiero umano crescono insieme. Nella nostra tradizione ecclesiale moderna, il governo esclusivo dei preti, il modello unico dei religiosi, l’enciclopedismo catechistico delle dottrine hanno realizzato un effetto di saturazione della forma fidei che l’ha allontanata da questa immediatezza della vita comune: e ora deve cedere sotto il suo stesso peso.
L’isolamento del sistema ecclesiastico è per lo più alternativamente ricondotto all’indebolimento della tradizione sacrale e all’accerchiamento del progresso secolare. In realtà, esso è l’effetto di una Chiesa che si sta sempre più concentrando su sé stessa: e come chiunque, se cerca la propria vita in sé stesso, secondo il vangelo la perderà.
Questa concentrazione ha finito per togliere ossigeno alla letizia creativa e all’improvvisazione folgorante del fermento evangelico, che scompiglia allegramente le routines secolari della ragione e della religione e scuote le tristi passioni dell’autismo affettivo dell’io che sta colonizzando il pianeta. La dilatazione della rete della fraternità battesimale, come base sicura per ogni prossimità testimoniale, è la mossa decisiva.
Dal punto di vista dell’esemplarità della forma cristiana, sarà necessario esplicitare bene il complemento propositivo della formula che definisce lo speciale ministero ordinato rispetto al comune sacerdozio dei fedeli (distinto non solo per grado, ma in modo sostanziale). Il sacerdozio comune, infatti, a sua volta, non è semplicemente un grado inferiore o una integrazione accidentale del ministero ordinato. Esso è un tratto sostanziale e integrante della fede testimoniale, sigillato dal sacramento battesimale. Non è una versione debole e secondaria della mediazione sacerdotale istituita dalla consacrazione ministeriale.
L’uscita dal modello clericale della forma cristiana, che restituisce al ministero ordinato la sua specifica autorevolezza e la sua limitata configurazione, comincerà teologicamente di qui. Senza dimenticare che il nuovo paradigma della ecclesialità fraterna e testimoniale dei battezzati, al servizio del quale devono riconfigurarsi ministeri e carismi, dovrà essere accuratamente determinato e autorizzato nel contesto sinodale dell’intera comunità, e non soltanto incoraggiato e raccomandato.
D’altra parte, la riaffezione per una pratica della comunità come modello famigliare e rete fraterna, che si congeda elegantemente dal modello militare della catena di comando e punta lietamente sull’alleanza creaturale dell’uomo e della donna, può iniziare pastoralmente anche subito. Tanto più se si tiene conto del vasto numero di sacerdoti, di religiosi e di religiose, che cercano generosamente di onorare il loro mandato ministeriale e, rispettivamente, la loro vocazione carismatica, nell’attuale inadeguatezza degli apparati – teologici, canonici, formativi – che dovrebbero liberarne le energie evangeliche e sostenerne la gioiosa trasparenza.
Il secondo tratto del dualismo che deve essere decostruito, una volta per tutte, a vantaggio del nuovo paradigma della vita e della missione ecclesiale, è quello che separa – e addirittura oppone – il mondo della creazione (risolto nella natura) e quello della redenzione (extra-naturale).
Questo parallelismo, non svolge più la funzione ontologica e politica per la quale era stato costruito. Nella luce della predestinazione in Cristo di tutte le cose e della passione del Figlio per la compiuta liberazione dal male della creatura, la suprema libertà di Dio che dà la vita, la salva, la abbraccia nella sua, è perfettamente al sicuro. E la libertà della creatura, che le conferisce l’onore e l’onere di rendere abitabile il mondo della vita, nell’attesa del suo riscatto, è sostenuta dalla grazia che ci incoraggia a sperarlo con tutte le nostre forze. Il cambio di registro appare decisivo per il kairos attuale.
E tutto il dogma cattolico sta dentro questa concentrazione, senza perdere uno iota. Se riusciamo a convertire l’intera lingua cristiana alla ricchezza della grandiosa e concreta teologia della creazione che iscrive la rivelazione attestata (dal Genesi all’Apocalisse) e forma il nucleo dell’evangelo del regno di Dio sigillato da Gesù crocifisso e risorto, subito la lingua cristiana si farà spontaneamente prossima e interlocutoria per la lingua – le lingue – in cui pensano e parlano della vita e di Dio gli abitanti della terra.
La fede imparerà ad abitare i linguaggi del mondo secolare, senza pregiudizio per il suo annuncio della vicinanza di Dio. E la prossimità ecclesiale della fede sarà abitabile anche per la Cananea, la Samaritana, Zaccheo, il Centurione. Senza pregiudizio per la loro distanza.
Lettera aperta ai saggi
“Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2 Cor 5, 20).
Noi chiediamo umilmente e fermamente agli intellettuali del nostro tempo di purificare la cultura dominante da ogni compiaciuta concessione agli spiriti conformistici del relativismo e della demoralizzazione. I popoli sono già abbastanza stremati dalla prepotenza della tecnocrazia economia e dall’indifferenza per l’umano condiviso: l’idolatria del denaro è diventata un’ideologia sofisticata e inafferrabile, capace di mille giustificazioni razionali e dotata di mezzi straordinari per affermarsi.
Noi vi supplichiamo, in primo luogo, di non offrire all’ingiustizia del denaro la complicità della ragione e del pensiero, della scienza e del diritto. Dobbiamo impedire che il denaro divida ciò che Dio unisce: gli esseri umani, in primo luogo e prima di ogni altra cosa. Noi vi supplichiamo di restituire i popoli al pensiero amichevole della nostra comune origine e della nostra comune destinazione. È venuto il tempo di restituire al sapere dell’umano l’onore della sua rettitudine e l’onere della sua responsabilità: la conoscenza della verità non è mai esonerata dalla passione per la sua giustizia. Non possiamo sostenere ancora a lungo una pratica della conoscenza che concede alla scienza di essere esonerata dalla sensibilità responsabile per l’umano che è comune.
L’autoreferenzialità esasperata dell’individuo moderno, soggetto di un desiderio che cerca realizzazione di sé nella separazione dall’altro, ha contaminato le forme della comunità. Esse stesse stanno diventando permeabili ad uno spirito della competizione ostile per il godimento dei beni resi disponibili dalla natura e dalla cultura.
Ritornano – o perlomeno riprendono vigore inaspettato – i vecchi fantasmi: il razzismo, la xenofobia, il familismo amorale, la selezione elitaria, la manipolazione demagogica. La sfiducia nella comunità e la demoralizzazione del singolo si sostengono a vicenda, nella circolarità viziosa indotta da una visione dell’umano che perde ragioni di cooperazione e accumula motivi di diffidenza. Eppure, non appena siano interrogati al di fuori dei luoghi comuni e delle risposte preconfezionate, milioni di individui, attestano la loro spontanea aspirazione ad una politica e ad una legalità protettiva nei confronti della libera e felice reciprocità degli esseri umani di tutte le religioni e culture.
Come anche la loro speranza in una economia e in una tecnica disponibili alla cura delle nostre vulnerabilità e generosa nel sostegno della nostra fatica di vivere. Questi milioni, sono quelli in cui si riconoscono – in ogni angolo della terra e sotto ogni cielo – uomini e donne che, ogni giorno, si spendono per assolvere i loro impegni, per onorare la parola data, per crescere degnamente i loro figli, per essere di aiuto alla comunità di appartenenza e all’ospitalità dell’estraneo. Una vita umana degna di questo nome continua ad esistere grazie alla loro resistenza.
La cultura non è generosa nei confronti di questi milioni: spesso, addirittura, ironizza sulla loro ingenuità, sulla loro generatività, sulla loro disponibilità. Li fa sentire antiquati. Non incoraggia l’ammirazione per la bellezza della loro dedizione. Trova anomala la loro sobrietà e si meraviglia della loro generosità. Non sostiene l’entusiasmo di una visione dell’umano in cui tutti possano essere fieri di essere riconosciuti come partecipi: proprio perché riscoprono la gioia di sostenere insieme la lotta contro i suoi avvilimenti e di appassionarsi insieme per le sue conquiste.
Quando promettiamo ai nostri simili benessere e giustizia in cambio di potere e di ricchezza, dovrebbero tremarci le labbra al pensiero di un giuramento pronunciato con presunzione e disonorato con leggerezza. Il potere dei liberi e uguali non è un presidio scontato per il diritto dei poveri e per la fraternità dei popoli.
Noi vi proponiamo, a questo riguardo, un’inversione di tendenza nel pensiero dell’epoca. Non disprezzate il Nome di Dio, al quale l’invocazione dei credenti sinceri si rivolge per tutti gli uomini e le donne del pianeta, e per il quale gli stessi credenti si rendono disponibili ad intercedere per tutti i poveri e gli abbandonati. Criticate noi, quando dovete – e persino quando non dovreste – ma custodite con rispetto il mistero – anche per voi insondabile – del Nome di Dio.
Nessuno è senza scampo e senza speranza, fino a che questo nome è custodito per tutti. Tutti siamo più nudi e più cattivi quando il crocifisso è sbeffeggiato e il risorto deriso. La fede cristiana osa l’annuncio e la testimonianza di un Dio destinato all’uomo in modo irrevocabile, eterno, senza ripensamento: disposto a onorare il suo legame riportandoselo a casa, da ogni perdutezza. L’onore di Dio – la giustizia del voler bene che genera vita e promessa di vita – è messo in gioco una volta per tutte e per sempre con questo legame: la sua gloria, per suo libero e sovrano intenerimento, è il nostro riscatto. Noi supplichiamo. Non sbeffeggiate il santo Nome di Dio: lasciatevi riconciliare con esso.
Presidiate con noi – incalzando noi stessi – il mistero di questo voler bene e la fede nella sua giustizia, che nessun altro può creare. Le religiosità stessa, esposta all’urto stupefacente e tremendo di questa rivelazione, può perderne di vista, di volta in volta la tenerezza e la forza. Nella vertigine del paradosso di amore e di giustizia che abita il nome di Dio, la religione stessa può rimanere vittima della loro scissione. Può svuotare la tenerezza della sua forza, consegnandola all’anestesia di una mistica dell’anima bella, senza amore della giustizia e senza cognizione del dolore.
Come anche può impugnarne la forza, erigendo muri e accendendo conflitti in nome di Dio. Dobbiamo vigilare insieme sugli effetti dell’impatto del sacro sulla mente dell’uomo. Il vangelo mette un sigillo d’oro a questo presidio: la religiosità medesima deve accettare di essere messa alla prova. Questo sigillo è l’amore del prossimo, che il vangelo porta definitivamente alla stessa altezza del comandamento dell’amore di Dio. L’Unico che possa e debba essere amato “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente”. Perché Egli solo è il mistero benedetto e salvifico del volere bene che deve abitare ogni cosa: di tutta la tenerezza e di tutta la potenza che sta all’origine della nostra vita e ci accomuna nella promessa della sua destinazione.
Il “prossimo” del vangelo non è né il vicino, né il lontano. Il prossimo del vangelo è “chiunque” sia umano e in difficoltà. La prossimità evangelica misura – senza poterla definire – la serietà delle buone intenzioni e delle anime belle. E stabilisce la serietà dei modi in cui la comunità – e ognuno in essa – viene messa alla prova del suo reale amore per la giustizia in favore di chiunque si trovi così al “limite” del voler bene, da sentirsi praticamente “fuori” da ogni comunità umana. Non perché abbia voluto uscirne, ma perché la comunità si è ritirata, invece di allargarsi.
Noi stessi, pensatori interni o esterni alla fede, impegnati come don Chisciotte nell’ossessivo torneo della ragione e della fede – dove alternativamente ci è assegnata la parte dei mulini a vento – non abbiamo forse colpevolmente trascurato le vittime reali del nostro accademismo inutilmente polemico?
Le generazioni che hanno perso fiducia nella disinteressata mediazione intellettuale di legami migliori del singolo e della comunità, ne hanno forse tratto qualche passione lieta per la ricerca della sapienza che tutti ci riguarda? La storia umana, prima di essere storia di governi e di amministrazioni, di imperi e di guerre, di tecnologie e conquiste, è storia di alleanze di vita e di fraternità di cammino. Non ci sarà da rallegrarsi, proprio per questo, se la comunità cristiana ricomincia a guardare la storia umana dal punto di vista della benedizione che Dio rappresenta per l’umano che ci è comune, senza esclusioni e senza privilegi?
La tenerezza e la forza dell‘apertura evangelica alla condivisione e alla destinazione delle benedizioni della vita – nel Figlio risorto e nello Spirito creatore – è il fondamento e l’argomento della testimonianza credente. O prima e dopo l’abisso qualcuno ci ama, o niente. Per nessuno.
La Chiesa è oggi sollecitata, dal suo stesso magistero più alto, a riconsiderare, con sguardo più umile e più spregiudicato, al tempo stesso, quali sogni e quali visioni ha realmente nutrito, quali invocazioni e intercessioni ha realmente fatto circolare, quale onore e quale dignità ha concretamente saputo immettere nella drammatica della condizione umana dei singoli e dei popoli.
Infine, la humana communitas deve abitare degnamente la terra e fare di tutto per non abitarla invano: cioè per niente o come se fosse niente. Salvare la fraternità per rimanere umani. Senza l’apporto delle ragioni umane del senso, sempre di nuovo cercate per prove ed errori, il pensiero cristiano della fede non può realmente abitare la terra con l’onestà intellettuale che la sua testimonianza dell’incarnazione di Dio esige.
La teologia deve a sua volta accettare di fronteggiare criticamente le perversioni del sacro, per prove ed errori, in modo che non godano della complicità della fede. Di questa alleanza del pensiero sensibile all’umano e della decifrazione salvifica del sacro siamo in debito per le generazioni a venire. Dopo aver passato qualche secolo a imporre alle coscienze la necessità della loro reciproca estraniazione, per puro assoggettamento alle discipline di partito, siamo convinti che è venuto il momento di sperimentare la libertà della loro empatica frequentazione, in vista di nuove politiche dello spirito.
Disposti alla sublime sprezzatura di tutti gli apparati religiosi e secolari che, nelle guerre fratricide – delle religioni e contro la religione – hanno campato fin troppo, a spese nostre e dei nostri figli. Fratelli e sorelle tutti e tutte: non uno/una di meno.
Grazie, con spirito di sincera amicizia, per la Vostra attenzione.