Con una iniziativa che viene da tre Atenei romani (LUMSA, Gregoriana e Anselmianum), ad un anno dalla morte del p. Ghislain Lafont, si è tenuta il 9 giugno 2022, a partire dalle ore 14,30, la prima edizione della “Lectio Ghislain Lafont”. Presso la sede della LUMSA, alla Transpontina, con il saluto di accoglienza del rettore F. Bonini, e con una parola del rettore della Gregoriana N. Gonzales e del rettore dell’Anselmianum B. Eckerstorfer, si è svolto dapprima un lavoro seminariale, su un testo del p. Lafont.
Successivamente J.-L. Marion ha tenuto la sua “lectio” con il titolo “Voir l’être autrement” (Vedere l’essere altrimenti). La prima parte del pomeriggio è stata caratterizzata dal confronto sul testo di Gh. Lafont, Que nous est-it permis d’esperer? (Che cosa possiamo sperare?) ed è stata introdotta da un’accurata lettura offerta dallo stesso J-L Marion, alla quale hanno corrisposto poi numerosi interventi di dottorandi dei tre Atenei.
Si è trattato di un confronto ampio, aperto, ricco, vivace e capace di mostrare la vitalità del pensiero simbolico e “pros-logico” del teologo francese, nei campi più diversi di applicazione. Nel confronto appassionato con la teoria che il testo offre sul piano filosofico e teologico, J.-L. Marion ha formulato una definizione di Lafont come “fenomenologo selvaggio” che ha suscitato ammirazione e discussione.
S. Biancu ha osservato che Lafont amava definirsi, provocatoriamente, come un “materialista”.
La “lectio” successiva ha offerto uno spaccato magistrale del pensiero che Marion ha sviluppato negli ultimi decenni, mediante una fine applicazione del metodo fenomenologico all’interpretazione della tradizione filosofica e teologica, con al centro la comprensione dell’essere come dono e l’apertura alla logica divina della kenosi.
Una memoria e un compito
Nel suo saluto alla Lectio, il rettore dell’Ateneo S. Anselmo, B. Eckerstorfer, ha messo in rilievo un tratto importante del magistero teologico di Gh. Lafont, che illumina anche il senso di questa iniziativa: “La memoria di un grande professore e di un monaco benedettino, che trova forma nel lavoro allo stesso tempo di docenti e di studenti, è un modo di concepire la sua eredità che appare particolarmente congeniale a ciò che è stato Gh. Lafont, per il Pontificio Ateneo S. Anselmo e per le altre istituzioni teologiche romane che lo hanno ascoltato e apprezzato.
La sua lunga presenza di docente e di “uomo sapiente”, nel nostro Ateneo e presso la PUG, ha rappresentato una voce “alta” e insieme “altra”. La sua altezza era anche una alterità. Che però passava anzitutto per le cose semplici. Era alta perché non aveva mai preso l’accademia come impegno totalizzante. Il p. Ghislain non si lasciava sequestrare dallo studio ma era rimasto, per tutta la sua lunga carriera di molti decenni, professore “per un solo semestre”, perché nell’altro tornava nella sua abbazia a lavora “manualiter”. Ratio et manus era una delle cose che ripeteva, unendo la sapienza di Benedetto a quella di s. Tommaso d’Aquino: l’uomo trova la sua peculiarità nella ragione e nelle mani”.
Ha poi aggiunto, a conclusione del suo saluto: “Nei suoi testi appare, con chiarezza, questa potenza elementare della vita primaria, del lavoro delle mani, dei ritmi del corpo, della vita “regolata”. C’è, in p. Lafont, la traccia inconfondibile della “Regula benedicti” che si fa pensiero, teoria, metodo, sistema con quel distacco così difficile, e così sano, che caratterizza la migliore tradizione della teologia sapienziale monastica.
Questa formula della “Lectio Lafont”, che lo ricorda e lo riattualizza, e che perciò raccorda il lavoro di studenti di dottorato con la parole di dottori di chiara fama, è un bel modo di onorare un professore che, sdoppiando la sua attività tra cura del pensiero e cura della manualità, non ha dimezzato, ma raddoppiato la forza dell’intelletto e il tatto della sensibilità. Con vera gioia mi sento di accompagnare con i migliori auguri l’inizio di questa collaborazione tra Atenei, per assicurare la memoria feconda di un uomo che ha generato intelletto di meticolosa geometria e sensibilità di indicibile finezza”.
Il confronto sul testo di Lafont
Un breve commento merita il lavoro sul testo che si è voluto scegliere per il confronto comune. Un libro sulla “possibilità della speranza” come scoperta della “simbolica”, ossia della correlazione tra soggetto e comunità, tra io e altro, tra “coscienza” e “esteriorità”, colpisce subito, fin dalle prime righe. Si resta sempre colpiti dai magnifici “attacchi” del p. Lafont, che era uomo dotato della “grazia di iniziare”. Ogni suo testo inizia con la coscienza viva di essere non anzitutto un contenuto da comunicare, ma un racconto che interpella e un rito da celebrare.
Lafont era un uomo assolutamente minuzioso, che cesellava i suoi testi con una cura, con una “manualità” straordinariamente fine. Anche l’attacco del volume analizzato nel seminario è singolarmente potente. Nel risuonare delle prime note tutta la sinfonia si fa già ascoltare. Tutto il contenuto sorprendente del volume latet et patet nelle prime 5 righe.
“Scrivere è senza dubbio un mezzo per nutrire la speranza. La mano, forse aiutata da un computer, ha le sue ragioni che il pensiero non afferra, o non afferra del tutto. La mano percepisce, per il fatto di dare loro una forma, delle cose che l’occhio si contenta di ricevere o di immaginare”.
Un attacco singolarmente forte, ma proposto con la rilettura “simbolica” di un atto apparentemente “funzionale” come lo scrivere, e lo scrivere con un “ordinateur” (parola molto diversa dal nostro “personal computer” o peggio “calcolatore”). Non è questione di calcolare, ma di dare ordine, di fare sistema, di aprire alla speranza.
L’ordinamento del mondo che passa “per manus”, attraversa le mani, è un atto del tatto! È la “tastiera”, con il suo ticchettìo, che riordina il mondo, che sceglie le posizioni, che riempie di “nero” la pagina bianca. Dice Lafont: da giovane lavoravo con “forbici e colla”, oggi lavoro con il riordinamento che il PC offre, ma le “icone”, a ben vedere, sono ancora delle “forbici” e delle “incollature”, e le voci delle “tendine” dicono “taglia”, “copia”, “incolla”!
Questo attacco formidabile, con cui nel 2009 Lafont proponeva la “re-introduzione del simbolico” come nuova possibilità di speranza, recupera, allo stesso tempo, il principio della relazione nel religioso e nel politico. E lo fa simbolicamente.
La scoperta della struttura simbolica della parola e del parlare nel “racconto” come condizione del pensiero appare il cuore di una sfida per rileggere l’intera tradizione. La tessitura del racconto, che si compie nel farsi “rito”, diventa l’orizzonte del pensiero e del concetto. Questa è l’operazione che dà speranza e che apre il cuore.
Se confrontiamo l’incipit del libro con il suo explicit, restiamo forse sorpresi dalla singolare corrispondenza: la possibile riapertura della Chiesa che sta al centro della Sorbonne, in vista non della “riapertura al culto cattolico”, ma di destinazione all’uomo simbolico, nelle diverse sue esperienze di trascendenza, intesa in sé e in relazione tra loro.
Eppure, alla fine, Lafont, parlando di questa chiesa che sta al centro della Università più antica di Parigi, dice una frase che è, allo stesso tempo, continuità di tradizione e sua ridicitura nelle categorie simboliche: “Mi piacerebbe che, qualche volta, vi si celebri l’eucaristia, questa misteriosa liturgia con la quale la comunità cristiana si offre a Dio nella speranza di un Avvenire, in comunione con tutti gli uomini, e nella memoria viva della morte e risurrezione di Gesù di Nazareth”.
L’apertura alla speranza inizia dalle mani che scrivono e si conclude con le mani che offrono e che ricevono. Questo modo di pensare la ratio, che riscopre la dinamica simbolica della manus, è la grande eredità che la teologia può continuare a ricevere dai testi ricchissimi di Michel/Ghislain Lafont.
Il lavoro appassionato con cui tanti dottorandi si sono incontrati intorno al testo di Lafont e in dialogo con le autorevoli parole introduttive di J.-L. Marion mostrano la fecondità e il carattere promettente della strada appena inaugurata.
La prospettiva della “Lectio Ghislain Lafont”
Questo orizzonte permette di comprendere meglio il progetto di questa iniziativa. In questo anno 2022, a poco più di un anno dalla morte del p. Ghislain (che si è addormentato il 12 maggio 2021), i curatori della “Lectio” (S. Biancu per la Lumsa, Stella Morra per la Gregoriana e Andrea Grillo per l’Anselmianum) hanno pensato fosse molto opportuno un percorso di confronto con il pensiero libero e forte del teologo parigino, per cercare di ricevere da lui, ancora una volta, un’eredità feconda e perciò una vita piena di sorprese.
Lavorare con lui e lavorare su di lui poteva essere ancora una possibilità e una gioia, un compito e un dono, un esercizio di libertà e un incontro di grazia. La formula della “Lectio Lafont” sembra felice: una sfida di conoscenza e di rielaborazione per i dottorandi e un esercizio di fecondità in atto per un dottore affermato. Diremmo un Lafont maestro nel “gerundio” dei dottorandi e un Lafont interlocutore e collega nell’“indicativo” del dottore.
A ben vedere è una storia che si ripete: quasi 62 anni fa, nel 1960, il dottorando Lafont diventava dottore con un lavoro finissimo su “Strutture e Metodo della Summa Theologiae di s. Tommaso d’Aquino”. Il senso di questa accuratissima indagine stava nella categoria e sotto il segno dell’“inquietudine”: è l’incertezza dei tempi (aveva lavorato sul testo alla fine degli anni 50) a chiedere una ricerca di una tra le fonti più autorevoli, per sottoporla ad un esame delle “strutture” e del “metodo”. Era la metodologia teologica ad essere al centro del suo lavoro.
Il libro fu poi ripubblicato nel 1996, più di una generazione dopo, con una nuova prefazione, che ritornava sull’intento iniziale, con nuove prospettive. In estrema sintesi, Lafont lo presentava allora con questo schema:
- Un criterio decisivo per una buona teologia è il modo con cui tratta il creato, l’umano, la libertà e il finito: il tatto delicato per questa contingenza inaggirabile diventava da allora strutturale in Lafont;
- Il valore della conoscenza analogica, il coraggio di parlare utilizzando distinzioni fini come espressione di un “ottimismo dell’intelligenza” rimaneva come orizzonte sicuro, fermo, solare, dietro ad ogni nube e ad ogni tramonto;
- Conoscenza di Dio, teologia morale e incarnazione erano correlate nella forma di una “storia della libertà”, in una ridisposizione raffinata del materiale classico;
- La teologia contemporanea doveva e deve elaborare però un altro schema teologico: l’impegno sistematico di Lafont diventava chiarissimo a metà degli anni ’90, nel mutamento complessivo dell’impostazione, in cui la Parola di Dio, l’alleanza e la storia diventavano le categorie portanti.
- L’immaginazione teologica attuale, perciò, doveva fare i conti con il sistema diverso, ma acutissimo, con cui Tommaso aveva inseguito e perseguito fino in fondo le questioni fondamentali del suo tempo, ma doveva integrarle nel nuovo sistema.
Inquietudine e immaginazione, tra maestri e allievi
La Prefazione del 1960 iniziava dall’inquietudine, la Prefazione del 1996 finiva con l’immaginazione. In un memorabile discorso del 2015 al Collegio degli Scrittori della Civiltà Cattolica, papa Francesco ha identificato proprio in queste due parole (inquietudine e immaginazione) due delle fondamentali caratteristiche del pensiero teologico più fecondo, unendole ad una terza, l’“incompletezza”.
Una teologia piena di inquietudine, di incompletezza e di immaginazione è l’esperienza che accade sempre a chi legge i testi del p. Ghislain. L’inaugurazione di questo percorso di confronto tra il gerundio in fieri e l’indicativo in actu del lavoro teologico vuole onorare questa passione per le strutture e per il metodo, che Lafont da studente aveva imparato in un duro lavoro di scavo sulla Summa Theologiae e poi aveva saputo applicare da professore, instancabilmente e finemente, all’universo mondo.
Su questa strada dell’inquietudine, della incompletezza e dell’immaginazione è oggi possibile camminare grazie a lui, con lui e dopo di lui, ma non senza di lui. L’augurio dei curatori è quello di favorire e accompagnare, nei dottorandi e nei dottori, un lungo cammino sulla via aperta dall’immaginazione inquieta della teologia sapienziale di p. Ghislain.
A rotazione i tre atenei romani, che hanno assunto l’iniziativa, si alterneranno nell’organizzare ogni anno un’edizione della “lectio”, che partirà sempre da un testo del teologo parigino e ingaggerà, intorno a quel testo, la parola autorevole di un interprete, dottore riconosciuto, e il lavoro di cesello delle parole in cerca di autorità, da parte degli studenti dottorandi. Alla prima edizione, curata con meticolosa attenzione dalla LUMSA, seguirà tra un anno una seconda edizione della “Lectio Ghislain Lafont”, che si terrà presso il Pontificio Ateneo S. Anselmo nel maggio 2023.
Bene sarebbe che il pensiero di Ghislain Lafont trovasse continuità nella Teologia, nel Monachesimo, nella Chiesa di oggi, appunto per aprire la porta alla Speranza.