Ai Rettori delle Pontificie Università in Italia
Ai Presidi delle Pontificie Facoltà Teologiche in Italia
Ai Direttori degli Studi Teologici e degli Istituti Teologici
Ai Direttori degli Istituti Superiori di Scienze Religiose
Gentilissime Autorità Accademiche,
per molti anni la propaganda della bontà della guerra fredda fondata sul principio della deterrenza ha cercato di convincerci che con i lampi nucleari di Hiroshima e Nagasaki la guerra fosse stata archiviata e resa di fatto impossibile.
Era evidentemente una buona illusione ma anche una menzogna perché le guerre e le stragi in Indocina, in Corea, in Algeria, in Vietnam, in Cambogia, con i loro milioni di morti, l’uso frequente di armi chimiche, il ricorso sistematico alla tortura erano lì a smentire questa tesi ottimista e negazionista. Contemporaneamente in Africa era un continuo susseguirsi di altre guerre, spesso ignorate ma non meno letali, premesse per gravissime carestie ed epidemie. Tutte guerre dove i morti civili sopravanzavano di molto i morti militari.
Dopo quell’agosto 1945 vi fu, quindi, un susseguirsi di guerre coloniali e post coloniali, tutte direttamente o indirettamente provocate e armate dalle nazioni più ricche del mondo, cui si aggiunsero sanguinose forme di repressione militare in Sud e Centro America con decine di migliaia di assassini e desaparesidos.
L’illusione del crollo del Muro
Nel 1989 il crollo del muro di Berlino e due anni dopo la dissoluzione dell’impero sovietico illusero molti che nessuna guerra si sarebbe ormai più combattuta e che anche gli arsenali atomici capaci di distruggere molte volte la Terra, frutto della guerra fredda e del principio della deterrenza, sarebbero stati dismessi. Così tutti i popoli avrebbero potuto vivere occupandosi di istruzione e di salute in un nuovo tempo di pace.
La previsione fu totalmente sbagliata e le guerre si moltiplicarono con maggiore intensità e ferocia pur avendo sempre meno il coraggio di pronunciare il proprio nome divenendo con abili eufemismi operazione di polizia internazionale, missione umanitaria, operazione chirurgica, operazione militare speciale.
Così in questi ultimi trent’anni vi è stato un susseguirsi di altre guerre: dalle due in Iraq, a quelle in Afghanistan, alla Libia, allo Yemen, a quelle della ex Jugoslavia, alla Siria e ancora sempre intere regioni dell’Africa fino alla guerra in corso in Ucraina, guerre solo geograficamente circoscritte ma che hanno visto impegnate coalizioni internazionali con eserciti enormi e con armi sempre più sofisticate, letali e costose.
In questa condizione di guerra diffusa e continuata – quella terza mondiale a pezzi denunciata più volte da papa Francesco – mentre produttori e commercianti di armi (assassini dal volto pulito, dalle labbra imburrate e dalle prodighe beneficenze) continuano a far festa, dovremmo aver capito che tutte le guerre sono destinate a non concludersi mai e ciò non solo per il danno economico irreparabile e per la fame, per i lutti e per i mutilati, per le vedove e gli orfani, per l’essere potenti fabbriche di profughi, ma soprattutto per la conseguenza dell’odio che non si estingue nemmeno attraverso il succedersi delle generazioni e che potenzialmente produrrà altre guerre. Si può dire, purtroppo, che dal 10 dicembre 1948 la Dichiarazione universale dei diritti umani è stata costantemente violata.
Il Magistero e la teologia davanti alla guerra
Dinnanzi a questa catastrofe di umanità che sono state e sono le guerre moderne il magistero pontificio ha sempre più affinato una posizione chiara che da Benedetto XV in poi ha espresso una totale condanna e il rifiuto ad offrire alla guerra giustificazioni morali e divine. Soprattutto dopo la Pacem in terris questo è apparso ancora più evidente!
E tuttavia vi è da interrogarsi se ancora ha senso riproporre quella teoria della guerra giusta concepita ancor prima che le armi da fuoco fossero utilizzate per la guerra. Qui non si tratta più di schioppi o di bombarde ma di bombe a grappolo o al fosforo, di proiettili all’uranio impoverito, di mine antiuomo e di mine giocattolo, quelle per mutilare i bambini, e degli altri mille ordigni e sistemi d’arma con i quali oggi si fa la guerra, e di testate nucleari con le quali si minaccia di farla.
Non solo l’uso di quelle armi ma anche il semplice possesso non chiede oggi a noi una condanna senza appello come già fece Giacomo Lercaro durante il Vaticano II?
Ma soprattutto l’insegnamento della teologia mi appare oggi chiamato a porre attenzione al disarmo degli spiriti e dei cuori, al superamento dei nazionalismi e delle contrapposizioni tra i popoli, alla condanna di ogni tentativo religioso di giustificare la guerra, al superamento dei neo costantinismi, alla crisi ecologica umana in atto con la sistematica distruzione dell’ambiente e della fraternità.
Urge che la teologia oggi insegni, con i propri strumenti di studio e con rigorosa scientificità, a rifiutare ogni guerra ai migranti – cioè quella realizzata con respingimenti, annegamenti, muri, filo spinato, legislazioni persecutorie, spostamento dei confini nazionali, campi di prigionia come i centri di permanenza per i rimpatri, nuove forme di schiavitù – e soprattutto aiuti a comprendere che il meticciato non è un pericolo ma uno dei segni dei tempi che dobbiamo con gratitudine accogliere e comprendere.
Francesco e la pratica teologica
I nostri studenti vorrebbero capire, vorrebbero soprattutto scoprire quanto il cristianesimo e le altre religioni possono collaborare per opporsi alla guerra e come contribuire alla costruzione di quella fratellanza umana di cui parlano il documento di Abu Dhabi e l’enciclica Fratelli tutti.
E soprattutto se non è giunta l’ora – forse non più per scelta libera e responsabile ma perché costretti dall’urgenza della storia presente – di ricostruire tutto il sapere teologico sul senso profondo della Pace, senso costitutivo e fondante per il cristianesimo e per la evangelizzazione. Non si tratta di prevedere un corso specifico, iniziativa pur meritoria.
Io stesso posso affermare che quasi sempre le autorità accademiche delle istituzioni presso cui ho insegnato sono state, su richiesta, disponibili a concederlo. Oggi non c’è bisogno di un corso ma di un nuovo impianto teologico adeguato alle emergenze della storia e attento ai segni dei tempi.
Papa Francesco nella Veritatis gaudium – dopo avere osservato che «non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi» – ha efficacemente indicato che «questo ingente e non rinviabile compito chiede, sul livello culturale della formazione accademica e dell’indagine scientifica l’impegno generoso e convergete verso un radicale cambio di paradigma, – anzi mi permetto di dire – verso “una coraggiosa rivoluzione culturale”. In tale impegno la rete mondiale delle Università e Facoltà ecclesiastiche è chiamata a portare il decisivo contributo del lievito, del sale e della luce del Vangelo di Gesù Cristo e della Tradizione viva della Chiesa sempre aperta a nuovi scenari e a nuove proposte».
A me sembra che l’invito del Papa al cambio di paradigma e alla rivoluzione culturale, a partire anche dai quattro criteri suggeriti nel documento, non sia stato ancora avviato. Temo anzi che possa prevalere una ossificazione didattica della teologia, una incapacità alla sperimentazione e una paura del rinnovamento.
Il Mediterraneo e la teologia
E ciò nonostante Francesco abbia ulteriormente esplicitato le sue indicazioni nel discorso di Napoli del 21 giungo 2019 La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo: «occorre partire dal Vangelo della misericordia, dall’annuncio fatto da Gesù stesso e dai contesti originari dell’evangelizzazione. […] è necessaria una seria assunzione della storia in seno alla teologia, come spazio aperto all’incontro con il Signore. […] È necessaria la libertà teologica. Senza la possibilità di sperimentare strade nuove non si crea nulla di nuovo, e non si lascia spazio alla novità dello Spirito del Risorto […].
Questo significa una adeguata revisione della ratio studiorum. […] dotarsi di strutture leggere e flessibili che manifestino la priorità data all’accoglienza e al dialogo, al lavoro inter- e trans- disciplinare e in rete. Gli statuti, l’organizzazione interna, il metodo di insegnamento, l’ordinamento degli studi dovrebbero riflettere la fisionomia della Chiesa “in uscita”. Tutto deve essere orientato negli orari e nei modi a favorire il più possibile la partecipazione di coloro che desiderano studiare teologia: oltre ai seminaristi e ai religiosi, anche i laici e le donne sia laiche che religiose.
In particolare, il contributo che le donne stanno dando e possono dare alla teologia è indispensabile e la loro partecipazione va quindi sostenuta».
A distanza già di tre anni sarebbe importante che ogni istituzione accademica avviasse un processo di revisione alla luce di queste istanze e che i risultati fossero resi pubblici per diventare esemplari per altre istituzioni e di incoraggiamento per tutti.
Il Papa, a “partire dal Vangelo della misericordia e da una seria assunzione della storia in seno alla teologia”, ci suggerisce uno straordinario spazio di libertà e di responsabilità operativa e creativa, non vi è più alcun pretesto per le giustificazioni di un immobilismo ripetitivo. In questa assunzione del tempo e dello spazio è implicita una seria presa in carico dei mondi vitali e delle condizioni di vita degli uomini e delle donne, in una teologia contestuale in un ascolto non distratto delle domande rilevanti e urgenti.
La storia necessaria
Una delle piste da percorrere è quella della costruzione di un nuovo progetto didattico di baccalaureato ispirato alla teologia per la Pace al quale occorre si adegui la auspicata e attesa nuova ratio studiorum. Sacra Scrittura, Storia civile e Storia della Chiesa (non storia evenemenziale, aproblematica, apologetica, ma analisi critica delle fonti e decostruzione delle menzogne e delle generalizzazioni, superamento dell’uso pubblico della storia e di tutte le costruzioni di memorie funzionali all’asservimento degli esseri umani) con adeguati spazi nel monte ore dovrebbero fornire le basi ad un sapere teologico che ponga al centro la Pace del Vangelo non come aggettivo opzionale ma sostanza stessa dello studio teologico fondato sui principi della nonviolenza. Le possibilità sono qui enormi e tutte da sperimentare.
Si pensi, solo per fare qualche esempio, al contributo che può offrire lo studio degli scritti di autori come Erasmo da Rotterdam, fino ad arrivare a Luigi Sturzo, della grande tradizione del pensiero nonviolento classico da Tolstoj a Gandhi, da Giorgio Capitini a Danilo Dolci fino ai cattolici Lanza del Vasto, Jean Goss e Hildegarde Mayr, delle straordinarie testimonianze del XX secolo di Primo Mazzolari, Lorenzo Milani, Giuseppe Dossetti, Thomas Merton, Giorgio La Pira, Tonino Bello, Arturo Paoli, Desmond Tutu e di martiri come Martin Luther King, Oscar Romero, Marianella García Villas, Juan José Gerardi e Pierre Claverie.
Sono esempi, tra i tanti, di figure che restano ad oggi praticamente sconosciuti ai nostri studenti. Ritengo che i loro scritti potrebbero dare alla didattica teologica una ricchezza straordinaria fino ad oggi sottovalutata e nei fatti negata. Come resta ancora ignorata la ricca tradizione dell’obiezione di coscienza cristiana dalla recluta Massimiliano fino a Franz Reinisch, Franz Jägerstätter, Max Josef Metzger, Josef Mayr-Nusser, Jean Claudel, Jean Pezet, Giuseppe Gozzini, Rosemary Lynch e tanti e tante che hanno offerto una testimonianza esemplare della nonviolenza evangelica.
Il ritardo della teologia davanti alla storia
Ma siamo in ritardo, la teologia è in grande ritardo. Siamo chiamati dalle domande della storia ad una conversione della teologia.
Chiamati a far confluire i nostri campi di ricerca, spesso molto specialistici, in una elaborazione collettiva e coraggiosa di una Teologia per la Pace fondata sul senso profondo della nonviolenza ispirata al Vangelo. Gli studenti ci guardano e ci chiedono di aiutarli a comprendere la complessità, a formare la propria coscienza ad un disarmo delle menti, a formulare un giudizio dirimente dinnanzi agli armamenti, alle stragi, alla tortura, ai bombardamenti e soprattutto di fronte ad un sistema finanziario militarizzato che produce fame, impoverimento, morte e che di fatto con ferocia governa il mondo, condiziona i parlamenti e che pretende di giustificare le disuguaglianze.
Non vorrei che anche in un’ora così terribile si continuino a programmare studi teologici che lasciano gli studenti indifferenti, o rassegnati, rispetto alla realtà dell’inumanità e dell’ingiustizia sistemica. Se il risultato del nostro insegnamento è l’indifferenza, o la rassegnazione, allora è certo che abbiamo fallito. Anche perché non c’è traccia di indifferenza e di rassegnazione nel Vangelo.
Ispiriamoci invece a quanto ancora ci raccomanda il Papa: «Sogno Facoltà teologiche dove si viva la convivialità delle differenze, dove si pratichi una teologia del dialogo e dell’accoglienza; dove si sperimenti il modello del poliedro del sapere teologico in luogo di una sfera statica e disincarnata. Dove la ricerca teologica sia in grado di promuovere un impegnativo ma avvincente processo di inculturazione».
Saranno certo queste convivialità, queste pratiche, queste sperimentazioni e questi processi ad essere il nostro contributo – di istituzioni teologiche ed insegnanti – alla costruzione della Pace.
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