È sotto gli occhi di tutti il degrado della teologia “accademica” e lo conferma la proposta dell’Associazione Teologica Italiana circa il rinnovamento degli studi teologici (qui), con la puntuale riflessione offerta dal collega Giovanni Salmeri (qui), che mi sembra di dover condividere in pieno.
Ma il problema viene di fatto sempre alla ribalta anche per esempio da parte delle iniziative dell’Accademia per la vita a riguardo, che si esprime nei termini della necessità di una “rifondazione” della teologia (qui), addirittura da rifondare epistemologicamente.
L’Osservatore romano ha ospitato alcuni contributi a riguardo. Diverse delle proposte messe in campo di fatto guardano al passato più o meno recente piuttosto che al futuro, mentre le iniziative e le riflessioni che mi sembrano più feconde vengono dai laici (donne e uomini): la latitanza dei presbiteri e dei vescovi un po’ mi meraviglia, in quanto sembra che siano loro ad avere famiglia da sfamare e non le colleghe e i colleghi che ce l’hanno sul serio.
La pratica della teologia
Mi permetto di sottoporre all’attenzione di tutti alcune riflessioni, provenienti da un quarantennale impegno nella ricerca e nella didattica, cui ho dedicato tutte le mie energie e le mie capacità, nella convinzione che “si è più beati nel dare che nel ricevere” (At 20,35).
Alla vigilia del mio agognato pensionamento, posso affermare che quello che ho dato è molto meno di quanto ho invece ricevuto in alcuni contesti quali quello della Facoltà teologica di Napoli, nella sezione San Luigi, dell’Associazione Teologica Italiana (sono iscritto dai tempi di Luigi Sartori) e della Facoltà Teologica della Pontificia Università Lateranense. Penso, tuttavia, che un rinnovamento/rifondazione del sapere teologico in Italia passi attraverso la fuoriuscita, non tanto fisica, ma mentale, dalle strutture accademiche.
Non si tratta di abbandonare l’Università, magari di tornarvi ove assenti, ma di spalancarne le porte. E questo sia nel rapporto con le comunità vive delle parrocchie, delle associazioni e dei movimenti, nonché delle diocesi, ma anche attraverso i media, che siamo chiamati ad abitare non solo come teologi, ma soprattutto come intellettuali in questo Paese.
Come giustamente osserva Sabino Cassese, nel suo libro sugli intellettuali, infatti, non è vero giurista chi si applica alla sola giurisprudenza. È una pagina che dovrebbe interpellarci come teologi specialisti e non tuttologi: «L’intellettuale non porta a un pubblico più vasto soltanto il suo sapere disciplinare. È uno specialista, ma non scrive e non parla solo della sua specialità. Le competenze sono concatenate, non restano in un recinto (anzi, il premio Nobel per l’economia Friedrich von Hayek ha scritto che “nessuno può essere un grande economista se è solo un economista” – sarà vero, dico io, anche per chi dovrebbe occuparsi dell’economia della salvezza?), possono essere interconnesse, e anche messe in discussione dagli incompetenti, rispetto ai quali i competenti hanno l’obbligo di spiegare, perché c’è un punto, nel mondo più vasto di quello della scienza, dove competenza e democrazia si incontrano, e quindi la competenza deve poter esser messa in discussione, e il competente deve accettare la sfida e non chiudersi nel suo guscio, facendo valere solo i suoi titoli.
Anzi, la spiegazione deve poi ampliarsi e diventare educazione. Ed è per questo che l’intellettuale è impegnato innanzitutto in un’attività di riflessione in pubblico e di istruzione del pubblico in generale. Qui sta la sua attitudine multiforme, che lo fa uscire dal suo campo strettamente specialistico».
Capaci delle sfide odierne
Ecco perché ritengo che oggi il Paese e il contesto ecclesiale abbiano bisogno di una teologia “partigiana e militante”, ossia impegnata e capace di lasciarsi interpellare dalle sfide del presente. L’afasia dei teologi italiani è spesso più che eloquente. Come ATI abbiamo attraversato momenti fecondi, in cui personalità quali Luigi Sartori, Severino Dianich, Pino Ruggieri, Carlo Molari e tanti altri, per non dire di Ernesto Balducci che oggi tutti esaltano, dopo averlo massacrato, erano veramente al fronte e ne hanno patito le conseguenze, pagando di persona ostracismi insulsi.
Da un certo momento in poi si è scelta la ritirata e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Senza coltivare una sterile nostalgia del passato, mi permetto di segnalare tre fronti sui quali mi sono personalmente esposto, offrendo, nel limite delle mie capacità, alcune riflessioni destinate al popolo di Dio.
Il primo è stato il fronte del Covid e quindi di un rinnovato approccio alla teodicea, nell’assenza pressoché generalizzata di indicazioni da parte dei vertici, preoccupati piuttosto di offrire indicazioni sulle modalità delle celebrazioni (mascherine o distanziamenti). In tale contesto non mi sono stancato di sottolineare la necessità di un recupero della “sacramentalità della Parola” di fronte all’impossibilità delle celebrazioni in presenza (cf. qui). E questo perché alla “riapertura” non si verificasse un puro e semplice ritorno al passato, ma una rinnovata e creativa ripresa spirituale del vissuto ecclesiale.
Il secondo, che sta bruciando nei nostri cuori e nelle nostre menti, è quello della guerra. Mi preme qui segnalare la posizione dei numerosi teologi ortodossi nei confronti del patriarca Kirill, da me sottolineata e commentata su questa testata (cf. qui), e quelle di colleghi protestanti, quale Fulvio Ferrario (su Confronti a proposito dell’etica della responsabilità), nonché gli articoli di Enzo Bianchi, di Bruno Forte, di Severino Dianich e di Vito Mancuso, che non ha remore circa l’invio di armi in Ucraina, tesi non dissimile dalla posizione della morale tradizionale sulla cosiddetta “guerra giusta”, di cui si è fatto portavoce Mauro Cozzoli su Avvenire del 2 marzo scorso.
Certamente importante la posizione di diciannove teologi cattolici a favore dell’Ucraina (cf. qui), alcuni dei quali appartenenti alla Commissione Teologica Internazionale, ma che ritengono di esprimersi a livello personale. Infatti è mancato un dibattito pubblico fra teologi dei due schieramenti, tendente a un confronto critico in modo da poter offrire strumenti di valutazione, se non giungere a una soluzione condivisa, nella sempre auspicabile concordanza delle sentenze. Il tutto è stato lasciato all’iniziativa dei singoli con la latitanza di istituzioni (anche accademiche) e associazioni, che avrebbero dovuto e dovrebbero promuovere tale confronto con iniziative ad esso mirate.
Apprendere dal passato
Da parte mia, mi sono permesso a tal riguardo, di evocare le diverse posizioni di Karl Barth e di Dietrich Bonhoeffer in un trafiletto apparso su Famiglia cristiana.
Il martire di Flössenburg, peraltro citato in parlamento, così si esprimeva a riguardo: «Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come Pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo saltare e afferrare il conducente al suo volante, è il mio dovere».
L’espressione appartenente alla vulgata orale sembrava suggerire il ricorso all’impegno violento in casi estremi. Sul versante opposto la posizione assunta da un altro grande teologo riformato Karl Barth: «Io mi impegno qui a Bonn coi miei studenti a fare teologia e solo teologia […]. Alla stessa maniera in cui i benedettini della vicina abbazia di Maria Laach continuano normalmente, anche nel Terzo Reich, la recita delle ore canoniche, senza avere dubbi, senza interrompersi o distrarsi. Ritengo che anche questa sia una presa di posizione».
Forse i teologi italiani e soprattutto le loro istituzioni rappresentative si sono ritrovati, magari a loro insaputa, barthiani, ma Bonhoeffer ammoniva che «soltanto chi grida per gli Ebrei può cantare anche il gregoriano» (altra vulgata orale secondo Bethge).
Un ultimo recente intervento, grazie alla cortesia di Marco Tarquinio, mi ha consentito di mettere in relazione le vicende attuali con quelle del Venerdì Santo, attraverso la tematica del “sacrificio” (cf. qui). Interessante la coincidenza almeno testuale fra la proposta del sottoscritto e quanto espresso nel fondo del quotidiano Domani del 9 aprile scorso a firma di Roberto Esposito e Nadia Urbinati, intellettuali genuinamente “laici” di spicco (cf. qui).
Pietas
Il terzo fronte, sul quale mi sono espresso in un intervento che il nuovo direttore di Famiglia cristiana ha rifiutato di pubblicare, ritenendolo troppo duro, riguarda la necessità di scendere in campo nel tentativo di leggere, interpretare e orientare la cosiddetta “pietà popolare”. Grazie a SettimanaNews, il testo è stato diffuso e ringrazio per questo. Tutto tace comunque anche perché penso che prevalga l’accomodamento in quanto una celebrazione processionale come quella della “Madonna delle galline” sia ritenuta di fatto irrinunziabile in quel contesto (rimando al mio intervento perché si cerchino di comprendere i termini della questione, qui).
Ancora una volta il silenzio dei vescovi e della teologia non mi sembra irrilevante, ma particolarmente significativo, mentre la posizione di monsignor Giuseppe Giudice, che ha generato il manifesto funebre, peraltro concordata col presbiterio e gli organismi pastorali della diocesi, ha ricevuto il sostegno e la solidarietà di personalità e istituzioni “laiche”. Fare teologia nell’orizzonte della sua rifondazione significa anche fare nomi e cognomi.
Dove va la teologia italiana?
Gli esempi sopra addotti possono aiutare la comprensione di quanto in sede accademica ed ecclesiale vado proponendo nella forma di un modello di teologia kerygmatico-kairologico (vedi la voce “Tempo” nel Nuovo Dizionario Teologico Interdisciplinare, edito dalle Dehoniane di Bologna nel 2020), tale cioè da innestare, con tentativi ripetuti e che potranno anche risultare fallimentari, l’Evangelo del Regno nel nostro tempo così drammatico, ma anche tanto fecondo.
Con queste riflessioni a mente aperta, non intendo assolutamente sostenere che sarei il buon teologo, a differenza degli altri o che sarei il Bonhoeffer di turno, gli altri i Barth (magari!), anche perché, come ben sa chi mi conosce da vicino, non ho affatto la vocazione al martirio. Piuttosto vuol essere un invito alla riflessione sul dove siamo e chi siamo come teologi nella Chiesa che è in Italia.
Il sinodo ce lo impone. Il rinnovamento o rifondazione del sapere teologico, a mio modesto avviso, passa attraverso la capacità delle persone (non si tratta, infatti, in primo luogo delle strutture) di offrire una “partigianeria militante” sui temi che scottano, onde mostrare la rilevanza dell’evento cristico in ambito sociale, culturale, politico ed ecclesiale. Il resto è noia!
Uno dei problemi di cui sembra non esserci consapevolezza è questa: chi tra 10 anni, 15 anni largheggiando farà teologia a livello accademico? Data a) la progressiva diminuzione delle vocazioni “di speciale consacrazione” e b) l’invecchiamento (e, quindi, il pensionamento) degli attuali teologi che sono perlopiù sacerdoti, è chiaro che si dovrebbe dare spazio ai laici. In più la teologia fatta a livello accademico sembra non soggetta alla stessa logica di altre discipline (concorso) e ciò alquanto strano. Mi pare che gli autori di certi articoletti non vogliono sollevare questi evidenti problemi.
Gentile signor Cittadini, Lei è evidentemente male informato. Nel mio percorso accademico ho dovuto affrontare tre passaggi: due concorsuali pubblici, con partecipazione anche di altri candidati (uno per l’incarico su cattedra e l’altro per la stabilità) e la valutazione della mia produzione scientifica da parte di una commissione per l’ordinariato. E così altri colleghi. Sul problema dei laici in teologia mi sono in più occasioni espresso nel tentativo di far comprendere la “laicità della teologia”. Il problema è aperto e non affatto ignorato. Nella specializzazione in teologia fondamentale che coordino nella mia Università, insegnano tre donne e un laico, per non dire della specializzazione in teologia interconfessionale. Trova i programmi e i nominativi in rete. Con i migliori auguri per una santa Pasqua. Lorizio
Posso rallegrarmi della “sua” laicità, ma non penso di sbagliare nel dire che altrove non è così (non c’è bisogno di fare nomi). Ricambio gli auguri con stima e apprezzamento per le sue idee.
Inoltre, stimato professore, sarà pur vero che lei si sarà espresso sulla laicità della teologia, ma non mi pare di trovare traccia di questa sua brillante idea, che condividerei appieno e sosterrei, in questo articoletto. Ancora auguri di Pasqua! P.S. Un’eccezione non fa una norma o, se vuole, una prassi. Con simpatia. F.C.
Piuttosto che di eccezione direi che la posizione da me espressa in molte occasioni pubbliche è di una “minoranza”, che spero “creativa”. Può trovare materiale persino in rete. Le segnalo soltanto questo dibattito https://confronti.net/2019/10/se-in-politica-ritorna-il-sacro-quale-ruolo-per-la-teologia/ . Diverse persone mi hanno contattato per condividere e commentare questo articoletto, ma non abbiamo bisogno di nicodemismo, bensì di dibattito pubblico in cui si confrontino le posizioni alla luce del sole e sui media. Per questo La ringrazio per aver interagito con queste scarne, ma a mio avviso decisive, riflessioni sul sapere della fede, che ci unisce a prescindere dalle differenze, che siamo chiamati ad abitare. Ancora auguri! Lorizio
PS Non sono tornato in questa sede sull’annoso tema della laicità del teologare proprio perché mi sono espresso a riguardo in molte altre occasioni. A proposito invece di reazioni pubbliche, ringrazio il giornalista Fabrizio Mastrofini per questa sua: https://www.ilriformista.it/blog/rinnoviamo-la-teologia-facciamo-presto-perche-e-davvero-tardi/ .
Che dire? Grazie! La sinossi dei suoi “articoletti” permette di precisare e apprezzare meglio il suo pensiero. Mi auguro che si dia spazio il prima possibile ai laici nelle accademie teologiche e non solo alla Lateranense!