Entro volentieri anch’io sulla scia del discorso intrapreso da Marcello Neri sulla teologia oggi, sentendo d’indicare i doveri dell’odierna teologia, benché siamo in un tempo labirintico, nel quale, fra l’altro, cresce un disinteresse pericoloso per il pensare teologico nella convinzione che il cristianesimo sia solo “storia e geografia”, in un senso assai diverso da come usava questa definizione della religione di Gesù, Giorgio La Pira. Il senso del mio intervento è che la teologia debba tenere alla cura dell’uomo senza dimenticare il mistero di Dio.
Dire la fede nel tempo degli uomini
La funzione pastorale della teologia è affermata prevalentemente dalla costituzione pastorale Gaudium et spes. Nella seconda parte, che tratta «alcuni problemi più urgenti», la costituzione svolge il tema della «promozione del progresso della cultura» (nn. 53-62) e, all’interno di quest’ampia problematica, essa affronta il rapporto «fede e cultura» e «i molteplici rapporti fra il Vangelo di Cristo e la cultura» (n. 58).
La pastoralità della teologia è da intendersi come sforzo che questa deve fare per aiutare la comunicazione del messaggio della salvezza; se il messaggio non arriva ad interessare e a muovere alla risposta attiva il popolo cui è indirizzato, invano esso verrebbe dato e annunciato. Perché il messaggio salvifico sia comunicabile, occorre che incontri la cultura umana, la penetri, la permei e la usi come mediazione: «Fra il messaggio della salvezza e la cultura umana esistono molteplici rapporti. Dio infatti, rivelandosi al suo popolo, fino alla piena manifestazione di sé nel Figlio incarnato, ha parlato secondo il tipo di cultura proprio delle diverse epoche storiche».[1]
La vocazione di mediare
Il lavoro di mediazione culturale del messaggio cristiano comune a tutta la Chiesa nell’esercizio della sua funzione evangelizzatrice e magisteriale, diviene funzione tipica della teologia. «I teologi sono […] invitati, nel rispetto dei metodi e delle esigenze proprie della scienza teologica, a sempre ricercare i modi più adatti di comunicare la dottrina cristiana agli uomini della loro epoca».[2]
Lo studio della teologia non è mai fine a se stesso, ma partecipa alla storia della missione e della pastorale della Chiesa; esso va condotto con la preoccupazione di contribuire alla illuminazione delle realtà umane con la luce del Vangelo: «Ed essi (i candidati al sacerdozio) imparino a cercare la soluzione dei problemi umani alla luce della rivelazione, ad applicare le verità eterne alla mutevole condizione di questo mondo e a comunicarle in modo appropriato agli uomini contemporanei».[3]
Questo testo dell’Optatam totius si collega idealmente alle preoccupazioni espresse da Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam suam e dal Concilio in altri punti della Gaudium et spes. La Chiesa, mentre si preoccupa di essere fedele al messaggio ricevuto da Cristo, si cura anche di «inserire il messaggio cristiano nel circolo di pensiero, di espressione, di cultura, di usi, di tendenze dell’umanità come essa vive e si agita oggi sulla faccia della terra».[4]
Mondo di Dio e mondo dell’uomo
La sintesi tra Vangelo e storia è il compito a cui la Chiesa non può mai venir meno, pena il venir meno alla duplice fedeltà che deve caratterizzare la missione della Chiesa, la fedeltà all’eterno Dio e la fedeltà all’uomo di ogni tempo: «È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e d’interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto».[5]
Ben s’esprime Latourelle quando afferma che «la teologia, come la Chiesa, deve essere l’incontro operante dello spirito di fede e dello spirito del tempo. La parola di Dio deve incessantemente essere messa in rapporto con la situazione spirituale dell’umanità d’oggi. Perciò, la teologia deve essere munita di antenne per comunicare col mondo contemporaneo e rispondere alle sue angosce come alle sue aspirazioni».[6]
Al fine di rendere pastorale la teologia, cioè capace di comunicare il messaggio cristiano agli uomini del nostro tempo, il Concilio raccomanda: «Nella cura pastorale si conoscano sufficientemente e si faccia uso non soltanto dei principi della teologia, ma anche delle scoperte delle scienze profane, in primo luogo della psicologia e della sociologia, cosicché anche i fedeli siano condotti a una più pura e più matura vita di fede».[7]
La teologia cerchi sempre la profondità
La teologia è chiamata a curare due tipi di approfondimento; da un lato, deve scavare sempre di più dentro la verità rivelata, dall’altro, deve saper ripetere significativamente la stessa verità rivelata fuori, nel tempo.[8]
Nella riformulazione della Rivelazione il teologo deve tener conto della filosofia e del sapere dei popoli.[9] Fra gli strumenti per comunicare il messaggio della salvezza agli uomini del proprio tempo, vi sono appunto le strutture filosofiche, che caratterizzano una determinata cultura e che, suscitando nuovi problemi, esigono dai teologi nuove indagini.[10]
L’uso di nuovi strumenti filosofici può suscitare delle crisi, ma sta al teologo saper mediare con le nuove forme e i nuovi contenuti della filosofia l’integralità del messaggio rivelato, come ha saputo fare, con esemplare maestria, san Tommaso d’Aquino.[11]
In ultima istanza, è compito della teologia curare sistematicamente e praticamente il raccordo fra il messaggio della salvezza e le varie forme della cultura umana, facendo in modo che la mediazione culturale riesca al massimo, ma senza derogare «dalle esigenze proprie della scienza teologica».[12]
Il lavoro teologico, fra le tante difficoltà di tipo scientifico legate soprattutto alla ricerca, aggiunge la fatica di dover sviluppare un discorso che sappia render conto di due fedeltà: la fedeltà a Dio (perché l’intero suo messaggio sia comunicato coerentemente); la fedeltà all’uomo (perché il messaggio divino sia da lui compreso chiaramente).
Fra Concilio e post-Concilio
L’istanza pastorale della teologia diviene, nel discorso del Concilio, più concreta quando si indicano i soggetti e i destinatari della sua pratica traduzione e applicazione.
I decreti Optatam totius,[13] Presbyterorum ordinis[14] (in riferimento alla formazione sacerdotale), il decreto Apostolicam actuositatem[15] e la dichiarazione Gravissimum educationis[16] (in riferimento alla formazione dei laici e all’educazione generale dei cristiani) sottolineano continuamente il valore della dimensione pastorale della teologia e raccomandano di evidenziare nella forma più esplicita e progressiva questa dimensione.
Nel Concilio la dimensione pastorale della teologia significa qualcosa di molto forte, cioè tutto quello che s’è indicato con la dimensione rivelativa, salvifica, cristologica, ecclesiologica.
Nel postconcilio, purtroppo, s’è perso questo senso forte di pastoralità, per assumere quello più debole e – è il caso di dire – più scadente, di una teologia, più dedita alla ricerca che preoccupata di motivare e di suggerire le scelte operative a quanti sono impegnati nella pastorale. La funzione pastorale della teologia è di fatto nel Concilio pensata quasi prevalentemente nel contesto della formazione del «pastore»,[17] anche se vi si parla dell’importanza di immettere i laici nell’esercizio della teologia.[18]
Questo però non impedisce di farci un’idea sostanzialmente chiara di come il Vaticano II concepisca una teologia dall’indole pastorale, una teologia, comunque, introversa (dedita alla riflessione sulla Rivelazione) ed estroversa (dedita alla comprensione dei problemi cruciali dell’uomo d’oggi per illuminarli con la luce della fede). Evidentemente questa duplice attitudine della teologia, sulla quale abbiamo molto insistito, dev’essere presente sempre.
Un servizio a tutta la Chiesa
Afferma molto pertinentemente Campanini: «Finisce la stagione della teologia “per i laici” e inizia quella della teologia “dei laici”, che è poi la medesima teologia di tutto il popolo di Dio che insieme riflette, con diversi carismi, sull’unico depositum fidei e sulla sua incarnazione nelle diverse culture».[19]
Dentro la prospettiva della nozione di teologia che abbiamo delineato finora, il compito della teologia – e quindi del teologo – è visto per lo più entro l’ambito della proclamazione del messaggio salvifico, a fianco del catechista, del predicatore, dell’omileta.
Meno evidente è la sottolineatura del Concilio sulla funzione della teologia come analisi critica e intelligenza sistematica della Rivelazione, funzione teologica che oggi viene molto considerata.
Il fine della teologia, secondo il Concilio, è fondamentalmente lo stesso fine della Chiesa, cioè quello di dare una risposta alle perenni domande dell’uomo sul senso della sua vita, sul significato e fine della storia della comunità degli uomini alla luce della Rivelazione, e di proporre quella risposta in modo adatto e congruo a ciascuna generazione.[20]
[1] Cost. past. Gaudium et spes, n. 58.
[2] Cost. past. Gaudium et spes, n. 62.
[3] Cost. past. Gaudium et spes, n. 62.
[4] Paolo VI, Lett. Enc. Ecclesiam suam (6.8.1964), n. V.
[5] Cost. past. Gaudium et spes, n. 4.
[6] R. Latourelle, La teologia scienza della salvezza, Assisi (PG) 1980, p. 11.
[7] Cost. past. Gaudium et spes, n. 62.
[8] Cost. past. Gaudium et spes, n. 62.
[9] Cf. Decr. Ad gentes n. 22.
[10] Cf. Cost. past. Gaudium et spes, n. 62.
[11] Cf. Decr. Optatatam totius, n. 16.
[12] Cost. past. Gaudium et spes, n. 62.
[13] Cf. i nn. 16 e 19.
[14] Cf. il n. 19.
[15] Cf. i nn. 29 e 40.
[16] Cf. i nn. 10-12.
[17] Cf. Decr. Optatam totius, nn. 16-19; Decr. Presbyterorum ordinis, n. 19.
[18] II Concilio ha chiesto, a diverse riprese e in contesti diversi, l’accesso dei laici alla teologia, e non a un basso livello, ma a un livello scientifico: cf. Cost. past. Gaudium et spes, n. 62; Decr. Optatatam totius, n. 10. La formazione teologica è, infatti, per il Concilio necessaria perché la loro azione pastorale sia possibile, responsabile ed efficace: cf. Decr., Apostolicam actuositatem, nn. 29-32.
[19] G. Canpanini, Introduzione e commento alla Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo “Gaudium et spes”, Casale Monferrato (AL) 1986, p. 134.
[20] La teologia deve applicare le verità eterne alle innumerevoli condizioni di questo mondo: cf. Decr. Ad gentes, n. 22.