Cara Settimananews,
non so se sia il caso di tornare sul tema del kirpan (cf. Settimananews 27 maggio Da noi il kirpan è proibito e 1° giugno Caso kirpan e valori occidentali).
Mi meraviglia il fatto che la sentenza abbia suscitato così tanto clamore, dal momento che non è la prima volta che la stessa Prima Sezione penale della Suprema Corte afferma i medesimi principi (solo nel 2016 lo ha fatto due volte: il 26 febbraio e il 1° marzo) proprio con riferimento all’esibizione del kirpan.
Per la Corte di Cassazione il soggetto che si inserisce in una società multietnica è tenuto a prestare osservanza all’obbligo giuridico di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e, quindi, la liceità di essi in relazione all’ordinamento giuridico che la disciplina, non essendo, di conseguenza, riconoscibile una posizione di buona fede in colui che, pur nella consapevolezza di essersi trasferito in un paese diverso, presume di avere il diritto (non riconosciuto da alcuna norma internazionale) di proseguire in condotte che, seppure ritenute culturalmente accettabili e, quindi, lecite secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, risultano oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere.
Questa volta ad attirare l’attenzione dei media è stata forse l’incauta (e discutibile) espressione «obbligo per l’ immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi».
Tenendo, però, in debita considerazione l’orientamento assolutamente consolidato della Corte di Cassazione in tema di reati culturalmente orientati, l’espressione non può che essere interpretata nel senso che esiste un obbligo, anche per chi proviene da altre culture, di rispettare i principi-cardine del nostro ordinamento (derivanti direttamente dalla Carta Costituzionale), come la garanzia dei diritti inviolabili dell’essere umano, la pari dignità sociale e l’eguaglianza senza distinzione di sesso, razza, lingua, religioni, condizioni personali e sociali, la tutela dell’integrità psico-fisica e il pieno sviluppo della persona umana, la dignità della persona anche nella sua dimensione sessuale.
A mio giudizio, la novità della sentenza – come scrivevo nel pezzo che vi ho inviato (cf. Settimananews, 27 maggio, Da noi il kirpan è proibito – sta nell’affermazione secondo la quale tra gli interessi di rango costituzionale da tenere in adeguata considerazione, in un contesto di società multietnica nonché multireligiosa, vanno annoverati anche quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza.
È strano poi che a nessuno – a quanto mi risulta – sia venuto in mente che, in sede di elaborazione della Carta dei valori della cittadinanza e dell’immigrazione, presentata ufficialmente il 23 aprile 2007 dall’allora Ministro dell’interno Giuliano Amato, era stato raggiunto un accordo tra i rappresentanti dei sikh e il Consiglio scientifico incaricato di elaborare la Carta.
L’accordo prevedeva una riduzione delle dimensioni del pugnale, in modo da attenuarne anche visivamente il carattere di arma e la sua pericolosità; inoltre, la punta sarebbe stata arrotondata, la custodia lievemente decorata, e l’impugnatura ridotta al minimo fino a divenire quasi simbolica. Infine, si prevedeva una chiusura ermetica del pugnale, con una chiavetta in possesso dell’interessato. In questo modo, nessuno avrebbe più potuto mettere in dubbio che si trattava di un simbolo religioso neanche teoricamente associabile ad un arma.
Ignoro il motivo per cui l’ipotesi di accordo sia caduta nel vuoto o che, comunque, attenda ancora – a distanza di dieci anni – di essere ripresa e formalizzata. Essa certamente avrebbe una valenza che va al di là dello specifico problema, e servirebbe a ricordare che l’ orientamento dell’Italia – a differenza di ciò che avviene in Francia – è ispirato all’accoglienza pluralista delle presenze e dei simboli religiosi ed è sempre e comunque quello di rispettare i diritti umani e i principi fondamentali dell’ordinamento, da considerare alla stregua di “valori” che, perdurando la latitanza del legislatore, il giudice è doverosamente chiamato a far rispettare.
Questa tendenza, naturalmente, non deve misconoscere i problemi che si pongono – sempre per quanto riguarda la comunità sikh – sia per il turbante che per il pugnale, soprattutto nei casi in cui il soggetto svolga delle mansioni professionali particolari per le quali sia richiesta una determinata foggia di vestiario, come nel caso dei militari, delle cautele particolari di tipo sanitario (per alcuni ambienti asettici di ospedali), o in ambienti nei quali il carattere di arma trovi specifico rilievo (in ambienti frequentati da bambini).
Tuttavia, si può ritenere che la questione della compatibilità dei simboli dei sikh segua un confine lungo il quale la ragionevolezza delle autorità pubbliche – e degli stessi fedeli sikh – può portare ad equilibri soddisfacenti per le esigenze della confessione religiosa e per quelle dell’ ambiente di lavoro, della sicurezza dei cittadini, dell’ ordine pubblico e della pacifica convivenza.
Buon lavoro,
Andrea Lebra