Promuovere giustizia, nel nostro Paese come in tutto il mondo. Anche nel campo della salute. E a dirlo, o meglio, auspicarlo con slancio, questa volta non sono i medici o i politici, bensì gli economisti riuniti nei giorni scorsi a Trento per la XII edizione del Festival dell’economia.
Perché la salute delle persone è uno dei fattori che maggiormente influisce sulla qualità della vita che poi è quella cartina al tornasole che sancisce il benessere di un Paese e dei suoi abitanti. E le differenze delle condizioni di salute e dell’aspettativa di vita delle persone sono spesso più marcate delle differenze di reddito.
A questo riguardo Tito Boeri, presidente dell’INPS dopo una carriera alla Bocconi e direttore scientifico del Festival trentino, portava l’esempio del Gabon, uno stato africano il cui reddito medio è superiore di un terzo di quello medio degli Stati Uniti. Ma in Gabon muoiono nel 1° anno di vita 5 bambini su 100, mentre negli Stati Uniti ne muoiono 5 su 1000. E, per restare oltreoceano, nelle zone rurali delle vaste pianure americane (quelle che hanno regalato la presidenza a Trump) l’aspettativa di vita è almeno 30 anni in meno rispetto a quella delle grandi metropoli (che hanno votato Clinton).
Ma le differenze non si fermano qui: ormai la medicina ha riconosciuto che anche per i farmaci e le cure esistono differenze di genere. Le donne sono più longeve degli uomini, ma soffrono di patologie maggiormente invalidanti.
Esistono poi fattori culturali, ambientali, sociali e legati alle condizioni di lavoro, che incidono profondamente sulle condizioni di vita, l’alimentazione e la prevenzione delle malattie. Dove è il reddito delle persone, o la disponibilità di risorse economiche di uno stato, che possono fare la differenza. Spesso le terapie più efficaci sono anche le più costose – perché frutto di decenni di ricerca scientifica (un nuovo farmaco arriva in commercio dopo 10-15 anni di studio) – e possono diventare improponibili in almeno metà del pianeta. Ed è proprio nei Paesi in via di sviluppo che i governi si trovano più spesso nell’impossibilità di garantire una vita sana ai propri cittadini, talvolta anche a rischio di sopravvivenza. Mentre nei Paesi industrializzati non sempre l’opinione pubblica è informata sulle acquisizioni della scienza in termini di corretta alimentazione: e il rischio questa volta si chiama sovrappeso, obesità e relative patologie cardiovascolari e articolari connesse, che in fin dei conti vanno ad incidere non solo sul benessere delle persone, ma anche sul sistema sanitario nazionale.
Premi Nobel e gente comune
Quattro giorni di “città arancione”: questo significa per i trentini il Festival che ormai da una dozzina d’anni è diventato un evento che richiama in città migliaia di persone. Sotto l’egida dello scoiattolo nero in campo arancio, simbolo riconosciuto del Festival, una nutrita serie di incontri – 112 per essere precisi – dibattiti, laboratori, punti di ascolto sparsi in tutta la città a ciclo continuo (nessuna somiglianza con altri Festival a diverso tema e contenuto proposti qui come in varie parti d’Italia perlopiù rivolti ad addetti ai lavori e pochi altri). A Trento ti ritrovi all’Auditorium ad ascoltare il Premio Nobel tra 200 studenti universitari, 150 economisti ed esperti e 450 persone che di economia conoscono quello che passano loro i media o il commercialista. Perché i numeri sono questi: cresce la febbre nei confronti dell’economia, nella convinzione che, aumentando le proprie conoscenze (abbandonando quanti propinano in giro non-verità), aumenti anche la speranza che le cose cambino in meglio. È possibile farcela (nonostante la crisi o lasciandoci alle spalle la crisi), come singoli e come famiglie. E, se pensiamo che quest’anno anche RadioUno (come da anni le grandi testate quotidiane) ha seguito da vicino le giornate trentine con ampi spazi nei programmi mattutini e serali, l’orizzonte si è allargato a livello nazionale (quasi 400 sono stati i giornalisti accreditati).
Ma nello stesso tempo quello che emerge con sempre più forza da eventi come questi è la consapevolezza che non si può parlare di tutto ed ergersi ad esperti su un tema solo perché si è navigato un po’ nella rete o sui social (come prima si discorreva al bar o al mercato): occorrono anni di studio e più spesso il lavoro di una vita per maneggiare idee e concetti. Sarà poi compito (e responsabilità) degli esperti rendere accessibile la loro conoscenza, così come occorrerà l’umiltà di chi ascolta per farla propria (interessante a questo riguardo i format dal titolo «Diamo i numeri», per apprendere ad utilizzare statistiche e diagrammi). Italiani una volta popolo di santi e navigatori, poi, si diceva, di commissari tecnici, e oggi di medici, economisti, scienziati? Non è proprio così, è la riposta da Trento. Le discipline dialogano tra loro, attraverso i loro studiosi, ma non ne esiste una che sia omnicomprensiva capace di potersi esprimere su ogni argomento, soprattutto oggi (a meno che non si creda a tesi complottistiche alle nostre spalle come gridano alcuni).
E questo vale anche per la salute, perché a Trento, un po’ da tutta Italia, c’erano anche alcune centinaia di manifestanti contro l’obbligo vaccinale in età scolare, in concomitanza con l’intervento della ministra della salute, Lorenzin; «Non chiamateci NO-Vax» era lo slogan perché avrebbero preferito invece far sapere che sono «Per la scelta». Ma chi è davvero in grado di scegliere?
Disuguaglianze sociali e regionali
Uno studio condotto dall’epidemiologo torinese Giuseppe Costa fotografa le disuguaglianze in materia di salute nel nostro Paese: un laureato può contare di vivere oltre 5 anni in più rispetto a chi si è fermato alla scuola dell’obbligo. Non è poi una novità che Centro-Nord Italia godano di migliori condizioni rispetto al Sud e alle Isole (anche se non è affatto chiaro perché una regione autonoma come la Sicilia non possa richiedere, per fare un esempio, una competenza primaria in tema di sanità alla stregua del Friuli o delle province autonome di Trento o Bolzano). Dove si sta peggio sembra essere anche una questione legata al livello di scolarizzazione (ma anche un laureato al Sud ha comunque vita più breve). E di nuovo ritorna il tema dell’«educazione alla salute». A Torino chi sale sul tram che attraversa la città dalla collina alto-borghese alla barriera operaia di Vallette vede via via salire passeggeri che perdono un anno di vita a chilometro percorso: più di 4 anni di aspettativa di vita separano i benestanti dagli operai.
La morte “prematura” è dovuta ad una serie di cause. Al primo posto la disponibilità di un lavoro, poi la rete familiare, le credenziali educative e non ultimo la risorsa materiale, in primo luogo la casa. Ma tutt’altro che indifferenti sono le condizioni di vita entro i primi 5 anni dalla nascita, anzi dal concepimento (perché già la vita intrauterina influenza quella successiva). Troppe malattie sono correlate ai comportamenti insalubri più frequenti dovuti alle peggiori condizioni lavorative, allo stress cronico e ai rischi ambientali uniti alla minore capacità di usare le cure più adeguate. Come dire: lo svantaggio sociale determina la qualità della vita e la sua durata.
Ma oggi in Italia si segnala anche un netto peggioramento delle condizioni di vita tra i giovani e gli adulti maschi, il gruppo più colpito dalla disoccupazione e dall’incertezza (e anche qui la bassa scolarizzazione impedisce la ricerca di un lavoro in Europa alla stregua dei giovani laureati).
L’esposizione ai fattori di rischio è dell’ordine dei paesi industrializzati: a parità di età su 100 laureati solo il 14,3% sono fumatori, mentre la percentuale tra quanti hanno solo la scuola dell’obbligo sale al 28,7%. Solo il 3% dei laureati sono obesi, contro il 9% degli altri che sono sedentari allo 67,4% (ma solo il 46% tra i laureati). Il 42% dei lavoratori manuali manifesta stress cronico contro il 28% dei laureati. Nonostante la possibilità di esenzione dai ticket, le persone meno abbienti ricorrono meno alle visite mediche e spesso rinunciano alle cure (per sé e i loro figli) a causa della spesa per interventi non prescrivibili, come le cure dentarie (un dato in aumento al Sud).
Unico dato positivo: in Italia la salute è ancora meno disuguale che negli altri Paesi europei grazie ad un sistema sanitario nazionale globale. La salute fisica però tiene, mentre quella mentale è significativamente peggiorata.
Occorrono buone pratiche da condividere anche da parte della politica: risparmiare si può (e lo dimostrano regioni dove si effettuano ferrei controlli su visite, analisi e prescrizioni dei farmaci, ma anche sulle assenze per malattia e l’esenzione dai ticket) e le risorse si dirottano dove realmente occorre. Se lottare contro gli sprechi ha un costo, non agire sulle disuguaglianze potrebbe costare molto di più.
La questione alimentare
Mentre Andrea Segré, docente di economia circolare e presidente della Fondazione Mach di San Michele all’Adige, ha parlato dell’importanza della dieta mediterranea, intesa come approvvigionamento del cibo locale, «non solo a km zero, ma a spreco zero», Kiersten Strombotne, economista pressi l’AIR di Washington, introduceva il termine di «economia dell’obesità». I prezzi dei cibi ad alto contenuto calorico continuano a scendere, mentre nelle nostre società occidentali è ormai diventato un costo essere fisicamente attivi. In Italia è obeso 1 cittadino su 10, la media OCSE è 1 su 6 e negli Stati Uniti 1 su 3. L’obesità è in aumento pressoché in tutte le aree del mondo con prevalenza nel Sud-Est asiatico e con incidenza maggiore nel sesso femminile (il meno istruito a livello mondiale). Preoccupa soprattutto quella che viene definita l’«obesità estrema» che in USA ha raggiunto livelli preoccupanti. In Italia l’obesità dilaga tra i bambini e, ancora una volta, soprattutto al Sud (non basta la dieta mediterranea se il consumo di pasta è pressoché quotidiano, perché a basso costo). 147 miliardi di dollari sono la spesa annuale per intervenire con spese mediche e calo di produttività sul lavoro in caso di obesità: un dato che non è più sostenibile, ma che sta conducendo tutte le nazioni occidentali al tracollo della spesa sanitaria. La diatriba tra gli economisti sull’utilità o meno dell’aumento della tassazione, per fare un esempio, sulle bevande zuccherate o sugli alcolici non produce frutti apprezzabili. L’unica politica sarebbe quella di avviare una vera e propria educazione alimentare o attivare quelli che negli USA chiamano «incentivi»: l’impegno di modificare comportamenti in cambio di un premio in denaro o sconti su alimenti salutistici come frutta e verdura. Dobbiamo concentrarci sull’educazione nelle scuole, avviare incontri informativi con le famiglie, privilegiare gli alimenti della tradizione locale: era la ricetta dell’economista americana.
Economia a servizio delle persone
Al Festival si è parlato anche di questioni più squisitamente economiche legate al tema della disuguaglianza del benessere sociale come ha fatto Jean Tirole, premio Nobel 2014, che ha focalizzato l’attenzione sull’etica dei mercati e la responsabilità sociale delle imprese. «Tra non molti anni sarà il software, messo a punto dal costruttore, a decidere nelle auto a guida automatica se salvare i passeggeri a bordo o le persone che attraversano la strada, ma non per questo dobbiamo essere critici sui software. Troppi sono ancora critici sul ruolo degli economisti, ma non siamo noi ad attivare le crisi. Un medico può solo darti un fattore di rischio infarto, ma non sa dire se e quando arriverà, come un sismologo il terremoto. Noi possiamo elaborare modelli, ma le previsioni sono difficili. Non ignoriamo affatto la morale, in quanto economisti in sé, ma alcuni, come uomini forse sì. Alla stregua di tutti gli altri».
«Viviamo in una società disuguale, ma spesso facciamo finta di non vederlo. Tutti quanti. Non piace a me e a tanti altri colleghi economisti vedere come oggi sia in aumento nel mondo il numero delle persone disposte a cedere uno dei propri organi dietro corresponsione di un prezzo in denaro».
E che l’economia possa essere soprattutto al servizio delle persone è stato quasi un filo rosso che quest’anno ha seguito diversi eventi: l’antidoto europeo alla deglobalizzazione avviata da Trump con il ritorno al protezionismo? Il rafforzamento del senso di comunità a livello europeo è la convinzione di Harold James docente a Princeton. Mentre diversi suoi colleghi puntavano il dito contro le politiche del nuovo presidente americano che porteranno effetti tutt’altro che irrilevanti soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, che vedranno chiudersi opportunità di scambio con gli Stati Uniti anche a livello di ottenimento di farmaci e vaccini.
Un altro compito del quale l’Europa dovrà farsi carico nell’ottica della solidarietà e del bene comune, antica tradizione europea.