Appena terminata la riunione Caritas di questo pomeriggio, sono scappato via con una scusa e per sbollire il malumore mi sono fatto un giro nel quartiere. Sono stati sufficienti i saluti cordiali di un paio di persone per rimettermi in sesto. Non so come mai, ma gli incontri “Caritas” della parrocchia sono quelli in cui più fatico a trovare carità. Oggi poi abbiamo superato qualunque tipo di limite. Dopo aver discusso per due ore di casi concreti di assistenza alle famiglie, due volontarie si sono alzate e se ne sono andate in polemica aperta con la coordinatrice, senza neppure salutare, dopo che erano volate parole cattive. Niente da dire su queste persone: si spendono e si adoperano come possono senza risparmio; le forze sono poche, insufficienti; devono reggere frustrazioni e insuccessi; i poveri della parrocchia sono spesso prepotenti e cercano in tutti i modi di ingannarti … Ciò non toglie che emergano tensioni personali, piccolezze umane, debolezze e fragilità di spirito che condizionano e mortificano il cammino di tutti. Ho poi saputo che lo scontro è proseguito addirittura in chiesa. Sotto lo sguardo – credo esterrefatto – del Crocifisso e di qualche buon fedele sono di nuovo volati insulti e male parole. E io che cosa ho fatto?
Devo confessare la mia più totale impotenza. Non sono ce l’ho fatta ad arginare, a contenere il fiume in piena di battibecchi e risentimenti. Non riuscivo neppure a farmi un’idea precisa di quello che era in gioco, dei torti e delle ragioni delle parti. In molte altre occasioni avevo provato a dire che la prima carità è lo stile con cui facciamo le cose, la comunione fraterna che si respira tra di noi … ma questo non è servito ad impedire che il conflitto scoppiasse, ed oggi non mi è stata data neppure l’opportunità di riaffermarlo: della carità nessuna ombra!
E invece no. Mentre scrivo cerco anzitutto uno sguardo misericordioso nei confronti delle singole persone. Me le immagino, e dietro a ciascuna di loro riconosco tante di quelle ferite e debolezze che non mi viene neppure più da arrabbiarmi. Proverò con pazienza a raccogliere anzitutto “i cocci” perché “nulla vada perduto” e ciascuno possa rielaborare almeno un poco quello che è accaduto. Io non ho potuto impedire che la divisione si insinuasse anche dentro la mia parrocchia. Adesso provo a ricucire e medicare. Che cosa posso fare in concreto, che cosa potrò dire? Il primo passo sarà quelli di invitare alla preghiera. Chiederò a ciascuna delle “contendenti” di pregare l’una per l’altra e lo farò io per primo. Farò un passo in mezzo – non significa proprio questo “intercedere”? – quasi a cercare sia di impedire che le parti si scontrino di nuovo sia di provare a congiungerle. Con le altre persone presenti all’incontro proverò a suggerire di moderare le parole. Quando scoppiano conflitti come questo tutti ne parlano, spesso a vanvera e senza criterio: il male si propaga per contagio attraverso parole non custodite. Non si tratta di coprire un punto critico o far finta che non esista. Si tratta di fare quello che dice il vangelo quando invita ad amare i nemici: pregare e benedire, ovvero parlare in modo buono, che faccia crescere il bene.
Mi preoccupa questa contro-testimonianza che a volte offrono le nostre comunità. Ci saranno delle conseguenze e alcune potranno ricadere sui poveri. La mancanza di criteri comuni e condivisi favorisce la lite o le furbizie di alcuni. Eppure non mi devo scandalizzare di questo: le nostre comunità non sono diverse dal mondo in cui vivono. Il corpo ecclesiale si ammala, e subisce spesso le stesse malattie che circolano nell’aria che respira. La differenza non sta in una purezza di cui ci sentiamo orgogliosamente portatori. Semplicemente il Signore ci ha dato un buon antidoto, una medicina sicura, per combattere il male anche e proprio quando lo scopriamo dentro di noi. È la medicina della misericordia, di cui sappiamo anzitutto di aver bisogno noi stessi. La chiedo prima di tutto per me: perdonami Signore perché non sono stato un operatore di pace, oggi non ce l’ho fatta ad impedire che il conflitto mettesse piede tra i tuoi discepoli, abbi pietà di me. Forse proprio così, anche una giornata come questa, dove sembra che non ci sia spazio per la carità e un po’ di compassione, può diventare una scuola di misericordia.
Ma che fatica, Signore!
don Giuseppe