Le immagini hanno più vite dei gatti.
Esse vanno e vengono nella vita degli umani con sorprendente capacità di adattamento. Migrano come quegli stormi fruscianti che nei cambi di stagione inseguono i climi e assecondano i venti. Spesso indiziate di apparenza, sono in realtà veicoli dell’essenziale. Sono manifestazioni di «una presenza che attraversa una rappresentazione». Quando ci si accorge che sono di pubblico dominio, hanno già una lunga storia alle spalle, una gavetta talvolta secolare, consumata negli interstizi di quelle pratiche umane la cui forza simbolica non potrebbe sprigionarsi senza di esse.
Le radici
Anche questo piccolo racconto sulle sorti di una fortunata iconografia devota, che ha il suo nucleo di accensione nelle visioni mistiche di una giovane religiosa del seicento, avrebbe potuto partire da tappe ancora precedenti, arretrando persino nei chiaroscuri di certi immaginari arcaici e arcani.
Avrebbe per esempio potuto cominciare dall’estinta pianta del Silfio, nota per svariate proprietà erotiche, la cui forma si trova su certe monete antiche, cui qualche teoria fa risalire la forma stilizzata con cui ancora rappresentiamo il cuore. Avrebbe potuto raccontare dei molti cuori che hanno popolato le mitologie della cultura pagana. Ma anche di tutte le immagini devote del tardo medioevo nelle quali la passione di Cristo viene sintetizzata nell’iconografia della croce ornata delle mani trapassate, dei piedi feriti e del cuore sanguinante. Persino delle accidentate peripezie del cuore nel dedalo della simbologia esoterica e alchemica delle varie culture ermetiche che hanno messo radici all’ombra dell’ortodossia religiosa di convenzione.
Si sarebbe potuto anche setacciare la storia dell’arte, in cerca di premonizioni o paralleli, magari cominciando dall’Allegoria della Carità di Giotto agli Scrovegni, in cui un cuore di carne figura già come emblema di una congiunzione in cui gli affetti divini si incontrano con le virtù umane. Ci si poteva concedere il piacere di sostare sul Roman de la Poire, un poema allegorico del tredicesimo secolo, compilato sulla falsa riga del più famoso Roman de la Rose, tra le cui miniature compare la scena di un amante che inginocchiato offre alla dama il proprio cuore in segno di amore.
Sarebbe stato curioso inoltrarsi anche nelle derivazioni teosofiche della mistica, con i loro cuori rovesciati, incasellati dentro articolati schemi grafici della vita interiore, complessi come gli algoritmi dei nostri processi digitali. La miniera dei presagi e delle corrispondenze, indietro e in avanti del tempo, è pressoché inesauribile.
Nell’immaginario colletivo
Ma in questo semplice racconto, rapido e stilizzato, l’interesse era rivolto a quel punto di condensazione, culturale e religioso, nel quale alcune storie individuali e alcune sensibilità collettive, si sono congiunte nel dare forma un’immagine rivelatasi potente e longeva, in grado di veicolare con efficienza sbalorditiva le ambizioni di istanze insieme spirituali e politiche che in quell’epoca erano in cerca della loro affermazione.
La figura di Cristo col cuore sanguinante in mano, anziché rimanere una delle tante variabili illustrative dell’arte religiosa, si è insediata nell’immaginario collettivo con la forza simbolica delle antiche icone, sacramento visivo di un sentire cattolico bisognoso di un nuovo slancio affettivo come desideroso di un rinnovato riscatto sociale.
Nei decenni in cui la nuova cultura filosofica va concependo la forma razionale della coscienza soggettiva e la nascente autonomia civile degli stati va ritagliando lo spazio giuridico dei diritti individuali, una devozione scaturita dalla mistica prova a tenere vive quelle ragioni del cuore e quelle forze degli affetti che persino la teologia sembra trascurare.
Emblema di una passione dolente e alquanto striata di risentimento, l’immagine del Sacro Cuore ha saputo anche incitare con la propria aura visiva lo slancio spirituale che sta alla base della grande vitalità caritativa e sociale del cattolicesimo moderno, anch’esso impegnato a garantire, nel già conclamato sviluppo di una civiltà dell’utile, un comune diritto di cittadinanza alle istanze umane della dedizione.
La devozione da cui quell’immagine è scaturita, come ha provato a dimostrare Karl Rahner inquadrandone i termini dentro la cornice di una teologia aggiornata[1], aveva cercato in modo più o meno consapevole di raccogliere i termini della vita cristiana nella loro unità cristologica e nella loro consistenza affettiva. Ma la sua afflitta dolcezza, eletta dai decorsi storici a essere vessillo della mesta militanza credente nei trambusti della gestazione di una cultura moderna e secolare, ha finito per incarnare la ferma nostalgia del cattolicesimo per il suo passato prossimo, devoto e dottrinalistico, persino tinto di intransigenza, di irremovibilità, di vaga e fiera inattualità.
Proprio questi accenti ambivalenti, insieme di profezia e di inerzia, di istinto e di introversione, di slancio emotivo e di oscurità intellettiva, hanno fatto la miscela di umori che ne hanno consentito la fortuna. Riapparsa nel mondo della moda, appiccicata alla pelle di una umanità nuovamente tribalizzata, capace di serpeggiare in maniera più o meno esplicita per le strade di periferie in cerca di riscatto, l’immagine devota del cuore continua a rimanere un vettore iconico attorno a cui addensare le rivendicazioni collettive di un’affezione e di una grazia di cui la nostra cultura tecnomercantile ha prosciugato la vita sociale.
Cristianesimo a disagio
Mentre l’immagine del Sacro Cuore entra ed esce con spensieratezza in queste sue nuove vite, nelle profonde regioni del sentire cattolico di base la devozione che l’ha prodotta si riaccende in nuove storie di ordinaria incandescenza mistica. Come nel caso di Faustina Kowalska, religiosa polacca che il 22 Febbraio 1931 viene gratificata di un’esperienza mistica del tutto simile a quella di Maria Margherita Alacoque, dando vita alla fortunata devozione per la divina misericordia. Anche nel caso di questo nuovo fenomeno, l’apparizione suggerisce personalmente i dettagli di un’immagine chiamata a renderla presente, rinnovando la logica di una manifestazione divina che legittima di sua iniziativa le forme della propria rappresentazione. Questa nuova icona del Gesù misericordioso, che per certi aspetti eredita e aggiorna la devozione e l’immaginario del Sacro Cuore, sul cui petto però non compare più la radiosa consistenza di un organo cardiaco, sembra anche per diffusione e consenso averlo ormai sostituito. Questo Gesù misericordioso, imperturbabile e androgino, è forse oggi, assieme a quella di Padre Pio, l’immagine devozionale più diffusa in assoluto.
Questo evolvere e mobilitarsi di immagini non sembra assecondare l’auspicio di devozioni colte e aggiornate, nel quale un aggiornamento conciliare della vita cristiana continua più a dibattersi che a battersi, disatteso e contraddetto da umori di base che non sembrano sentire ragioni. A queste ambizioni di rinnovamento mille volte ridimensionate non hanno portato grande aiuto le transizioni, percepite come sconcertanti, dell’arte contemporanea. Il profondo disagio del cattolicesimo di base nei suoi confronti si manifesta con atteggiamenti di torva ostilità. Ma l’autentico astio che la questione suscita è solo un epifenomeno della profonda difficoltà che la vita cristiana continua a nutrire nei confronti di tutta la cultura contemporanea. Il distacco che ne è venuto, al netto di eccezioni che non spostano di un millimetro l’inerzia del fenomeno, rendono oggi la vita cristiana orfana di un’arte che serva i suoi bisogni. Anche se un punto di merito va riconosciuto a questa taciturna difensiva religiosa: la relazione credente chiede all’oggetto estetico di essere tangibile veicolo affettivo, mentre il registro prevalente delle arti contemporanee predilige la provocazione concettuale. Per questo il mondo religioso si trova più a suo agio col generico «visivo» che con lo specifico «artistico». Meglio la passione secondo Mel Gibson che lo stranito concettualismo delle chiese contemporanee. Contemporaneo per contemporaneo, si va dove ci porta il cuore. Sostanzialmente fuori dal mondo. Ma questa sarebbe un’altra storia.
Questo testo riprende un capitolo del saggio di Giuliano Zanchi, Le migrazioni del cuore. Variazioni di un’immagine tra devozione e street art, EDB, Bologna, 2017. Giuliano Zanchi, direttore del Museo Bernareggi e del Museo e tesoro della cattedrale di Bergamo, è segretario generale della Fondazione Adriano Bernareggi. Licenziato in Teologia fondamentale alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, si occupa di temi al confine fra l’estetica e la teologia. Collabora alla pagina culturale de L’Osservatore romano e fa parte della redazione di Rivista del clero italiano. Tra i suoi libri recenti, pubblicati da Vita e Pensiero: Il Genio e i Lumi (2011), Prove tecniche di manutenzione umana. Sul futuro del cristianesimo (2012) e L’arte di accendere la luce. Ripensare la chiesa pensando al mondo (2015).
[1] Karl Rahner, Devozione al Sacro Cuore, in Nuovi saggi, Paoline, Milano 1968, 605-642.