Ricolmi della gioia e della vita filiale infusa in noi abbondantemente dallo Spirito nella solennità della Pentecoste, celebriamo con altrettanta gioia il dono incommensurabile che Gesù ci ha fatto del suo Corpo e del suo Sangue – e dell’amore che sorregge e intride il suo dono –, reso presente nella celebrazione eucaristica che nutre l’assemblea della vita del suo Signore.
Gesù ha pensato alla nostra struttura antropologica che ha bisogno di segni concreti per il cammino della vita e vi ha risposto con il dono dell’eucaristia, nel quale sono resi presente nei segni sacramentali la sua intera struttura personale, la sua ricca divino-umanità, il suo essere teandrico, il nutrimento che ci trasforma in lui. Un dono davvero insondabile, nato dalla fantasia realista del Cuore di Gesù per la vita della sua sposa.
La manna che tu non conoscevi
Al centro del secondo grande discorso di Mosè nelle steppe di Moab, prima dell’entrata del popolo di Israele nella Terra del Santo (Dt 5,1–11,52), troviamo la memoria delle meraviglie operate da YHWH per gli israeliti.
Se il peccato originale di Israle è quello di «dimenticare/šākaḥ», l’imperativo fondamentale a lui rivolto è quello di «ricordare/zākar». La smemoratezza prosciuga le vene della vita di una persona e di un popolo, facendoli crescere sul nulla della precarietà e della liquidità che li fa sentire orfani «buttati nell’universo» senza un perché, senza un punto di partenza, uno d’arrivo e un senso del proprio presente.
YHWH irriga sempre la memoria del suo popolo con le opere da lui compiute con piena gratuità nella scelta, perché il suo popolo fosse testimone privilegiato verso le genti del volto e del cuore dell’unico Dio della vita, vero amante degli uomini.
YHWH ha tratto fuori un ammasso di gente dalla schiavitù disumana nell’Egitto, ha tentato di liberare la sua mente dalla memoria dell’ottimo cibo ma consumato nella prigionia degradante.
L’uscita dalla «casa della schiavitù/prigione/prigionia/bêt ‘ăbādîm» è il primo passo per un cammino faticoso ma liberante verso la libertà.
Occorre attraversare il deserto terribile e fagocitante i suoi ospiti impreparati. Qui il deserto non è lo spazio e il tempo del tenero fidanzamento ricordato da Geremia: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in terra non seminata. Israele era sacro al Signore, la primizia del suo raccolto; quanti osavano mangiarne, si rendevano colpevoli, la sventura si abbatteva su di loro» (Ger 2,2-3).
Il «deserto/midbār» qui si presenta col suo volto infido, mortale, vuoto di «parola/e/dābār/debārîm», che non sia quella del vento che sibila fra le sabbie e le rocce basaltiche. Una terra che riduce tutto all’essenziale, e permette solo una sopravvivenza stentata e abbarbicata ai pochi segni di vita presenti. Ma l’accozzaglia di israeliti uscita dall’Egitto, insieme ad una grande massa di «gente promiscua» (Es 12,38), «gente raccogliticcia (Nm 11,4), lo dovrà attraversare per poter entrare nella Terra del Santo, promessa ai padri.
La precarietà assoluta sarà una «messa alla prova/verifica/VB nissāh» a cui YHWH sottoporrà gli israeliti come parte del crogiolo che lo farà emergere come gente che è pronta all’alleanza col suo Dio, diventando in tal modo suo popolo. La precarietà fa emergere il profondo del cuore, è una verifica di ciò su cui ci si fonda, su ciò di cui solo ci si fida come fonte sensata della propria vita.
I coriandoli di YHWH
Penso che YHWH non voglia tanto «umiliare» (così la traduzione CEI) la sua gente, ma – secondo la mia sensibilità corrispondente alla globalità complessiva del volto e dell’azione di YHWH nel Primo Testamento –, vuole «renderlo umile», spossessato, non orgoglioso, non self made people.
Non intende neanche renderlo un popolo di minorenni dipendenti per sempre dai genitori, ma un popolo grato al suo Signore liberatore che li rende consapevoli che all’uomo è impossibile liberarsi completamente dalle proprie schiavitù se non con l’aiuto e l’accoglienza della gratuità che viene da Dio, ma anche dalle altre persone.
Non si è liberi se non si accetta il dono della non-onnipotenza, se non si fa spazio alla gratuità, alla «dipendenza» dall’amore delle altre persone.
La «manna/mān» non è un dono miracoloso, ma certo un dono provvidenziale che il Signore fa alla sua gente attraverso il creato, la tamarix mannifera. Un dono nuovo, i «coriandoli di YHWH», un cibo mai visto prima, neanche dai padri fondatori.
Pane dei poveri, che sanno di dipendere da qualcuno che li ama e li abbraccia da ogni parte, perché più grande di loro, specialmente delle loro idee di libertà monche ed errate.
Acqua dalla roccia durissima, ha fatto loro trovare provvidenzialmente (cf. Es 17,1-7).
Antiveleno efficacissimo contro i «serpenti serafini/serpenti brucianti/nāḥāš śārāp» si rivelerà il palo col serpente innalzato come «segno» al quale guardare con fede per essere salvati (cf. Nm 21,4-9, ma soprattutto Sap 16,7: «Infatti chi si volgeva a guardarlo era salvato non per mezzo dell’oggetto che vedeva, ma da te, salvatore di tutti»).
Certo, alla lunga la manna può diventare un cibo nauseante, leggero, ripetitivo (cf. Nm 21,5: «Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: “Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero”»).
Nm 11,7-8 la descrive: «La manna era come il seme di coriandolo e aveva l’aspetto della resina odorosa. Il popolo andava attorno a raccoglierla, poi la riduceva in farina con la macina o la pestava nel mortaio, la faceva cuocere nelle pentole o ne faceva focacce; aveva il sapore di pasta con l’olio».
Secondo Nm 11, 4 è «la gente raccogliticcia», e non gli israeliti, a lamentarsi della manna… Ma tant’è. È duro per tutti rinunciare all’onnipotenza narcisista, dipendere per la sopravvivenza, essere grati del dono, riconoscere che non ci si può autosalvare in pienezza, che tutti si vive della «provvidenza» offerta da Dio e dai fratelli.
Il pane vivo e il sangue del Figlio
Nella seconda metà del suo discorso nella sinagoga di Cafarnao (Gv 6,51b-58), Gesù rompe gli indugi e dichiara apertamente di essere «il pane vivente, quello disceso dal cielo/ho artos ho zōn ho ek tou ouranou katabas» (Gv 6,51). Non la manna provvidenziale della pura sopravvivenza caduca nel deserto, ma il pane vivente che dà la vita (zōē) piena, divina, «eterna»: «Questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,50-51).
Gesù si presenta come dono totale, nutrimento sostanziale, divino, per la vita che non ha fine, perché intrisa della vita divina del Figlio.
Il suo corpo è la sua carne, la sua carne è la sua vita donata, spezzata. Nutrimento genuino, unico antiveleno efficace contro il pungiglione della morte seconda (cf. 1Cor 15,55-56; Ap 2,11; 20,6.14; 21,8).
YHWH aveva iniziato da tempo, nella giovinezza del popolo, a nutrire i suoi figli quel tanto sufficiente per far emergere in loro i sentimenti della gratuità e della riconoscenza, sconfiggere i deliri di onnipotenza narcisista e abbandonarsi alla vita felice che solo lui poteva dare: «… nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e per provarti, per farti felice nel tuo avvenire» (Dt 8,16). Ora, una grazia grande viene «al posto» della prima grazia (cf. Gv 1,16 lett.), viene cioè ad abbracciare e ad inglobare in sé la prima grazia, la grazia offerta nel deserto, per «portarla a compimento» (cf. Mt 5,17) nell’offerta del corpo e del sangue del Figlio dell’uomo, del Figlio di Dio incarnato.
Il corpo, la carne di Gesù, è la sua vita, la sua esistenza di Figlio spezzata per i fratelli.
Il «sangue» di Gesù è la sua vita sparsa, donata, effusa. Il sangue e l’acqua che uscirono dal cadavere ormai inerte del Figlio di Dio sulla croce sono segno della totalità della sua vita interna precedente, della sua coscienza filiale, di ciò che lo sorreggeva giorno per giorno nell’abbracciare, volere, amare la volontà del Padre su di lui (cf. Gv 4,34 «mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato»; Gv 14,31: «bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre, e come il Padre mi ha comandato, così io agisco»). Volontà di dono, volontà di salvezza e di gioia piena «per i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,52).
Nel sangue di Gesù c’è la sua vita donata (cf. Gen 9,4; Lv 17,11; Nm 35,33; Dt 12,23-25: «Astieniti tuttavia dal mangiare il sangue, perché il sangue è la vita; tu non devi mangiare la vita insieme con la carne. Non lo mangerai. Lo spargerai per terra come l’acqua. Non lo mangerai, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te: così avrai fatto ciò che è retto agli occhi del Signore»).
Il sangue è il sacrario non attingibile all’uomo perché sede della vita, elemento sacro, riservato al Dio che lo ha creato.
Secondo il Primo Testamento, chi tocca il sangue muore, perché tocca la vita, che viene da Dio e appartiene a Dio. Ora invece il Padre lo mette volentieri a disposizione dell’uomo. È il sangue del Figlio sparso dalla violenza dell’uomo ma continuamente purificato dallo Spirito dell’amore filiale che lo manteneva sempre puro, obbediente, «spirituale», innocente, solidale.
L’uomo è chiamato a nutrirsi del pane vivo e a bere del sangue puro, per avere la vita, per essere trasformato in ciò che mangia e beve, così da poter vivere da figlio nel Figlio.
YHWH aveva dato la manna nel deserto, un pane “minimale” di sopravvivenza, per far capire agli israeliti che il vero pane che fa vivere in pienezza è «quanto esce dalla bocca di Dio» (cf. Dt, 8,3).
Nell’eucaristia il discepolo di Gesù, nella comunità, si nutre alla mensa del corpo e del sangue di Gesù e, nello stesso tempo, si nutre alla mensa della parola di Dio, che ha valore di sacramento anch’essa. Un’acquisizione che è bene meditare servendosi di un autorevole testo pontificio postsinodale.
Una Parola sacramentale
L’esortazione apostolica Verbum Domini del santo padre Benedetto XVI all’episcopato, al clero, alle persone consacrate e ai fedeli laici sulla parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa (30 settembre 2010), afferma: «Da qui comprendiamo che, all’origine della sacramentalità della Parola di Dio sta propriamente il mistero dell’incarnazione: “il Verbo si fece carne” (Gv 1,14), la realtà del mistero rivelato si offre a noi nella “carne” del Figlio. La Parola di Dio si rende percepibile alla fede attraverso il “segno” di parole e di gesti umani. La fede, dunque, riconosce il Verbo di Dio accogliendo i gesti e le parole con i quali Egli stesso si presenta a noi. […] La sacramentalità della Parola si lascia così comprendere in analogia alla presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino consacrati. Accostandoci all’altare e prendendo parte al banchetto eucaristico, noi comunichiamo realmente al corpo e al sangue di Cristo. La proclamazione della Parola di Dio nella celebrazione comporta il riconoscere che sia Cristo stesso ad essere presente e a rivolgersi a noi per essere accolto. Sull’atteggiamento da avere sia nei confronti dell’Eucaristia che della Parola di Dio, san Girolamo afferma: “Noi leggiamo le sante Scritture. Io penso che il Vangelo è il Corpo di Cristo; io penso che le sante Scritture sono il suo insegnamento. E quando egli dice: Chi non mangerà la mia carne e berrà il mio sangue (Gv 6,53), benché queste parole si possano intendere anche del mistero [eucaristico], tuttavia il corpo di Cristo e il suo sangue è veramente la parola della Scrittura, è l’insegnamento di Dio. Quando ci rechiamo al Mistero [eucaristico], se ne cade una briciola, ci sentiamo perduti. E quando stiamo ascoltando la Parola di Dio, e ci viene versata nelle orecchie la Parola di Dio e la carne di Cristo e il suo sangue, e noi pensiamo ad altro, in quale grande pericolo non incappiamo?’ (Girolamo, In Psalmum 147: CCL 78,337-338). Cristo, realmente presente nelle specie del pane e del vino, è presente, in modo analogo, anche nella Parola proclamata nella liturgia. Approfondire il senso della sacramentalità della Parola di Dio, dunque, può favorire una comprensione maggiormente unitaria del mistero della Rivelazione in “eventi e parole intimamente connessi”, giovando alla vita spirituale dei fedeli e all’azione pastorale della Chiesa» (n. 56).
Parola sacramentale di Dio in Cristo, Corpo e Sangue di Cristo, dal Padre nello Spirito. La solennità vissuta oggi dalla Chiesa celebra la vita piena di Gesù, vita donata a tutti gli uomini, a te, «per farti felice nel tuo avvenire» (Dt 8,16).