La condizione della “traduzione” a livello liturgico è giunta a una “impasse”. L’effetto di distorsione che la V Istruzione ha prodotto a livello universale è ormai noto anche ai più strenui difensori della “svolta letteralista”. Le Conferenze episcopali anglofone, quella tedesca, quella francese, quella italiana, sia pure in modi e forme diversi, hanno preso atto che i libri prodotti da Liturgiam Authenticam non sono fruibili. Se si osservano i criteri della Istruzione, si producono testi inutilizzabili. Se si vogliono produrre testi utilizzabili, occorre discostarsi sensibilmente dai criteri “irreali” di LA. Oggi tutto si è bloccato: i libri approvati non funzionano, e le conferenze episcopali rinunciano a presentare i nuovi, per evitare ulteriori guai, sia con i destinatari, sia con le autorità di controllo.
Per uscire da questa paralisi ho sollevato una serie di questioni in vista di una nuova Istruzione e le ho proposte al pubblico dibattito ecclesiale. Le richiamo qui sotto:
a) Quale bilancio possiamo fare della V Istruzione, dopo 15 anni dalla sua approvazione ed entrata in vigore?
b) Per quali ragioni appare urgente una “VI Istruzione” per la attuazione della Riforma Liturgica?
c) Quali sono i contenuti fondamentali che una tale Istruzione dovrebbe prevedere?
Ho anche provveduto a indirizzare direttamente ad “esperti” – direttamente impegnati nel lavoro di traduzione – le medesime questioni e alcuni di loro hanno iniziato a rispondere. Con grande parresia e dicendo cose del massimo interesse. Riporto le prime reazioni significative.
Abrogazione di LA o rilancio della inculturazione?
Nelle risposte vi è una comunanza di orientamento sulla esigenza di operare una svolta decisa rispetto alle pretese di “letteralismo” di LA. Una prima proposta è così formulata:
«Non credo che la via della “VI istruzione” sia davvero praticabile. Io desidererei la cancellazione pura e semplice di “Liturgiam Authenticam”, che ammetto essere altrettanto impraticabile, ma almeno eviterebbe di manifestare delle contraddizioni palesi che getterebbero nel ridicolo. A che pro scrivere documenti, se quello successivo può apertamente contraddirlo? Non potrebbe fare altrettanto una “VII istruzione” posteriore di quindici anni?»
La questione è effettivamente piuttosto seria. LA ha preteso di abrogare ogni documento precedente e così ha bloccato la produzione significativa nelle lingue vernacole. La via di uscita è comunque la abrogazione di LA: o mediante un nuovo documento che la abroghi, o con una abrogazione ce rimetta in vigore i documenti precedenti. A me sembra più coerente “avanzare” piuttosto che retrocedere, ma è legittimo ipotizzare che la seconda soluzione sia più semplice e sicuramente più “economica”.
Un altro interlocutore dice invece:
«Bisogna finirla con un concetto di traduzione “letterale” che mortifica sia la ricchezza del testo latino sia la stessa lingua parlata in cui questo testo si deve esprimere. Bisogna decentralizzare e quindi dare fiducia alle Conferenze episcopali che possono giudicare meglio il linguaggio adoperato sul territorio. Anzi, bisognerebbe dare ai vescovi una certa libertà in modo che la traduzione dei testi sia veramente un atto di inculturazione del testo latino in un determinato ambito linguistico».
Questo avviso ritiene importante riaprire il confronto con le diverse cultura, prendendo sul serio non solo la lingua e la cultura di partenza, ma anche quella di arrivo, come richiede ogni traduzione che voglia essere realmente utilizzabile e che non abbia bisogno di una continua “esplicazione” parallela.
La ricchezza espressiva della tradizione latina e delle lingue moderne
Un terzo esperto propone una considerazione più articolata, che voglio riportare integralmente. In essa appare con molta chiarezza il compito di “fedeltà” all’originale che le lingue moderne possono e devono realizzare, secondo la loro cultura e il loro “genio”, superando sia le tentazioni tradizionalistiche, sia le semplificazioni funzionalistiche.
«Varie ragioni mi hanno spinto a occuparmi dei testi liturgici presenti negli attuali libri per la Chiesa italiana. Mi sono dedicato alla questione della lingua/traduzione e ho dovuto affrontare anche LA. È chiaro che quel documento presenta grandissime difficoltà che molti esperti hanno rilevato (ad esempio, R. De Zan su “Rivista Liturgica”) e soprattutto il tentativo di rinchiudere l’affidabilità del testo soltanto nel suo originale come se la traduzione fosse “spuria”, inaffidabile. A mio avviso il grande peccato originale di LA è la totale sfiducia nei confronti delle lingue vive e delle culture d’arrivo e un eventuale VI Istruzione dovrebbe dipendere innanzitutto da una seria riflessione su che cos’è la lingua a partire dalla “svolta linguistica” in ambito filosofico.
Detto questo, credo che un richiamo alla fedeltà dell’originale sia quanto mai necessario. Ad es., le sfumature emotive dell’eucologia sono state rese in chiave etica o noetica. Era la temperie culturale degli anni ’70 (e primissimi ’80)? Certo è che se LA è figlia di un’ideologia conservatrice e miope di fronte alle culture e alla Weltanschauung di ogni lingua, certe traduzioni lo sono altrettanto per altre ragioni. Si può perdere tutto il bagaglio affettivo, metaforico, simbolico, immaginifico dell’originale, per traduzioni “piane” (o piatte) preoccupate soltanto di appianare e svelare il contento? Ma quale contenuto? È proprio vero che eliminando l’immagine della rugiada dal post-Sanctus della preghiera eucaristica II (Spiritus tui rore sanctifica) e rendendola con “effusione” ci guadagna la trasmissione/recezione del significato? La “trasmissione/percezione del senso” è data dalla comprensione del contenuto o dal quel “per ritus et preces” che è attuato anche dall’immagine contenuta nel test che poi sarà detto o cantato?
Sappiamo come le realtà misteriche, e tra queste lo Spirito, necessitino di essere dette con un linguaggio “altro”, poco tecnico e molto metaforico. E su questo la grande tradizione ecclesiale è maestra. Faccio un altro esempio. L’orazione dell’ultima raccomandazione e commiato del Rito delle Esequie si chiude in forma di intercessione per il defunto con l’immagine delle porte del paradiso che solo la misericordia infinita di Dio possono dischiudere. Nell’originale latino c’è una sorta di parallelismo istituito tra le orecchie della misericordia di Dio che si aprono per le preghiere dei credenti e le porte del paradiso che si spalancano per il defunto: «Pateant ergo, Dominem, precibus nostris aures misericordiae tuae, ut portae paradisi aperiantur famulo tuo». Così per le preghiere dei fedeli si aprono le orecchie misericordiose del Padre e si spalancano le porte del paradiso per coloro che terminano la giornata terrena. Ora il testo italiano (del 2011) omette questo parallelismo giocato sul concetto di “apertura” e a mio avviso è un impoverimento dal momento che l’emozione accesa dal parallelismo verbale è più forte di ogni persuasione intellettualistica.
Che fare?
a) Occorrono traduzioni “graziose”, non impacciate e rigide, ma anche davvero fedeli al senso dell’originale per non avere effettivamente un altro senso con un altro testo e per non smarrire un patrimonio che la tradizione ci ha consegnato. Mi rendo conto che non è sempre facile, ma non è impossibile. È in gioco anche una certa comunione tra le generazioni di cui tu hai parlato a proposito dell’idea di riforma liturgica oltre che di condivisione di un medesimo repertorio simbolico-testuale da parte di chi appartiene ad uno stesso milieu Per non parlare del fatto che buona parte delle metafore impiegate nei testi liturgici trovano la loro culla nel testo biblico.
b) Occorrono testi nuovi nelle lingue vive da affiancare ai testi antichi tradotti, in modo tale che l’italiano, l’inglese, il malgascio del XXI, secolo possano pregare nella propria lingua e secondo il proprio genio. Su questo la Congregazione è molto cauta in ragione della “sostanziale unità del rito romano”. Eppure, se grande è la ricchezza che la tradizione ecclesiale ci ha consegnato (per lo più dell’Europa occidentale in epoca altomedievale, come gli antichi Sacramentari), non è accettabile che le comunità oranti del mondo rimangano semplicemente debitrici di questa tradizione e inabili alla composizione di testi che rispecchino il loro stile e il loro genio».
Una nuova Istruzione dovrebbe unire, con grande autorevolezza, questi due “corni” della questione: valorizzare la ricchezza espressiva della tradizione, e incentivare le “nuove culture” ad esprimere “ex novo” la forza e la bellezza del mistero pasquale.
Pubblicato il 9 marzo 2016 nel blog: Come se non