Non sono pochi i tentativi in corso per mantere in vita le comunità parrocchiali. Unità pastorali, Comunità pastorali, Collaborazioni pastorali… sono le più recenti “ricette” escogitate per salvaguardare quel bene prezioso che è la parrocchia. Ma per Gigi Maistrello, autore di questo articolo, sono per niente risolutive. L’articolo che proponiamo contiene espressioni forti e giudizi drastici. Ne è consapevole lo stesso autore. Il suo contributo lo proponiamo anzitutto come spazio per un dibattito aperto e costruttivo, per rispondere alla necessità di dare parole a un disagio diffuso e qui espresso.
È fondamentale domandarsi: in un momento storico così difficile per la Chiesa, è possibile individuare un punto per iniziare? Io credo che questo sia la parrocchia.
È davanti a noi un fenomeno che non è stato abbastanza analizzato: l’istituto “parrocchia” rischia di sparire! Rischia di scomparire proprio quella che, per secoli, è stata il modello e il pilastro del cristianesimo. Sì, perché questo tipo di comunità ha sempre assicurato delle relazioni, dei percorsi condivisi, un ancoraggio con tutto il territorio…
Non sto qui ad elencare i valori tenuti in vita dalla parrocchia, un’istituzione che, in questi ultimi anni, si sta indebolendo sempre di più per il fatto che mancano i preti! È sicuro che il numero dei presbiteri è destinato a diminuire e che la qualità dei nuovi candidati è sempre più problematica.
La Chiesa vive nelle comunità parrocchiali, non c’è alternativa. La comunione, le relazioni d’amore, la misericordia, l’essere famiglia di famiglie, l’attenzione ai più deboli (poveri, bambini, vecchi, ammalati, esclusi…), l’ascolto… È solo questo che è attuale, che scalda il cuore delle persone e che permette alla Chiesa intera di avere un ruolo unico e insostituibile. Qui c’è futuro, tutto il resto diventa meno importante: i sacramenti sono per la comunione e non solo per la salvezza; la santa messa è soprattutto il momento settimanale di una comunità che si ritrova, si confronta sulla Parola, si ricarica e riparte ancora più unita (le nostre chiese si stanno svuotando perché non abbiamo da offrire un prodotto accattivante!). La catechesi e il lavoro dei gruppi devono essere scuola d’amore!
Dove si propone oggi questo? In nessuna parte! Se non lo facciamo noi, chi lo fa? Il mondo della cultura sta scoprendo questo e noi siamo fermi ancora alla “dottrina”!
Non siamo ritornati al Catechismo di san Pio X, ma stiamo inflazionando la vita dei fedeli con riunioni su riunioni e con contenuti che, a mala pena, fanno il solletico alla mente e certamente non scaldano il cuore.
Per partire dalla parrocchia c’è bisogno di una guida, di un pastore: ci vuole un padre!
Il clericalismo
Ho sempre sostenuto l’idea che, prima del Concilio, vigeva il modello monarchico e, dopo il Concilio, è entrato in vigore quello democratico. L’uno e l’altro sono stati utili in “quel” tempo, ma avevano solo una priorità: la gestione del potere, piccolo o grande che fosse!
È misera l’immagine offertaci da tanti fedeli laici nelle comunità cristiane nel post-concilio, quando abbiamo assistito come ad una gara per spartirsi gli ambiti di gestione del potere: dal consiglio pastorale al consiglio per gli affari economici, dai catechisti ai cori parrocchiali, dalla gestione della sagra ai campiscuola… l’elenco potrebbe continuare.
Il risultato è quello della moltiplicazione del clericalismo! Ognuno fa a gara, in nome del proprio battesimo, per avere una fetta di potere e poter quindi sentirsi protagonista! Quante notti insonni per i poveri parroci a causa di conflitti sempre più evidenti tra i cosiddetti operatori pastorali!
Una figura così
Bisogna cambiare lo schema: né monarchia né democrazia, ma paternità responsabile! In fondo è un modello antico e si può ripartire proprio da questo modello per cercare di dare alle nostre comunità un senso nell’attuale momento storico.
Un “padre”, che potrebbe benissimo essere una “madre”! Ma… uno solo!
Questo uno però deve possedere le caratteristiche dell’amore: una persona matura, distaccata dal potere e dal denaro, responsabile, credibile, riconosciuta, stimata, credente in modo incarnato e non devoto, capace di relazione, presente sia fisicamente che mentalmente, sobria, esperta di cuori e quindi capace di maneggiare la psicologia, abituato all’utilizzo delle comunicazioni moderne… Non occorre che abbia fatto sei anni di teologia, ma occorre che sia equilibrata e appassionata al modo giusto. Una persona scelta dalla comunità stessa, confermata dal vescovo e dal presbitero, oppure inviata da questi ultimi previa consultazione e periodo di conoscenza.
Ogni comunità che abbia un minimo di spessore (almeno 600/700 abitanti) dev’essere guidata da una simile presenza. Non da un telefono, da una mail, da un fantasma che arriva e scappa, da un delegato che ha solo il compito di fissare appuntamenti. Una persona che possa essere riconosciuta anche economicamente, perché non dev’essere presa dall’angoscia delle offerte, dalle visite alle famiglie (utili se non indispensabili) solo per qualche obolo, dalle messe per i defunti, dalle tariffe per i sacramenti…
Una presenza stabile in casa-canonica, 24 ore su 24, con la porta aperta, con la linea telefonica che non rimandi sempre a una segreteria, che sappia essere presente nei momenti-crocevia (la nascita di un bambino, la malattia, il matrimonio, le crisi esistenziali, la morte di una persona cara) per i quali tutti devono passare e che possono essere le occasioni migliori per mostrare quanto Dio sia l’incarnato, presenza che accompagna.
Prendere atto dei fallimenti
In questi decenni, per ovviare al numero sempre più ridotto dei preti, si è scelto il metodo delle Unità Pastorali e, ultimamente, anche delle Comunità Presbiterali.
Io personalmente ho sempre contestato questa scelta fatta ancora negli anni ’90, ritenendola un’operazione clericale, con l’unico desiderio di preservare il bene del presbitero e non quello del popolo dei fedeli.
È una scelta-non scelta, perché rinvia le decisioni importanti e, nel frattempo, crea un sistema invivibile, inefficiente e distruttivo del ruolo stesso del presbitero.
La non-scelta è dettata dal fenomeno che era davanti a tutti fin dagli anni ’70/’80: il fatto che il numero dei candidati al sacerdozio fosse sempre più esiguo e che il celibato obbligatorio fosse un ostacolo sempre più proibitivo nella ricerca di persone che potessero avere le caratteristiche necessarie per essere pastori capaci di affrontare le sfide del presente. Tale disciplina ecclesiastica costringe spesso a scegliere i candidati al presbiterato tra persone immature, problematiche, con tratti di anaffettività; oppure tra candidati orientati sessualmente verso l’omosessualità, questa vissuta quasi sempre in modo latente fino a diventare evidente solo successivamente. Non mi dilungo su questo argomento, talmente è lapalissiano.
Le Unità Pastorali propongono un metodo pastorale che imprigiona la relazione interpersonale e chiede al pastore un ruolo di carattere puramente organizzativo. Così il presbitero diventa sempre più un funzionario, una vera trottola, costretto al ruolo manageriale con una serie impressionante di riunioni e, per i più giovani, una frequentazione massiccia della rete. Si arriva così a comprimere la relazione, cuore della nostra esistenza, nell’orario di ufficio. Da notare inoltre, che più il tempo passa, più questo fenomeno si sta allargando.
Quando si parla di vocazioni poi: come è ipotizzabile che un giovane si senta attratto da una proposta di vita così contraddittoria, indaffarata, sfuggente, angosciata, per non dire… infelice?
Bisogna invertire la rotta.
Altro capitolo è quello che riguarda l’ultimo orientamento: le Comunità Presbiterali.
È risaputo che spesso il problema dei preti è quello della solitudine, ma è proprio vero che, per risolvere una così grande difficoltà, sia questa la giusta soluzione? Costringere alla convivenza persone costruite su un impianto educativo orientato individualisticamente è una soluzione destinata al fallimento.
L’istituto poi del “co-parrocato” ha evidenziato tutta la sua enorme fragilità, perché va a cozzare contro la giusta pretesa del presbitero di poter mettersi in gioco assumendosi tutte le proprie responsabilità. Pretendere di perpetuare il ruolo del “vicario collaboratore” è una violenza verso persone a cui è stata già negata una famiglia e la possibilità di essere protagonista.
Bisognerebbe partire da ben altri presupposti.
La pastorale dell’incontro
Per affrontare le sfide di questi anni, è quindi fondamentale la “qualità” delle persone chiamate a guidare le nostre comunità. In passato la scelta delle persone non considerava come elemento primario la maturità delle stesse, e poi a discernere i candidati al sacerdozio non venivano sempre chiamate le persone più adatte a questo delicatissimo ruolo.
Oggi ci sarebbe da fare un lunga riflessione sulla qualità dei preti giovani. È davanti agli occhi di tutti la situazione riguardante i presbiteri che sono arrivati per ultimi e il disagio che loro stessi stanno vivendo. Tanta fragilità camuffata dietro le regole canoniche: il continuo appellarsi agli orientamenti diocesani per nascondere la propria incapacità di scegliere; il liturgismo, con grande disagio del popolo e, spesso, con conflitti tra gli operatori laici; un’eccessiva ridondanza data ai segni; la difficoltà (da parte di molti) di sintonizzarsi con la linea di papa Francesco e la sua logica della misericordia evangelica; un sottofondo di impazienza e di fastidio verso ogni tipo di richiesta, anche la più umile, da parte dei fedeli; la seccatura per tutto ciò che non sia concernente alle problematiche interne alla Chiesa; la bulimica frequenza nei vari servizi di rete tipo facebook…. Tutto questo evidenzia una mancanza di maturità e di autonomia ed è quindi urgente che i superiori si domandino cosa stia succedendo.
Capaci di relazioni mature
Il cristianesimo ha nel cuore l’amore ed è proprio questo il pilastro di tutta la casa! L’amore comincia dalla relazione e non dalla conoscenza scolastica! Una relazione normale, esattamente quella che chiediamo ai fidanzati quando facciamo i corsi in preparazione al matrimonio.
Chi non è capace di relazioni mature non può aspirare a diventare guida di una comunità e, soprattutto, non può pretendere di essere riconosciuto solo perché è obbediente e molto devoto!
Stiamo vivendo un momento storico dove i preti, nella maggioranza, si offrono per funzioni che non vengono richieste (se non da una minoranza problematica) e non sono capaci di offrire ciò che il tempo attuale invece invoca: essere uomini esperti di vita, evangelici, capaci di cercare e intuire la presenza di Dio sia nei momenti cruciali dell’esistenza che nella quotidianità e, soprattutto, disponibili ad essere compagni di strada.
Dovremo passare da una pastorale di incontri a una di “incontro”.
[segue]
Maistrello Luigi è nato nel 1954 a Isola Vicentina ed è prete dal 1979. Dopo 35 anni di vita in varie parrocchie della diocesi di Vicenza prima come vicario cooperatore (quindici anni) e poi da parroco (vent’anni), è attualmente il cappellano del Carcere di Vicenza. Lavora anche in una Cooperativa Sociale denominata “Elica” che ha fatto nascere con un gruppo di amici fin dal 1983. Autore di varie pubblicazioni di carattere spirituale presso Il Messaggero e Paoline. Nel 2014 ha scritto Passione Evangelica, un testo di riflessioni introdotto dal teologo Vito Mancuso. Nel 2016 ha pubblicato per le edizioni Reverdito di Trento Lo scontro: il vescovo principe e il prete ribelle, con l’introduzione di Gian Antonio Stella.
Carissimo don Luigi Maistrello,
sono don Nino o, come si è soliti chiamare qui al Sud i preti diocesani, padre Nino. Sono parroco a servizio della diocesi di Messina Lipari S. Lucia del Mela. Ho 42 anno e da 15 sono sacerdote. In questo momento sono responsabile di bene tre comunità. In una delle tre, la più grande, che conta 5000 abitanti, sono parroco già da 13 anni.
Ho letto con interesse i suoi articoli su Settimananews e ritengo siano veramente interessanti, soprattutto per stimolare la riflessione e tentare una revisione , senza però omettere un necessario discernimento.
Desidero fermarmi su una espressione che considero efficace, lapidaria: «Dovremmo passare da una pastorale di incontri a una di “incontro”». Ma non si corre il rischio che queste frasi ad effetto, vere, reali, sincere, possano restare semplicemente slogan se non vengono accompagnate da suggerimenti per azioni concrete?
Ho molto apprezzato l’intervento del confratello milanese don Antonio Torresin, La parrocchia è viva, ma…, in cui si legge che «c’è molto da sfoltire. C’è, soprattutto, un’immagine totalizzante della parrocchia da abbandonare: quella che una volta forse presidiava ogni spazio e ogni tempo della vita degli uomini».
Ma ogni giorno mi pongo sempre la stessa domanda: come fare?
Per mio stile e mio carattere, ho sempre promosso una pastorale che curi l’ordinario, schivo delle grandi occasioni, degli eventi, delle solenni cerimonie.
In un periodo come quello estivo in cui qui in Sicilia si vive di feste patronali, mi sento estremamente a disagio. Soprattutto se la qualità della vita della parrocchia è misurata dal numero di attività promosse. Sagre, grest, campi estivi e… chi più ne ha più ne mette!
Mi vado sempre più convincendo che la parrocchia è chiamata a curare ciò che le è proprio, recuperare il suo ruolo specifico nel contesto sociale in cui si incarna. Non agenzia accanto o, ancor peggio, in competizione con altre agenzie di intrattenimento, ma piuttosto parrocchia: «la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie» (Christifidelis laici, 26).
Scriveva San Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte: «Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione» (NMI, 43). E nella Nota pastorale della CEI, Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia, si legge, quasi anticipando il Magistero di papa Francesco, «La parrocchia è figura di Chiesa semplice e umile, porta di accesso al Vangelo per tutti».
Immagino, perciò, una parrocchia-comunità che educa e fa crescere i suoi membri, perché questi siano sale e luce del mondo, lievito che fermenti la pasta, grano buono in un campo in cui coesiste la zizzania. Una “famiglia di famiglie” in cui ci si ritrovi insieme per la frazione del pane, l’ascolto dell’insegnamento degli apostoli e la preghiera, per maturare un’esperienza della carità da testimoniare ognuno in quella parte di vigna, che è il mondo, in cui ognuno si trova a vivere il proprio quotidiano. Una parrocchia che non abbia attività in concorrenza con il mondo, ma piuttosto i cristiani maturati ed abbeverati alla “fontana del villaggio”, portino il loro contributo nella vita del mondo. Mi pare che così si rimanga fedeli al mistero dell’Incarnazione, modello ispiratore della pastorale di ogni tempo!
Mi permetto concludere facendo appello alla sua pluriennale esperienza parrocchiale e alla sua competenza pastorale. Desidero riceve da lei dei suggerimenti paratici, degli stimoli che, come antidoti, mi permettano di “curare” quelle malattie che spesso intaccano anche la vita delle mie comunità.
Ho letto anche gli articoli che contenevano le reazioni ai suoi, ma non ho trovato molta concretezza. Mi pare che in molti teorizzano ma per porre rimedi ai malanni della parrocchia sono necessarie indicazioni concrete. Mi scuso per averle rubato e de tempo e la ringrazio per la cortese attenzione che certamente vorrà dedicarmi!
Nino Basile