Post-verità è una parola nuova, che nel 2016 è stata dichiarata «parola dell’anno» e introdotta negli Oxford Dictionnaires. Essa non è d’immediata comprensione, almeno per i comuni mortali e deve essere spiegata. Il celebre dizionario spiega in inglese, ambito in cui essa è nata, che era inizialmente un aggettivo (post-truth world), ma che nelle traduzioni è diventato presto un sostantivo, il «mondo post-verità» e quindi la post-verità, per dire un mondo «nel quale i fatti oggettivi hanno meno importanza o influenza nel formarsi dell’opinione pubblica del ricorso alle emozioni e alle credenze personali». Questa è la spiegazione data dal famoso dizionario di Oxford.
Un giornalista francese, Pierre Haski, sulla rivista francese l’Osb del 14 settembre 2016, l’ha definita più prosaicamente «la pericolosa tendenza delle democrazie occidentali a non credere più ai fatti nel dibattito politico, bensì alle menzogne pronunciate in tono sicuro». E cita l’esempio della campagna referendaria per l’uscita dall’Unione Europea del Regno Unito nella quale si è sostenuto che Londra versava all’Unione Europea 350 milioni di sterline alla settimana, una cifra che con Brexit sarebbe potuta essere investita nel servizio sanitario nazionale. L’affermazione era chiaramente falsa, ma una volta scritta sugli autobus britannici è diventata… credibile. E c’è da credere che molti non solo abbiano creduto a questa favola, ma non si siano neppure data la pena di verificarne la veridicità. Di questo genere di menzogne è stata piena anche la campagna elettorale di Donald Trump.
La serietà della posta in gioco
A ben vedere, non si tratta neppure di un fatto nuovo in sé: le campagne elettorali sono state sempre un campo fertile di bugie e di promesse false. Tuttavia, l’emergere ora di questo termine segnala una questione scottante della cultura contemporanea dove la verità legata ai fatti oggettivi è diventata secondaria rispetto alle informazioni messe in circolazione sui social media.
Fino a qualche tempo fa le notizie diffuse dai media garantivano una certa obiettività nella narrazione condivisa degli eventi, sempre fondata su qualcosa la cui “realtà” appariva incontrovertibile. Oggi, invece, milioni di utenti dei social networks (Facebook, Twitter, YouTube, Instagram ecc.) ricevono informazioni messe a punto per loro da piattaforme news e da misteriosi algoritmi che filtrano le informazioni per offrirle a utenti che cercano in esse conferma di quello che essi già pensano essere la verità.
Vengono così diffuse verità di comodo, verità non solo politicamente scorrette, ma anche palesemente false che servono a screditare un avversario, un individuo o un gruppo, senza che questo susciti alcuna reazione collettiva o provochi delle conseguenze legali.
Queste fake news, così sono chiamate le notizie false o taroccate oltre le “bufale”, relative ad affari personali, ma anche notizie del mondo scientifico, medico, della ricerca, che sono rilanciate a loro volta sui social media e si diffondono così in modo estremamente rapido e capillare, intorbidando le acque minando l’attendibilità dell’informazione.
Di queste fake news fanno le spese le star dello spettacolo, della politica e i loro familiari (grande scalpore ha fatto l’attacco a un congiunto della presidente della Camera italiana) ma anche semplici cittadini ai quali qualcuno, con intenzioni poco confessabili, tira questo genere di scherzi (la parola è un eufemismo!), senza preoccuparsi delle conseguenze né di smentire la falsità pubblicata neppure quando la cosa si mostra palesemente falsa.
Queste informazioni false fanno parte dei prodotti negativi del mondo digitale, espressione di quel «cambiamento antropologico che ha effetti sulla concezione del tempo e dello spazio, sulla percezione di sé e degli altri e del mondo, sul modo di comunicare, di apprendere e di informarsi», come ha scritto Giacomo Costa sj in Aggiornamenti sociali di febbraio 2017.
Esperti di psicologia e sociologia l’avevano preannunciato da tempo ormai, ma ora ne abbiamo segni concreti e percepibili. La post-verità è un fenomeno che non si può assolutamente sottovalutare per le sue conseguenze.
Essa destabilizza e destruttura il mondo della socialità ordinaria e insieme ci interpella, anche se non vediamo ancora dove essa ci stia portando. Certamente essa investe il mondo politico e democratico, al punto che Francis Fukuyama l’ha dichiarata un pericolo per la democrazia.
Destabilizza la società perché la post-verità mina alla base quella fiducia spontanea che sostiene le relazioni ordinarie della società.
Interpella le istituzioni pubbliche che dovrebbero salvaguardare l’oggettività e la credibilità delle informazioni, ma non hanno strumenti idonei per farlo, e mettono in stato di allerta lo stesso mondo dell’informazione che ne esce screditato e, infine, ma non ultimo, fa riflettere chi si occupa dell’educazione dei giovani e del futuro della nostra società.
Non c’è bisogno di mettere in discussione l’uso dei mezzi d’informazione e comunicazione (smartphone, i-pad e social media e quant’altro) oggi diffusi e, per molti aspetti, benefici e ormai necessari. La loro importanza non si può negare. Sono stati lo strumento che ha allargato e reso efficace il dissenso politico là dove i regimi autoritari impedivano le manifestazioni di massa, come nel caso delle «primavere arabe».
Non si può sottovalutare l’importanza di questi strumenti fintanto che essi servono alla verità. Ma quando i social network sono usati per diffondere con rapidità e capillarità fake news che sono autentiche calunnie o provocazioni al crimine, allora non si può non reagire in nome della verità, del rispetto dovuto alla dignità della persona umana e anche in difesa di questi strumenti preziosi e utili che vengono altrimenti demonizzati e squalificati.
Alla ricerca di qualche rimedio
Dato che il fenomeno si sta pericolosamente diffondendo, la stampa, i giornali e le riviste incominciano a parlarne, a mostrarne le conseguenze e a cercare di individuare qualche possibile rimedio, specialmente dove essi mettono in pericolo la democrazia che ha nell’informazione uno dei punti di forza. Forse una tale paura è esagerata. Più semplicemente, però, va detto che questo degrado dell’informazione mette in pericolo la possibilità dell’informazione oggettiva, ma anche la possibilità stabilire relazioni e un vero dialogo tra le persone e i gruppi. Bisognerà quindi prendere le giuste difese con strumenti di factchecking per la verifica dei fatti.
Si capisce che ci sia chi invoca una legge che tuteli l’informazione corretta e reprima questo genere di fatti, oppure chi domanda un tribunale o comunque degli organismi che verifichino, selezionino e giudichino le informazioni.
Lo scorso febbraio a Trieste si sono riuniti oltre mille tra giornalisti, manager, docenti e comunicatori per riflettere sugli stili della comunicazione e hanno elaborato «un progetto collettivo chiamato “Parole o Stili” per far riflettere sull’influsso delle parole nella società e sull’importanza di sceglierle con cura negli anni di tante bufale, di contenuti offensivi e discriminatori (hate speech), di provocazioni e accuse infondate» (F. Ochetta in La Civiltà Cattolica n. 4005).
Anche l’Ethical Journalism Network ha stilato una serie di suggerimenti per arginare le fake news.
Sulla stessa linea in Italia è stata depositata in Parlamento una proposta di legge per salvaguardarsi dalle informazioni false.
Tutte queste proposte e iniziative sono certamente lodevoli, ma c’è da temere che difficilmente porteranno dei risultati decisivi. Quello di cui c’è urgente bisogno è di educare la gente alla specificità dei news media e alla “lettura” intelligente dell’informazione, di promuovere il buon funzionamento del mondo dei media tradizionali e nuovi, di verificare i valori a cui si ispirano, e di ribadire l’etica e la deontologia di chi opera in questo campo. Potranno servire anche interventi normativi o leggi che reprimano la vendita di prodotti informativi adulterati, la verifica dei siti digitali ecc.
Ma decisiva sarà l’educazione, in particolare dei giovani ad un uso corretto dei media e dei social network e al rispetto della verità e delle persone.
Certo il diffondersi della post-verità è il sintomo di un malessere nei confronti dell’informazione tradizionale attuale, che dovrebbe essere più controllata non tanto dallo stato, ma dagli stessi enti di diffusione per non permettere la diffusione indiscriminata e incontrollata di qualsiasi notizia.
Anche nel nostro ambiente ecclesiastico dovrebbe crescere la consapevolezza dei rischi legati all’informazione e del bisogno di educarci al rispetto della verità e alla responsabilità nel diffondere le notizie. Forse nei nostri ambienti, per quanto è dato di sapere, non è ancora entrato il fenomeno della post-verità, ma l’urgenza di un uso corretto e positivamente costruttivo dei social media, questo è sentito ed è oggetto ogni anno di un insegnamento pontificio che, bisogna pur ammetterlo, finisce per essere riservato agli addetti ai lavori, mentre potrebbe e dovrebbe trovare eco nella vita delle istituzioni ecclesiastiche e in particolare negli istituti religiosi.
Il mondo digitale è entrato quasi di soppiatto in molte delle nostre comunità prima in modo ridotto, ma ora in modo massiccio senza che sia accompagnato, nella maggioranza dei casi, da un’educazione appropriata. L’emergenza del fenomeno post-verità potrebbe essere l’occasione provvidenziale per un intervento di coscientizzazione dei benefici e dei rischi connessi a questo campo.
Roncone (TN), 16 giugno 2017.