«Nessuno è mediocre se è se stesso, Dio non crea altro che geni». Una frase che identifica bene Patrick Kavanagh, grande poeta irlandese, purtroppo poco conosciuto da queste parti, a cinquant’anni dalla sua morte.
Ritenuto da molti il più grande poeta irlandese, dopo il superbo e totemico Yeats, Kavanagh è rappresentante molto significativo di una realtà singolare, quella irlandese, piccola geograficamente, ma grandissima da un punto di vista creativo.
Irlanda, terra di poeti
La letteratura e i quattro Nobel vinti (Shaw, Yeats, Beckett, Heaney) definiscono l’Irlanda come terra ad alta densità poetica.
Ma anche la ricca tradizione teatrale e la sterminata realtà musicale contribuiscono a profilare una sorta di carattere nazionale irlandese, un modo di vedere e intendere la vita, oltre l’identità politica e l’appartenenza cattolica, alla ricerca di un altrove e di un senso intuibile e avvicinabile solo con le categorie dello spirito.
Un altro tratto molto irlandese definisce bene la poesia di Kavanagh, una logica che potremmo chiamare di compresenza: ogni filo che tesse la complessità delle questioni è un elemento che porta una parte di verità. Una logica inclusiva che valorizza anche le contraddizioni che hanno caratterizzato la vita di Kavanagh, eccentrico poeta campagnolo di umili origini che ama cantare i contadini dai quali è incompreso; un poeta che aspira a essere tale con alle spalle solo studi medi. Far convivere la realtà e la trasfigurazione che la rappresenta è l’arduo tentativo che si ritrova in tutte le 253 liriche del poeta. Purtroppo solo 39 di queste sono reperibili in Italia, raccolte nel volume Andremo a pescare in cielo, edito dalla Ancora, reperibile con relativa facilità.
La prima urgenza che muove l’intuizione poetica di Kavanagh è la consapevolezza che il creato, il lembo di terra, anche il più apparentemente banale, nel quale si consuma la vita di un uomo, è materia degna per l’immaginario e può essere espressa.
Le parole del poeta quindi raccontano la terra, sanno di torba, trasudano umidità, cantano la fatica. Parole ispirate dal luogo natio: Inniskeen nel Mucker, nebbiosa campagna nella contea di Monaghan, a nord di Dublino.
Racconto poetico della realtà
Kavanagh crede che raccontare poeticamente la realtà, il quotidiano, sia molto rilevante per la vita. Una poesia immediata, essenziale oltre i toni: la questione dirimente non è la delicata evocazione o la crudezza che declinano i versi, ma è l’incanto del creato la meta sempre presente nel percorso di Kavanagh, coinvolto e partecipe, come ogni uomo, nell’angolo di mondo che si trova ad abitare; e tutte le cose che lo vivono, nuvole, acqua, terra, condividono lo stesso destino. Non un atteggiamento panteistico: nella tradizione della poesia irlandese, assolutamente ripresa da Kavanagh, la natura è pensata come una compagna di viaggio dell’uomo; anch’essa soffre e si può dire che attenda una liberazione. L’eco della Scrittura non è casuale perché, in fondo, il tema è suggerito dall’incontro straordinariamente ricco e prolifico tra il celtismo e il cristianesimo.
A questo proposito è molto pregnante un racconto, protagonista san Kevin, il san Francesco irlandese, che cova nelle sue mani delle uova deposte da un merlo. L’evidenza che sono ordito e trama, lo stesso intreccio, una «maglia della vita eterna» per dirla con Seamus Heaney.
Colline di Monaghan,
voi avete fatto di me il tipo d’uomo che sono,…
…o colline di Monaghan, quando sarà scritta la vostra storia,
una copia carbone disvelerà il mio essere
L’urgenza di raccontare il mistero dell’esistenza si scontra con la consapevolezza con un ambiente indifferente.
Dall’amata campagna Kavanagh si trasferisce nella desiderata città. A Dublino tenta di accreditarsi nei circoli letterari che contano, ma il desiderio di partecipazione si accompagna alla crescente consapevolezza di un’estraneità profonda. Il ricordo delle sue radici, le fonti più limpide della sua ispirazione, non gli parevano condivisibili con la parte più colta e importante del suo uditorio dublinese, nei confronti del quale si sentiva irrimediabilmente “altro”. Con amarezza e convinzione il poeta descriverà la situazione nella toccante Innocence:
Loro ridevano dell’unica cosa che amavo
Quella collina a forma di triangolo appesa
Com’è al Big Forth. Dicevano
Che ero incatenato da siepi di biancospino
Siepi di fattoria che non conoscevo il mondo.
E invece sapevo che la porta d’accesso che l’amore dà
Sulla vita
È la stessa porta d’accesso, ovunque.
Questi versi aprono alla comprensione di una delle chiavi di lettura più profonde della poesia di Kavanagh. Le siepi, che raccontano il mondo del poeta, sono considerate, da parte dei rappresentanti della cultura ufficiale, una sorta d’impedimento esistenziale. Per il poeta, invece, sono oggetto di amore e mezzo per una vita piena, larga, profonda, totalmente appagante tale da far apparire illusoria e ingannevole la ricerca di altri spazi, magari quelli disegnati dai seducenti circoli culturali.
Parrocchiano d’Irlanda
Non è rilevante l’accumulo di esperienze, ma l’intensità delle stesse. Da questa intuizione deriva una nota distinzione operata da Kavanagh tra “provincialismo” e “parrochialismo”: il provinciale vive orientato alla “metropoli”, addirittura non crede e non dà importanza a quello che vede finché non ascolta il parere di quelli che vivono in città, di quelli che contano; la mentalità parrocchiale invece crede fortemente nel valore sociale, e anche artistico, di quello che avviene nella parrocchia di appartenenza, intesa proprio come lembo di terra che si abita. Quindi tra i due il “parrocchialismo” è universale perché tratta dei grandi temi della vita. E forse nelle sue opere in prosa si evince il desiderio di essere il parrocchiano d’Irlanda.
È il particolare che deve essere narrato, perché è capace di disvelare in un dettaglio qualcosa di importanza universale. E nel quotidiano è rintracciabile la materia per un rinnovato canto
Rigogliose di fogliame d’amore le sponde del canale e
L’acqua verde
Che versa redenzione per me affinché io faccia
La volontà di Dio, sguazzando nel consueto, nel banale
Crescendo assieme alla natura così come ho fatto finora.
Sono versi che appartengono al ciclo di Sonetti del Gran Canal di Dublino, composti dopo anni travagliati nella capitale, segnati da una vicenda giudiziaria legata a un settimanale fondato dal poeta, ma soprattutto dall’operazione subita per un cancro ai polmoni.
La sua poesia si fa più matura, più concettuale, ma la materia narrativa rimane la stessa.
Versi che rimandano a una dimensione profonda e importante nella vita di Kavanagh: la fede.
In una delle ultime poesie del poeta, Miss Universo, è descritto bene il Dio in cui crede Kavanagh
non è Creatore astratto ma è Colui che accarezza
la terra mattutina e notturna.
Dio nel quotidiano
Cresciuto nella fede contadina tipica dell’Irlanda rurale, Kavanagh vive intensamente la fede, ma rimane insofferente ad alcune posizioni della Chiesa. In The Great Hunger (La Grande Fame), forse l’ opera più famosa, composta nel 1942, non tradotta in italiano, è prorompente la sua fede nel Dio nascosto nel quotidiano, nei poveri, negli abbandonati nei “non degni di nota”, figure dolenti, schiacciate dalla vita.
Cristo, è visto non come un giudice, ma come un partecipe fratello maggiore, difficile da far arrabbiare, comprensivo di fronte agli sbandamenti, alle domande inevase della povera gente, confusa spesso dalla vita e anche dalla Chiesa ufficiale.
Un Dio che si nasconde nel quotidiano apparentemente insignificante, il Dio feriale che si lascia scoprire. Così il poeta lo descrive in l’Uno
Eppure un’occasione importante allorché la musa facendosi bella
Si preparava a informare gli agricoltori locali
Che il meraviglioso, meraviglioso, meraviglioso Dio
Infondeva il suo amore nei pressi di una palude lontana
«Bisogna lasciare a Dio la possibilità di sorprenderci», e la poesia si affianca alla preghiera nel creare spazi per la sorpresa.
Abbiamo gettato nella pattumiera le monete d’argilla
Del piacere, la conoscenza e l’ora consapevole.
E Cristo viene con un fiore di gennaio
Un arrivo che deve trovare pronto l’uomo, come detto in Confessione
…torniamo a calarci
nel profondo di un ’umiltà anonima e possa Dio
trovarci materia degna della sua mano
La poesia di Kavanagh, pur risentendo talvolta di atmosfere che si rifanno alle complesse strutture poetiche di Yeats, rimane una poesia di nuda evocazione che, come disse Seamus Heaney, dà «Un piacere primitivo nel trovare il mondo divenuto parola».
Kavanagh è molto popolare in patria «uno di famiglia» come disse Bono degli U2, il quale ha anche svelato che October, famosa canzone del gruppo che dà il titolo all’omonimo album, è ispirata proprio al poeta. La poesia più nota di Kavanagh, On raglan Road, è leggendaria nella versione del cantautore irlandese Van “The man” Morrison accompagnato dai Chieftains.
Quel dinoccolato uomo scontroso e dal carattere difficile che si aggirava per Dublino, spesso inadeguato alle situazioni, ci lascia un eredità preziosa: cantare il creato con stupite parole semplici, facendo balenare l’emozione di farci sentire piccole creature di fronte alla grandezza del creato, che, più si percepisce tale, più è vicina. Quasi la declinazione di uno spericolato ossimoro. Sembra dire proprio questo la statua che ricorda il poeta sul Gran Canal, a Dublino, dove Kavanagh ha passato molto tempo dopo la malattia e dove ha composto liriche toccanti.
Ricordatemi dove c’è acqua,
preferibilmente acqua di canale, così placidamente
verde nel cuore dell’estate. Fratello,
ricordami così benignamente…
…ricordatemi non con una tomba di eroe coraggioso-
mi basta una panca, di lato al canale, per chi passa di qua
L’epitaffio che sugella il tracciato della vita di un uomo che ha scelto di essere fedele a se stesso.