In dialogo con Christoph Theobald

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Con questa lettera, Michele Giulio Masciarelli dialoga con Christoph Theobald e il suo intervento Teologia: il sapore dei giorni. Sullo sfondo, il dibattito avviato da Marcello Neri, nel quale sono intervenuti lo stesso Michele Giulio Masciarelli, Jakob Deibl, Andrés Torres Queiruga.

Carissimo fratello in Cristo,

leggo da tempo la tua teologia che ha trovato il suo asse organizzativo nella parola “stile”: dico che la tua teologia “ha trovato” quella parola unificativa non ex post, ma a modo di un seme da cui tutto si germina. Chioso ancora: è la tua teologia che ti ha portato all’approdo/avvio dello “stile”. Credo che accada spesso sia nell’elaborazione di un principio teologico, sia nella delineazione di una forma teologica, sia nell’approccio all’ora d’oggi (come hai fatto confrontandoti con l’Evangelii gaudium di papa Bergoglio): chi fa teologia non conduce il discorso sempre e fino in fondo, ma piuttosto, a un certo punto, è condotto, è quasi trascinato da quanto si è costruito ed elaborato teologicamente. Lo sbocco verso lo “stile” da te operato credo sia accaduto così ed è cosa che va meditata bene e da cui dovranno dedursi anche conclusioni utili nel far teologia.

Vorrei ragionare con te su alcuni punti soltanto, sperando che il nostro dialogo teologico porti qualche frutto, semmai avrai modo di porre gli occhi su questa mia missiva su Settimananews. I temi che mi premono dentro il cuore sono soprattutto la misericordia e la sinodalità, due parole che potresti mettere alla prova della tua parola-regina, lo “stile”, e vedere se esse meritino di diventare due parole di “stile”, nel senso che siano capaci d’interpretare l’incontestabile “stile” del Dio trinitario.

Il problema di operare “spostamenti” in teologia

Ti confido che, nella mia ricerca teologica, ogni tanto percepisco alcuni temi collocati classicamente in ambiti della “sistematica teologica” che han bisogno di spostamenti notevoli dentro di essa o a loro margine. C’è l’esigenza di una colmatura di vuoti (ricordo l’assenza del riferimento mariologico laddove sarebbe stato necessario per rendere possibile una comprensione essenziale del cristianesimo); come pure avverto l’esigenza che siano spostati a livello di principio temi consegnati unicamente alla teologia morale.

Lanciare e rilanciare il tema dello “stile” ecclesiale

La tua parola-regina, lo “stile”, è ben capace di valorizzare l’accoglienza battesimale e la convivialità eucaristica per creare, sempre di più, uno stile sinodale che porti ad accogliersi l’un l’altro, rendendo così possibile il vicendevole servizio tra i fratelli e fruttuosa la missione, intesa come opera santa tendente a espandere e a radicare la carità salvante di Dio nel cuore degli uomini, nelle loro opere e nei loro giorni.

Non viene anzitutto lo “stile” di Dio?

I problemi teologici, come oggi si presentano nella loro urgenza, mi pare siano prevalentemente di teologia fondamentale, nel senso proprio di teologia delle «strutture del cristianesimo», per usare un’espressione dell’Introduzione al cristianesimo di Joseph Ratzinger. All’apice di queste “strutture” (Ratzinger, in proposito, costruisce un bell’esagono: sei principi davvero portanti) non dovrebbe essere messa la volontà universale salvifica di Dio? Egli «vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). In teologia non mi pare che questo principio “strutturale” del cristianesimo venga considerato con il giusto rigore. A me pare che questo principio debba essere considerato non come un ostacolo da glissare, ma come il primo asse rivelativo, che fonda ogni discorso teologico.

La salvezza di tutti gli uomini è davvero l’idea ferma, dominante, ostinata di Dio e, se riusciamo a dirlo con rispetto, direi che è la sua “idea fissa”, che obbliga, di conseguenza, tutti i cristiani a rispettarla ad ogni costo. Questa “idea fissa” è il filo forte che collega tutte le parole dette e tutti i gesti mostrati da Dio nella Rivelazione e che trovano un’efficace sintesi nell’espressione di san Paolo ora ricordata. Tale proposito salvifico del Padre è giunto a piena rivelazione nei tempi nuovi inaugurati da Gesù. Pertanto, in cima alle preoccupazioni di papa Francesco, quale Pastore universale, vi è quella di chiamare la Chiesa a obbedire nel modo più rigoroso alla volontà salvifica del Dio trinitario.

Lo “stile” di Dio è misericordia e perdono

Ti presento, fratello in Cristo, un disagio avvertito durante l’ultimo Anno santo sulla misericordia: mentre papa Bergoglio si sforzava di riporre al centro del discorso cristiano la misericordia come principio, la reazione è stata spesso quella di una certa irritazione per l’insistenza, ritenuta evidentemente esagerata, sulla misericordia divina. Ma, allora, ci si può impegnare di più in teologia a operare lo “spostamento” del tema della misericordia, per ricordare un’operazione proposta da Lafont, dall’ordine della morale sociale all’ordine del principio? Non è necessario dimostrare teologicamente che la parola misericordia è la matrice prima con la quale debbono paragonarsi l’intera teologia, la pastorale, la missione? Non è necessario mostrare che prima viene lo stile di Dio, che è la misericordia, e poi gli stili ecclesiali in coerenza con quello?

Ma non vuol dire proprio questo, papa Francesco quando, nell’esortazione Evangelii gaudium, parla di «logica della compassione» (n. 307) verso le persone fragili e raccomanda la «logica dell’integrazione» (n. 299) per i battezzati che sono divorziati e risposati civilmente?

Questa, evidentemente, è solo un’esemplificazione: egli parla di “logica”, non di semplici richiami alla misericordia; ad essa, dunque, egli riconosce col suo magistero – ma anche con la sintassi dei suoi gesti simbolici – la primalità, la centralità e l’ultimità della misericordia nella vicenda cristiana.

Un permanente “cristianesimo giubilare”?

La misericordia conosce la forma rigorosa del perdono, come la sua punta più austera e radicale: non è, infatti, il perdono sotto certi aspetti “contro natura”, sebbene abbia una sua sapienza, anche umana, di grande valore risolutivo dei problemi?

Carissimo, perché, a ridosso del Giubileo sulla “misericordia” (parola comune ai papi del Novecento), non ci si sforza, nella comunità teologica, di mostrare che il cristianesimo è costitutivamente una religione giubilare, della quale l’itineranza pellegrinale e l’esperienza del perdono sono termini essenziali e determinanti?

Ciò dovrebbe spingere i teologi a considerare la misericordia-perdono fra i pochi punti di partenza e finali del discorso cristiano: questi “punti” iniziali e ultimi del cristianesimo non vanno più declinati senza prevedere, all’inizio di essi, quello della misericordia, né vanno più collocati al di qua della misericordia stessa. Se il discorso cristiano dovesse far diventare secondaria o marginale o subordinata la misericordia, quel discorso non sarebbe più cristiano, né cristiana sarebbe la teologia che sostenesse questa bassa pretesa.

Il rinnovamento della “teologia fondamentale”, soprattutto, dovrebbe essere orientato a operare una ricognizione dei temi teologici che non contengono le ragioni della misericordia, impedendo così che questa plaga importante della teologia (quella appunto dei “fondamenti”) resti ancora come inchiodata al solo rapporto fede-ragione, incurante di ricercare un incontro serio e necessario col principio-misericordia, che regge tutta la Rivelazione dalla protologia all’escatologia.

Papa Bergoglio come papa Roncalli

Papa Francesco, durante il recente Anno giubilare sulla misericordia, ha spinto la Chiesa a porre la misericordia stessa dell’ordine del principio. Afferma con ragione G. Lafont: «La mia impressione è che, proponendo la “misericordia” come nome di Dio, alla luce della quale vivere e interpretare la nostra fede e il nostro comportamento cristiani, Francesco ci inviti a intraprendere uno spostamento significativo». E ricorda, questo illuminato teologo che, in tal modo, Francesco si ricollega a papa Roncalli, a proposito del quale – ricorda ancora – l’anno prima che diventasse papa, Bergoglio aveva scritto: «[Giovanni XXIII] ha dato all’amore quel primato fino ad allora riconosciuto alla verità».

Carissimo fratello in Cristo, prendi questa confidenziale missiva teologica come l’esternazione del bisogno di confidarmi con un “maestro di teologia”, che da qualche anno leggo e che trovo un ideale interlocutore per ripensare alcuni crucci e desideri che mi lievitano nel cuore su problematiche teologiche cocenti, ma anche pregnanti di speranza.

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