Cara Settimananews,
il vostro osservatorio sulla vita pastorale del prete – prima nell’edizione cartacea e ora in on line – ci tiene attenti da tanti anni, almeno da quando sono diventato prete io stesso (1973). Ho maturato in questi anni alcune convinzioni che direi preliminari ad ogni ipotesi strutturale.
La prima è la vita del prete e la sua attenzione-formazione personale. La Presbyterorum ordinis parlava della vita e del ministero. Stiamo gironzolando per soluzioni comunitarie simili a quelle dei conventi, o altro. Io credo che ognuno di noi debba cercare la sua sistemazione che non potrà prescindere dalla relazione. L’isolamento è la morte della relazione. Ogni relazione utile è benedetta, purché si sappia che “non è bene che il prete sia solo”. La verginità chiama l’amicizia, come mi ha insegnato il padre Amato Dagnino.
La seconda è il passaggio da protagonista unico sulla scena a regista. Lo dico con questo linguaggio teatrale. La riscoperta del sacerdozio battesimale, che è base anche del nostro ministeriale, la piena dignità del cristiano comune dentro la Chiesa e nel mondo, la scoperta che noi preti non siamo e non possiamo essere tuttologi e che i fedeli laici sono più bravi di noi anche nelle cose ecclesiali, ci chiedono di mettere in moto la corresponsabilità.
Quando sento, da parte di qualche prete, giudizi tra l’ironico e il dispregiativo sui fedeli laici… mi pare che non siamo entrati in questa logica di Chiesa, la Chiesa sinodale del concilio. E non vale neppure la proposta di affidare semplicemente a dei laici l’intera responsabilità di una piccola comunità. Anche questi dovranno interfacciarsi con altri, e anche col celebrante prete.
Uno studio tra il sociologico e pastorale su queste collaborazioni e affidamenti in Italia sarebbe un cosa buona. E anche sulle cause della riuscita o dei fallimenti. La povertà di cui parlava A. Matteo nel primo intervento è questo passaggio (conversione) dall’essere noi protagonisti unici della vita ecclesiale (pastorale) alla capacità di comunione non finta con tutti, nell’armonia dei carismi e dei ministeri . I documenti della Chiesa lo dicono da tempo. Ma farci scendere dal piedistallo è dura.
La terza è la purificazione da ogni logica di potere. Noi nasciamo come pastori. Ci è difficile diventare agnelli e, per prendere l’odore delle pecore, occorre che stimiamo la vita e l’esperienza umana e spirituale di ogni persona che incontriamo.
Se scorriamo i siti che tratteggiano la psicologia e gli atteggiamenti delle persone di potere, ci accorgiamo che siamo facilmente contaminati anche noi. È un nuovo modello di Chiesa che stenta proprio a incarnarsi. Anche perché tanta gente ancora ci vuole uomini di potere.
Mariano Piccotti
marianopic@libero.it
Sulla figura del prete, si vedano i tre interventi di don Armando Matteo (cf. Settimananews 4, 10 e 13 giugno 2017) su “Che cosa resta del prete?” e il primo intervento (cf. SettimanaNews 2 luglio) di don Francesco Cosentino.