Dopo aver riflettuto sull’ambiguo principio-speranza, svalutata nello stoicismo come illusione e indegna dell’uomo saggio, valorizzata invece nel giudaismo e nel cristianesimo, il professore emerito di “origini cristiane” alla Lateranense si sofferma dapprima su due tipologie secondarie secondo le quali l’uomo del passato ha immaginato la propria sopravvivenza oltre la vita mortale. Si tratta della propria continuità personale attraverso la discendenza dei propri figli che perpetuano tratti e caratteristiche dei genitori e della gloria dovuta alla fama (e corrispettivamente, del disprezzo subìto a causa della propria condotta infame).
Nella Bibbia e nella mitologia greco-romana – che Penna conosce molto bene, così come tutta la letteratura elaborata dalle due culture, della quale fornisce numerosi esempi – sono riferiti casi di rapimento al cielo: Enoch, Elia, lo stesso Gesù sotto un certo aspetto.
Un’altra elaborazione culturale della propria sopravvivenza ultraterrena è costituita dalla credenza nella reincarnazione, sostenuta da un’ampia frangia delle religioni indiane e da alcuni esponenti della filosofia greca antica.
Nel capitolo quinto, Penna affronta la questione dell’immortalità dell’anima, sostenuta con forza da Platone e dalla grecità nel suo insieme, ma anche dal giudaismo e dal Nuovo Testamento (che pure sono caratterizzati da una diversa antropologia).
Il NT non ne fa però una trattazione esplicita, perché più interessato alla credenza nella risurrezione dei morti. La risurrezione corporea – di cui Penna tratta nel capitolo sesto – è presente in vari miti del mondo orientale, egiziano, greco e romano. Nella sua consistenza reale essa è sconosciuta e irrisa dalla cultura greco-romana, mentre è sostenuta a chiare lettere dalle Scritture di Israele solo nei suoi ultimi libri (Dn 12; 1Mac 7), dalla letteratura intertestamentaria (o paratestamentaria che dir si voglia) e dal Nuovo Testamento: i farisei – seppur in prospettiva limitata ad una continuazione della vita terrena –, Gesù che la insegna rimproverando i sadducei e risuscitando di fatto alcune persone defunte, Paolo nelle sue lettere, in specie 1Cor 15 e 2Cor 5,1-10.
Nel giudaismo e nel cristianesimo si sostiene la dimensione collettiva della risurrezione dei morti e si accenna velatamente, qua e là – senza una trattazione organica – alla questione dello stato intermedio nel quale l’anima continuerebbe la sua esistenza separata dal corpo in attesa del giudizio finale con relativa risurrezione di tutti i morti. Sono accenni fugaci (cf. Fil 1,23-24), perché il giudaismo e il cristianesimo sono connotati da una visione olistica dell’essere umano, e non da quella dicotomica e dualista anima-corpo. «La mia anima non è il mio io», afferma con decisione san Tommaso, mentre nei primi secoli si accusavano i cristiani di essere «amanti del corpo». «Caro cardo salutis/la carne/la corporeità è il cardine della salvezza» afferma Tertulliano a cavallo tra il II e il III secolo, sostenendo che «la risurrezione dei morti è la fede dei cristiani: credendo in essa, noi siamo tali».
«In ogni caso – scrive Penna – il corpo, pur nei suoi cambiamenti di qualità, è visto come un costitutivo essenziale per l’anima, che in esso estrinseca la propria posizione nell’universo, permettendone l’identificazione, sicché l’individualità è conservata post mortem… Certo, il passaggio in una diversa condizione non significa passaggio in un diverso corpo, ma un adeguamento dello stesso corpo a una situazione diversa dell’anima» (p. 100).
Nel capitolo settimo si riflette su come la risurrezione di Gesù sia un evento decisivo per la fede cristiana, che ne trae le sue implicanze. Il credente, inserito in Cristo col battesimo, è teso dinamicamente in avanti per essere – totalmente, anche col proprio corpo trasformato – con Cristo, per sempre, assieme a tutti gli altri uomini («e così per sempre saremo con il Signore», 1Ts 4,17).
Decisivo per la fede cristiani è il fatto che, con Gesù e la sua risurrezione, la nuova terra e i nuovi cieli sono già stati inaugurati e, mentre c’è l’attesa e la proiezione fiduciosa e certa verso un sicuro domani, si vive pienamente immersi nel proprio tempo già segnato dalla presenza del Risorto. Il futuro si anticipa incoativamente nell’oggi storico ed è quindi necessario vivere il carpe diem oraziano ben inteso: vivere l’attimo presente come occasione di amore verso il prossimo, anticipando e affrettando in tal modo la venuta piena del Regno.
Una ricca bibliografia (pp. 161-174), l’indice dei nomi, delle citazioni bibliche e non bibliche (pp. 175-199) impreziosiscono il volume. Libro ricco e interessante per la tematica, per la copiosità di testi extrabiblici riportati e illustrati e per la chiarezza tipica che tutti riconoscono all’autore.
Romano Penna, Quale immortalità? Tipologie di sopravvivenza e origini cristiane, collana Studi sull’Antico e sul Nuovo Testamento, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2017, pp. 210, € 30,00.