La morte di Giovanni Franzoni (per infarto, il 13 luglio, a Canneto – Rieti) dovrebbe indurre la Chiesa italiana a riflettere su alcuni snodi ecclesiali che, intrecciati con la vita e le scelte di un tale personaggio, di fatto pongono all’intera “Ekklesìa” domande che non possono più essere eluse.
Da “padre” conciliare a… semplice monaco
Nato nel 1928 in Bulgaria – ove i genitori si trovavano per lavoro –, Mario crebbe poi a Firenze; dopo il liceo entrò, a Roma, al collegio ecclesiastico Capranica e quindi tra i benedettini (assumendo il nome religioso di Giovanni Battista), studiando al Pontificio Ateneo S. Anselmo.
Nel marzo 1964 fu eletto dai monaci abate di San Paolo fuori le Mura e, perciò, divenne membro della CEI e “padre” conciliare alle ultime due sessioni del Vaticano II.
Il desiderio di inverare la “partecipazione del popolo di Dio” lo spinse a invitare i parrocchiani (San Paolo, allora, era anche parrocchia) a incontrarsi con lui, nel monastero, il sabato sera, per riflettere insieme sulle letture bibliche dell’indomani. Fu in questo scambio che, sollecitato dalla gente – operai, insegnanti, mamme di famiglia, teologi, universitari, impiegati – la sua esegesi delle letture sacre arrivò a confrontarsi sempre più con l’oggi, spesso doloroso, di Roma, dell’Italia e del mondo.
Il 9 giugno 1973 pubblicò La terra è di Dio, una lettera pastorale che, tra l’altro, denunciava la speculazione edilizia nella capitale, alimentata anche da compromissioni vaticane. Fu perciò insistentemente invitato a dimettersi, cosa che fece nel luglio successivo.
Quando egli uscì dal monastero, fu seguito da un notevole gruppo di donne e uomini che da anni ogni sabato con lui riflettevano sulla Bibbia: nacque così la Comunità cristiana di base di San Paolo, che si collocò a poche centinaia di metri dalla basilica.
Il referendum sul divorzio. La riduzione allo stato laicale
In vista del referendum sulla legge del divorzio, previsto per il 12 e 13 maggio 1974, nel febbraio di quell’anno il Consiglio permanente della CEI invitò fortemente i cattolici a votare SÌ all’abrogazione di quella legge.
Nell’aprile successivo Franzoni contrastò apertamente l’indicazione dei vescovi, e sostenne che pure i cattolici avevano il pieno diritto di votare in coscienza, e dunque anche per il NO alla cancellazione della legge.
Alla fine di quel mese le autorità ecclesiastiche lo sospesero a divinis. E, nel 1976, dopo che annunciò che avrebbe votato PCI alle elezioni politiche, che si sarebbero tenute nel giugno di quell’anno, ai primi di agosto fu ridotto allo stato laicale.
Un cattolico marginale
Tornato semplice cristiano (tra l’altro, si sposerà con Yukiko, giapponese), Franzoni si impegnerà in molteplici battaglie: consigliere del PCI in un “municipio” di Roma; solidale con i palestinesi profughi in Libano; attento al mondo dell’handicap, soprattutto psichico.
Sul fronte più propriamente teologico, Giovanni porterà avanti una riflessione sui ministeri, mettendo in questione il concetto di “sacerdozio” (mediazione necessaria tra la persona e il Signore), a favore invece del potenziamento dei “ministeri”, i servizi necessari a una comunità ecclesiale, aperti a uomini e donne.
Interpellato dal tribunale ecclesiastico in vista della beatificazione di papa Wojtyla, Franzoni elencò le ragioni che, a suo parere, la sconsigliavano: nessuno ne tenne conto.
Grande, poi, fu l’impegno di Giovanni a favore di una legge sul fine-vita che, infine, desse al malato – o a chi da lui delegato – la parola decisiva per una fine degna.
Pur essendo, ormai, diventato cieco, egli – accompagnato da qualcuno della Comunità di San Paolo – ha percorso l’Italia (l’ultima volta, in Piemonte, un mese prima di morire) per portare avanti le sue idee. Sperava di poter incontrare papa Francesco; ma ciò non è stato possibile. Tuttavia, negli ultimi mesi aveva conosciuto il nuovo abate della basilica Ostiense, don Roberto Dotta: e tra i due era nata un’amicizia della quale Giovanni era molto riconoscente.
Del resto, l’abate, con due suoi confratelli, il 15 luglio è stato presente all’eucaristia celebrata per i funerali di Franzoni che si sono svolti in un Centro per anziani, a lato della basilica Ostiense; e ha rivolto alle moltissime persone presenti alcune accorate parole, ricordando il suo “predecessore”.
C’era anche don Enrico Feroci, direttore della Caritas di Roma. Altre presenze ufficiali della diocesi di Roma, e della Chiesa cattolica, non c’erano. Epperò la Santa Sede e la CEI non possono archiviare il “caso Franzoni” senza farci i conti. Lo richiede la giustizia.
Dalla sua autobiografia, intitolata Un cattolico marginale, emerge come era lui: coraggioso, coerente, mite verso quegli ecclesiastici che lo avevano punito, mai soddisfatto di risposte semplici a problemi complessi, e sempre aperto a nuove sfide.
Due giorni prima che morisse (ma noi non sapevamo che sorella morte era ormai in viaggio!), al termine di considerazioni varie sul mondo, oppresso da guerre, e sulle nostre limitatezze, mi disse: «Ah, Luigi: noi passiamo, ma l’amore di Dio resta».
Complimenti alla nostra cara Settimana, una voce sempre franca e libera, degna e rispettosa, in un panorama ecclesiale spesso desolante. Solo che non se ne può più di veder gente buttata fuori e poi ripescata qualche decennio dopo: Mazzolari e Milani in primis, giusto per dirne due…
E quando si comincerà a fare i conti sul serio con le istanze più serie del cosiddetto modernismo – che molti nell’anima professano senza rendersene nemmeno conto o senza avere il coraggio di tirarne le conseguenze – allora sì che se ne vedranno delle belle… Cioè tragiche.
Mi sorprende che ci sia chi si perde a discutere del nome di chi ha scritto questo bell’articolo in memoria di Giovanni Franzoni. Ancora una volta si guarda al dito invece che alla luna… Ho apprezzato molto questo profilo di Franzoni che ho trovato vero ed equilibrato, riconoscendo che non era facile parlarne senza cadere in giudizi unilaterali. Infatti, il giudizio su Giovanni Franzoni può variare secondo i punti di vista, ma la sua coerenza e la sua onestà intellettuale devono essergli riconosciute. Giudicare ora un uomo che ha vissuto negli anni ruggenti del settanta/ottanta dimenticando o trascurando il clima di quegli anni settanta/ottanta mi pare – per dir poco – molto problematico. Davide Gabrielli è riuscito a farlo con verità senza offendere nessuno. Bravo.
La storia si ripete. E la chiesa continua ha fare dei grossi danni. Mi sembra già di aver letto di un’altra persona che la chiesa mette fuori dalla porta. Solo perché aiutava gli operai e i poveri. La curiosità è stata tanta che mi sono messa a leggere chi era Borghi, un ex sacerdote detto anche prete operaio. Nel 1968 scese in campo per esprimere la sua solidarietà concreta a don Enzo Mazzi, che l’arcivescovo aveva allontanato dalla Comunità dell’Isolotto. In seguito Borghi abbandonò il sacerdozio. Negli anni successivi, non venne mai meno il suo impegno nella società civile, a difesa dei settori più emarginati. Si impegnò tra l’altro come volontario, a fianco dei carcerati, nel carcere fiorentino di Sollicciano. Negli ultimi 20 anni ha continuato a combattere per la questione CARCERE E CARCERATI e il loro maltrattamento.
e lui continua ha far del bene si occupa di carcerati. Non capisco perché un sacerdote non debba votare quello che ritiene più opportuno.
Sorprende che dinanzi ai tanti temi di rilievo sollevati dall’autore, l’unica riflessione significativa diventi il problema del nome e dello pseudonimo!
Cosa significa quel Luigi alla fine, se l’autore si firma David Gabrielli?
L’autore si firma con il suo pseudonimo abituale
Ci teneva quindi a rivelare il suo vero nome? Singolare!