Nel dibattito sulla parrocchia avvitato da don Gigi Maistrello (cf. SettimanaNews 26 giugno e 1 luglio), e proseguito da Antonio Torresin (5 luglio), Claudio Galimberti (6 luglio), Stella Morra (8 luglio), Fabrizio Carletti (13 luglio), si inserisce padre Emanuele Sgarra, parroco dehoniano nella parrocchia San Paolo Apostolo a Rende (Cosenza), comunità che si occupa della pastorale universitaria nell’Unical Università della Calabria.
I nostri non sono momenti facili. La nostra è un epoca di grandi e velocissime trasformazioni. E non siamo pronti. Del resto sarebbe da presuntuosi pensare di esserlo. E come se un contadino sapesse già, nel momento della semina, che cosa gli serve per proteggersi da siccità o grandine, come Noè dal diluvio. La vita si presenta sempre nuova. È un sfida continua. E bisogna entrare in questa sfida con umiltà e fiducia. Entriamo in ogni novità con i mezzi e le conoscenze che abbiamo. Non abbiamo la soluzione in tasca, e non possiamo neanche pensare ogni volta: “adesso è la fine”. È semplicemente la novità che ci visita. Le soluzioni arrivano e si affacciano lentamente. A volte la soluzione è nella testa, a volte è fuori dalla nostra portata, a volte è nel problema, a volte è il risultato di un lungo processo e travaglio, a volte si presenta come un regalo.
Ogni realtà porta con sé i suoi frutti e le sue malattie. La nostra è un’epoca dove giganteggia l’individualismo, dove lo si esaspera, dove lo si esalta, dove lo si abbraccia come la via più giusta, più sicura e più veloce. La parrocchia, anche se all’orecchio di molti può avere il suono di una realtà superata, è un luogo che può aiutarci a ritrovare quello che stiamo perdendo senza abbandonare ciò che di bello ancora ci appartiene.
Comunione, comunità, fraternità
In un tempo dove siamo molto poveri nelle relazioni, dove abbondano i sorrisi virtuali, si raccoglie dalla nostra fragilità una solitudine spaventosa. Nella mia esperienza di parroco colgo che la gente cerca un riparo da questa orribile peste della solitudine. Cerca un’oasi dove trovare ristoro. Cerca un luogo dove può estinguere la sua sete. Cerca amicizia. È felice appena trova un briciolo di comunione, di comunità, di fraternità… certo spesso non ha la pazienza di aspettare, di costruire, di passare ad un livello più profondo, ma è affamata di comunione. E quale luogo può essere più idoneo se non quello dove risuona la parola che dice “amatevi gli uni gli altri” e dove si può ascoltare la “Voce” che insegna tutti a farlo?
Diceva un grande parroco, don Primo Mazzolari, ultimamente onorato insieme a don Lorenzo Milani da papa Francesco: «L’amore colma i vuoti dell’uomo: dove c’è un vuoto più grande, occorre una sovrabbondanza d’amore, una predilezione, che non è affatto un privilegio, molto meno un’ingiustizia. Gesù, che pure ci ama a uno a uno senza misura, ha la predilezione dei poveri, dei bambini, dei malati, dei peccatori.
Quindi, dicendo che la parrocchia è a servizio dei poveri, non solo non si toglie niente a nessuno, ma si dà, o si riconosce, nella comunità parrocchiale, una funzione primaria a coloro che non si credono poveri.
Chiamo i ricchi così, perché la più grande disgrazia è quella di non crederci poveri, scomunicandoci dalla prima beatitudine».
La parrocchia ha delle grandi chance nel nostro tempo.
Può offrire gli strumenti per regalare agli uomini e alle donne contemporanee il sale della vita che non sta nel portafogli, nella bellezza, nella carriera, nella nostra falsa libertà, nell’efficienza, nel piacere, nella sicurezza, ma nell’amore. Nell’accogliere e nell’essere accolti. Nel riconoscere e nell’essere riconosciuti. Può essere (e lo dovrebbe essere sempre) una scuola di comunione. «Non è bene che l’uomo sia solo»! L’uomo nella single-tudine perde la sua grandezza e la sua nobiltà.
Prima la vita, poi le strutture
Certo, e qui andiamo subito nel cuore della questione, se uno pensa alle strutture, alle forme, all’organizzazione, ai programmi e ai piani pastorali, tante cose sono superate e vanno sicuramente riviste e ripensate ma qui si tratta di una vita che precede e deve sempre precedere ogni struttura e strategia. La vita delle persone viene prima e tutto il resto viene dopo. Non è l’uomo che è stato fatto per il sabato ma il sabato per l’uomo. Ecco perché questa povertà di relazioni, questo triste accumulo di solitudine, questa frantumazione, questo isolamento nel quale si trova l’uomo contemporaneo, è un punto di partenza necessario e utile per ripartire e ritrovare gusto nelle fatiche pastorali.
Del resto, è stato lo stile di Gesù di Nazaret che ha cominciato dalla gente, e soprattutto dai più poveri, non soltanto di beni ma di vita, quelli che tutti ormai giudicavano come falliti e persi (i peccatori). Non dimentichiamo che Gesù è stato continuamente accusato per quelli che avvicinava. Bisogna ripartire dalla vita. Dalla gente, non dai muri e tantomeno dai programmi o dai convegni. La capillarità delle parrocchie sul territorio ci mette già sotto il naso una grande via d’uscita dalla nostra sfiducia: la gente. Basta aprire le porte, basta uscire fuori, basta cominciare a parlare, basta cominciare ad ascoltare, basta buttarsi nella mischia e prima di farsi maestri farsi compagni di viaggio e fratelli nelle fatiche e nelle angosce, nelle gioie e nelle speranze.
Ancora la parrocchia oggi può offrire senso. Siamo velocissimi. Ma spesso non sappiamo verso dove andiamo e qual è la destinazione della nostra corsa. Arriviamo prima ma non sappiamo dove. Che fatica a guardare avanti!
Ci manca la prospettiva. Ci manca una visione d’insieme. Siamo, molto spesso, preoccupati di essere ben equipaggiati ma pensiamo poco alla destinazione. Pensiamo a fare bene lo zaino e non ci interessiamo della mèta. Abbiamo buonissime valige e tutte piene, ma non sappiamo dove andare. Imbocchiamo strade che non sappiamo dove portano. Ci stanchiamo girando attorno e senza muovere passi verso una direzione. Spariamo senza avere un bersaglio.
Ci affatichiamo senza avere un progetto. Abbiamo l’agenda piena in una vita vuota. Siamo obesi, ma non siamo sazi. Abbiamo una casa ma non abbiamo la famiglia. Ho l’impressione che, in queste corse impazzite, siamo tutti costretti a stordirci per coprire il malessere che abita l’anima. Giriamo a vuoto. Camminiamo tanto, per non arrivare da nessuna parte. Dobbiamo anestetizzare il dolore che viene da dentro. Dobbiamo coprirlo con una quantità di cose, droghe, fughe, alienazioni, ubriacature … perché altrimenti ci prende un’angoscia che ci devasta.
La parrocchia può offrire senso, può aiutare chi si avvicina, ad alzare la testa e a fissare la meta. Può rimettere in moto l’uomo moderno se non rinuncia ad essere luce. L’uomo che cerca il pane, ed è giusto che lo faccia, non ha mai raggiunto la pace quando l’ha trovato. Quando ha trovato pane in abbondanza, ha trovato di sicuro l’abbiocco ma non la pace. La vita di molti, oggi, sembra come la strada che deve percorrere il condannato a morte che è stato chiamato dalla sua cella perché il boia è pronto. Diventa un tragitto senza slancio, triste, in cui anche se si riesce a fare qualche passo in avanti, i piedi si rifiutano di camminare. È vero che i giovani non riescono a guardare al futuro! Ma ho la sensazione che non sono molti quelli che ci riescono neanche tra gli adulti. Non basta essere bene equipaggiati.
Dove nasce la vita
La parrocchia può offrire moltissimo all’uomo smarrito del nostro tempo. Senza presunzione e forzature (bellissima l’immagine del sale e del lievito: stare dentro senza apparire, portare gusto e aiutare a crescere rimanendo nascosti) la piccola comunità cristiana può offrire una carità che chi passa non chiede ma che urla e grida nel cuore di tutti. Forse stiamo vivendo un tempo in cui contano più i gemiti che le parole, in cui sono più eloquenti le lacrime che i discorsi. La parrocchia può offrire mete da vertigini. Può (e deve, se non vuole perdere sapore) indicare il Cielo. Può aiutare tutti ad alzare lo sguardo e a contemplare lontano. Può aiutare tutti a fissare la meta e a dare senso e slancio vero alla nostra corsa.
È bellissimo il campanile in una parrocchia. E forse non è neanche un caso che spesso diventa motivo di disturbo per molti. Perché la sua struttura che si innalza racconta e offre una destinazione ostinata e contraria rispetto a tutte le nostre corse. Punta altrove rispetto a tutti i nostri affanni.
E qui c’è lo spazio per le nostre piccole comunità cristiane per ritrovare se stesse, il loro valore e la loro validità, per ricordare la loro missione e la loro importanza. Farsi compagni di viaggio per poi illuminare, con garbo e pazienza, le trame della vita.
La parrocchia oggi, se non rinuncia alla sua missione unica, primaria, essenziale, necessaria… di far risuonare la Parola, non soltanto sopravviverà ma sarà un luogo dove nasce la vita. Come lo è sempre stato, con tutti i limiti di ogni tempo. E poi campioni, giganti, grandissime e nobilissime creature come T. Bello, Madre Teresa di Calcutta, Gianna Beretta Molla, Karol Wojtyla… dove sono nati? Da quale grembo sono stati generati? Se la parrocchia non rinuncia alla sua missione che coincide con la sua nobiltà, la sua grandezza e il suo fascino non sarà un luogo morto o un reperto storico ma sarà un grembo che genera.
Spesso confondiamo tutti l’istituzione con la realtà. La parrocchia è una piccola comunità cristiana. Potranno cadere tante realtà che sono state utili un tempo, potranno sparire le chiese, e tutto ciò che le circonda, gli archivi, i documenti, i teatri, i campi di calcetto, le feste di paese, le processioni, le devozioni, le candele da accendere, le sagrestie, le lotterie… ma questa non è la realtà. Era ed è un aiuto alla realtà. Ciò che conta è la comunità dei fratelli guidata da un presbitero, cioè da qualcuno che non si tiene per sé quanto ha ricevuto.
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