Pensai che sarebbe stato lui, Giovanni Bianchi, il mio successore a presidente delle Associazioni cristiane dei lavoratori italiani (ACLI). Lo pensai molto prima che si creassero le condizioni. Il fatto che determinò il mio orientamento accadde nel 1975, cioè prima che io stesso diventassi presidente. C’era dunque tempo perché l’idea potesse consolidarsi.
Il fatto fu un convegno che Giovanni, allora presidente delle ACLI della Lombardia, organizzò a Bergamo sul tema – questa era la sostanza – del che fare in Italia dopo gli scossoni che alla politica erano stati arrecati dalla “sconfitta cattolica” del referendum sul divorzio e dalle sue ripercussioni negative all’interno della Dc.
L’allora presidente nazionale, Marino Carboni, che era stato invitato, mi pregò di sostituirlo come spesso faceva quando si doveva operare in terra incognita. E, in effetti, l’occasione non si presentava, dati i tempi, con i caratteri della tranquillità.
Venti contrari
Innanzitutto la sede prescelta: il seminario di Bergamo. C’era il placet del vescovo, mons. Gaddi, ma c’erano pure i mugugni di una parte dell’establishment cattolico. Quindi la struttura del convegno, articolata su nomi di richiamo ma non tutti garantiti da un sigillo di affidabilità: Gianni Baget Bozzo, allora proiettato verso il compromesso storico, Raniero La Valle, reduce dalla battaglia per il “no” al referendum, Pietro Ingrao, il comunista meno allineato e più aperto al dialogo con i cattolici, il padre Bartolomeo Sorge, direttore della Civiltà Cattolica e, infine, mons. Clemente Riva, il teologo rosminiano che, insieme a don Luigi Di Liegro, aveva guidato nel 1974 il famoso convegno sui “mali di Roma”.
Il totale di queste circostanze aveva già prodotto, alla vigilia, alcune conseguenze poco simpatiche. Al vescovo era stato chiesto di revocare la concessione della sede, inopportuna per la presenza di figure a dir poco discusse. Mons. Riva era stato diffidato: che non si muovesse da Roma se non voleva incorrere in dolorose sanzioni. A Giovanni Bianchi fu chiesto se proprio riteneva indispensabile mantenere un impegno così controverso.
Per le ACLI, che erano ancora nel vivo della “bufera” di carattere “dottrinale e pastorale” (ipotesi socialista e uscita dall’unità dei cattolici in politica) e vivevano nella “sospensione” determinata, sul piano ecclesiale, dalla «deplorazione» di Paolo VI, la questione non era semplice.
Sorge e Ingrao
Come incaricato di rappresentare il vertice nazionale telefonai a Giovanni per chiedergli che intenzione avesse. Nessuna esitazione nella sua risposta: «Si va avanti». E il convegno si svolse con un’autenticità di ricerca e una densità di partecipazione che non mi era accaduto di riscontrare in altre occasioni. L’emiciclo dell’aula del seminario era pieno: i giovani sedevano anche sui gradini. L’attenzione era forte. Gli applausi ponderati e mirati.
Un episodio rivela l’autenticità del clima. Due degli intervenuti, padre Sorge e Pietro Ingrao, non si conoscevano di persona. Fu Ingrao a chiedermi di favorire un incontro. Si chiusero in una stanza e uscirono solo per l’ora di cena. Non ho mai saputo se padre Sorge avesse in programma di celebrare la messa vespertina quel sabato. In tal caso avrebbe saltato l’impegno.
Dei contenuti del convegno ho un ricordo più vago. L’evento in sé aveva occupato tutto lo spazio mediatico e politico. E le ACLI ne erano uscite come protagoniste di un dialogo che, nelle aspettative del tempo, era considerato decisivo per i destini della politica in Italia.
A me parve che l’iniziativa di Giovanni fosse in grado di dare respiro culturale e prospettiva pratica ad un movimento il cui equilibrio era paragonato a quello della bicicletta: sta in piedi solo se cammina e cammina solo se c’è qualcuno che pedala. Così memorizzai il suo nome e quando, di lì a poco, toccò a me diventare presidente, lo pregai di venire a Roma come vice a darmi una mano.
Il mio “vice”
Giovanni assolse con lealtà e impegno le funzioni vicarie. Le sue conoscenze lombarde concorsero a far uscire le ACLI da una disastrosa situazione finanziaria che rischiava di comprometterne anche la titolarità del patrimonio. E poi dette sempre il suo contributo all’elaborazione culturale del movimento attraverso la preparazione dei convegni di studio che affrontarono argomenti impegnativi come la crisi dello sviluppo e l’avvento della società dell’informazione.
Non ho mai saputo – perché lui non me lo ha mai detto – che opinione avesse Giovanni sul mio modo di presiedere. Non poteva non accorgersi che, di pari passo con il crescere delle difficoltà e delle incertezze, il mio atteggiamento si faceva spesso più rigido verso i colleghi. E questi esercitavano con abbondanza lo ius murmurandi, che è il riflesso naturale delle condizioni di insofferenza.
Con Giovanni c’era un rapporto speciale in cui ciascuno si preoccupava di assicurare la serenità dell’altro. La locuzione “stai sereno” non era ancora diventata sinonimo di un imminente rovesciamento. E lui agevolava questo sistema di relazioni con quel suo modo singolarissimo di ascoltare con attenzione dando, nel contempo, l’impressione di essere assorto in altri più impegnativi pensieri. Era un tratto della sua personalità e del suo modo di esprimersi, anche nel silenzio.
La “rigenerazione”
Naturalmente poi, quando venne il momento, Giovanni non si tirò indietro. Già nel congresso del 1985, il mio ultimo, lanciò una parola d’ordine – la «rigenerazione delle ACLI» – che a me francamente non piacque. Preferivo lavorare sulla linea dello «sviluppo nella continuità» che mi permetteva di salvaguardare, nel confronto con la politica e con l’istituzione ecclesiastica, l’intero patrimonio storico delle ACLI, anche quello dei gruppi dirigenti dell’epoca preconciliare. Ma mi sembrò naturale che chi si candidava alla successione dovesse avere la possibilità di caratterizzarsi e anche di differenziarsi rispetto ai predecessori.
Al momento della mia uscita di scena, nel 1987, Giovanni era pronto a sostenere il confronto con l’altro candidato possibile, Aldo De Matteo, che pure aveva titoli basati sulle diverse caratteristiche di una provenienza interamente endogena. La prevalenza nella consultazione interna fu sancita nel Consiglio nazionale e si realizzò l’antica consuetudine per cui il presidente eletto chiama il suo competitore a fare il vice.
Nella contesa tra i due mi ero mantenuto neutrale, anche se molti sapevano della mia preferenza “culturale” per Giovanni. E, dopo la sua elezione, non ho mai ritenuto di dover interferire con le scelte autonome del movimento.
Tra gerarchia e politica
Nel corso del mio mandato parlamentare ho cercato, per quanto possibile, di dare voce e iniziativa ad alcune delle posizioni che le ACLI andavano assumendo o confermando: così il sostegno al cartello “educare non punire” sull’uso delle droghe nella discussione della legge Iervolino-Vassalli e il dissenso (fino al voto contrario) sulla partecipazione italiana alla prima guerra del golfo.
La circostanza di un ricordo in articulo mortis non è la più opportuna per sottolineare alcune differenze o discontinuità che pure andranno approfondite in sede storica. D’altra parte, è doveroso indicare i tratti salienti della linea di Giovanni in ordine ai due grandi temi della sfida esistenziale delle ACLI.
Come si ricava dai documenti congressuali del 1991, venne morbidamente perseguita una soluzione “istituzionale” del rapporto ecclesiale. Si mirava ad un ripristino in toto della figura dell’assistente? Dalle carte si ricavano solo le premesse di una tale ipotesi. E, tra queste, una ripresa in considerazione dell’unità dei cattolici in politica sia pure nelle forme e modalità “nuove” illustrate dal presidente della CEI, il card. Ruini, e che poi si sarebbero materializzate nei «valori non negoziabili».
Il quadro mutato
Certamente, il congresso del 1991 dovette tener conto del mutamento della situazione.
Sul piano ecclesiale, la distanza crescente dal clima del concilio e l’impronta della linea della «presenza» imposta da Giovanni Paolo II nel convegno ecclesiale di Loreto (1985).
Sul piano politico, la crisi della Democrazia cristiana la quale, una volta ripudiata la linea della solidarietà nazionale, si era trovata costretta nelle gabbie di un pentapartito rissoso e sterile e in preda ad una contesa con il Psi craxiano sulle questioni del potere più che su quelle dello sviluppo.
Del resto, l’intero gruppo dirigente delle ACLI, compresi gli esponenti più attestati sulle scelte degli anni 70, assecondò Giovanni nella sua azione di recupero dei rapporti che però non poteva realizzarsi pienamente nel mutato quadro generale. La concentrazione dell’attenzione sulle questioni relazionali non poteva non avere, tuttavia, un riflesso di sottrazione di energie alla ricerca di risposte nuove alle grandi questioni della pace, del lavoro e della democrazia sulle quali si era operato in precedenza un pur problematico tentativo di qualificazione.
È fisiologico, con questi presupposti, trovare le ACLI in prima linea nei moti referendari promossi da Mario Segni e poi, sempre più intensamente, nelle vicende del Partito Popolare di Martinazzoli (di cui Giovanni era grande amico ed estimatore). Il transito in politica avvenne per questa via e Bianchi fu, in Lombardia, uno dei pochi deputati dc eletti con la quota proporzionale del mattarellum, dopo la generale falcidia dei candidati dei collegi uninominali.
Al vertice del Ppi
Giovanni si trovò così ad essere coinvolto in prima persona nelle vicende di vertice del Ppi. Dopo le dimissioni di Martinazzoli e la reggenza della Iervolino, fu candidato alla segreteria in contrasto con Buttiglione ma, alla vigilia del congresso, rinunciò in favore di un’ipotesi Mancino, che però fu sconfitta.
E quando il Buttiglione trionfante credette di poter trasferire la forza residua del Ppi nelle file dell’esercito di Berlusconi, a Giovanni toccò di dover assumere la presidenza del Ppi avendo come segretario il veterano Gerardo Bianco. Avventure e convulsioni di cui non è il caso di parlare qui. Se non per ripetere che, anche in queste vicende, come in tutta la sua esperienza parlamentare, il comportamento di Giovanni lascia un’impronta profonda di dignità e di onore.
La parola e il pensiero
Un ultimo flash. Nel 1991 nella grande assemblea democristiana di Assago (per me memorabile anche per una relazione di Sergio Mattarella sull’insopportabilità della corruzione nel sistema politico), Giovanni prese la parola come presidente delle ACLI.
Della parola Giovanni era maestro: ne conosceva e adoperava i segreti sia come oratore sempre lucido e coinvolgente sia come poeta, un’arte che coltivava con assiduità e che forse è la cifra inesplorata del suo carattere. Così come da indagare è l’autentica magìa delle sue citazioni sempre appropriate nei diversi contesti in una gamma vastissima di autori e di discipline, alle quali faceva ricorso non solo per illustrare il suo pensiero ma per potenziarne l’impatto e la portata. E sempre, però, al di sotto della parola avvertivi il clima di una spiritualità profonda, nutrita di umori ambrosiani, che si trasmetteva in qualche modo, forse per contagio, e dava senso compiuto ad ogni riflessione.
I delegati dell’assemblea ascoltavano con attenzione; e poi, alla fine, due di loro, che sedevano davanti a me, si alzarono e vollero stringermi la mano. «Perché?», domandai. «Perché hai saputo sceglier bene in tuo successore», mi risposero. E così, pro-quota, mi toccò anche l’applauso destinato a Giovanni che è stato mio successore su questa terra e che ora mi precede nella terra dei viventi.