Da tempo c’è in Europa una crisi profonda che avvolge e trasforma geneticamente la produzione di cultura e la ricerca nell’ambito delle scienze umane, dalla filologia alla letteratura, dalla filosofia alla teologia. La crisi è diventata oramai una condizione di fatto, così che viene recepita come inevitabile e scontata dagli addetti ai lavori all’interno delle stesse istituzioni accademiche del sapere umanistico.
La forte economizzazione dei processi formativi, scuola e università, che piegano ampiezza e qualità del sapere culturale alla finalizzazione lavorativa e remunerativa; la competizione, tra istituti e persino tra gli stessi studenti, come logica mercantile che governa sulla qualità e forma della comunità accademica umanistica; il pragmatismo utilitaristico che decide l’accreditamento dei vari percorsi di studio – ecco alcune delle ragioni maggiori della crisi profonda che attanaglia il comparto culturale europeo.
E con esso la possibilità di produrre un buon pensiero e di essere all’altezza di quella che ci ostiniamo ancora a chiamare libertà accademica.
Il simulacro della libertà accademica
Di questa libertà non ne rimane ormai che una sbiadita parvenza. Le generazioni più giovani di ricercatori non si impegnano più su temi cruciali, su questioni nevralgiche oggi albeggianti ma domani decisive; piuttosto sono condizionati a fare ricerca in ambiti spendibili sul mercato, attraenti perché appetibili non tanto al dibattito pubblico, che non esiste più, ma alla ricezione e spendibilità mediatica.
Non vivono di una passione che cattura la vita e la mente, ma di un imperativo mercantile che soggioga la coscienza e il sapere.
La privatizzazione delle fonti di finanziamento per la ricerca all’interno dell’accademia ha dato, poi, il colpo di grazia a quello che rimaneva della sua libertà. Soprattutto nell’ambito delle discipline scientifiche e tecnologiche, prostrate ai piedi degli interessi economici delle grandi corporation di settore che influenzano, dirigono e dominano la ricerca accademica stessa. Tutti servitori di quel signore ambiguo e camaleontico che chiamiamo denaro.
Non meglio stanno le discipline umanistiche che, in una battaglia tra poveri all’ultimo sangue, si contendono le briciole di finanziamenti che rimangono a loro disposizione. Senza esclusione di colpi. Alla fin fine il mondo accademico del sapere umanistico è un piccolo mondo, ci si conosce tutti anche al di là dei confini nazionali, e ci si riconosce subito dall’approccio ai temi, dagli ambiti privilegiati di ricerca, dallo stile di pensiero.
Un sistema di doping
Non c’è anonimato di una peer-review che possa tenere e garantire una valutazione onesta in merito. Non diversa la situazione quando si tratta di valutare un progetto di ricerca allorché si viene interpellati da una fondazione che lo dovrebbe finanziare. Se blocco il progetto di un altro sdogano un finanziamento che potrebbe finire dalle mie parti.
Poi, quando ci si incontra, si parla tutti insieme dei massimi sistemi come se nulla fosse, ma la quotidianità vive di questa qualità meschina delle relazioni.
Il problema sarebbe già serio di per sé, ma si amplifica ed esplode nella sua forza dispotica di plasmare la forma mentis e lo stile accademico delle generazioni più giovani: ossessione di visibilità, riduzione della complessità a termini alla moda, coltivazione della quantità prodotta da una ricerca anziché cura sulla sua qualità.
Nell’accademia, il sapere umanistico ha messo in piedi un sistema di doping culturale davanti al quale Lance Amstrong non sarebbe che un pivello alle prime armi. Solo che qui giudici e competitori coincidono tra di loro.
Cultura ed editoria
La contrazione del mercato librario, unita alla trasformazione del lettore indotta dalla digitalizzazione, rappresenta un versante ulteriore della generale crisi europea della cultura. Le case editrici hanno oramai rinunciato a essere un volano per la circolazione di un sapere umanistico degno di questo nome, anche se nessuna lo dice; e si sono necessariamente consegnate alle logiche del mercato, sulle quali basano le loro scelte.
Imprese tra le altre, che fanno del nome cultura un semplice belletto apposto a una disperata lotta per la sopravvivenza. Di certo non fanno più cultura. Come, in maniera altrettanto certa, non sono più istanze regolative della qualità culturale delle pubblicazioni: un congruo finanziamento, e una minima decenza del manoscritto, aprono le porte a qualsiasi pubblicazione.
Immaginatevi se oggi sul tavolo di redazione di una casa editrice arrivasse il manoscritto della Critica della ragion pura di Kant. È molto probabile che il buon Immanuel non riuscirebbe neanche a passare lo scoglio di una prima lettura da parte di uno dei membri della redazione.
Destino non diverso tocca al settore delle traduzioni, che implicano costi ulteriori e per questo sono tenute sotto strettissima sorveglianza. I criteri sono la notorietà dell’autore (che nulla ha a che fare con la qualità dello scritto) e vendibilità del libro (che nulla ha a che fare con la circolazione di un buon pensiero).
Non voglio con ciò stigmatizzare le case editrici, fanno il loro lavoro data la situazione attuale, vivono per sopravvivere in un ambiente ostile (e danno da mangiare a molte famiglie). L’unica cosa che voglio dire è che, proprio per queste ragioni, non fanno più cultura, non sono più luoghi di produzione culturale come lo sono state per lungo tempo in condizioni diverse.
Il problema è che non ci siamo ancora inventati un’istanza che, date le condizioni odierne, abbia raccolto il loro testimone e occupato lo spazio strategico che esse occupavano. Questo vuoto dilapida il profilo umanistico della cultura europea e non fa bene neanche alle case editrici in quello che esse sono diventate oggi.
Reinvenzione del sapere umanistico
La cultura umanistica europea è chiamata oggi a reinventarsi in maniera radicale. E questo dovrebbe stare a cuore a tutti quanti, se vogliamo formare generazioni capaci di uno sguardo che non si esaurisca nell’istantaneità di un presente reiterato fino a stremarlo. E lo deve fare senza poter contare più sulle due istituzioni su cui ha fatto perno per secoli: l’università e il mondo dei libri. Ma non ha altri luoghi da cui partire se non questi che le sono stati sottratti.
Una situazione di scacco che può generare lo slancio di un’inedita fantasia. Ricordando che l’umanesimo europeo nacque in alternativa all’accademia dei saperi e non scriveva per sé ma per le generazioni a venire. Accettando l’oblio del momento, non senza sofferenza e tormenti personali, per disegnare i contorni di un futuro possibile. Il suo luogo è quello di un essere-a-parte, per questo può e deve sottrarsi alle logiche del politicamente corretto che oggi impediscono un serio dibattito sul destino della cultura in Europa.
La pervasività dell’economizzazione del sapere e della cultura, a partire dall’istituzione universitaria che ne è stato per secoli il grembo naturale, ci sta rendendo tutti più poveri e indifesi davanti alle potenze egemoniche che vogliono decidere del destino dell’umano. Un luogo di resistenza creatrice è qualcosa di cui l’Europa ha bisogno per essere all’altezza dell’eredità che l’ha generata.