La questione curda / 3

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Prima e seconda parte dell’approfondimento di Francesco Strazzari sulla questione curda.

PKK

Il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) è considerato un’organizzazione terroristica negli Stati Uniti e in Europa. Ankara si sente autorizzata e legittimata a ricorrere all’escalation militare per contrastarne l’attività.

I dati sono eloquenti riguardo agli attentati del PKK in Turchia dal 2016 al 2017: due attentati a Istanbul con 57 morti; un attentato a Kayseri con 14 morti; due attentati ad Ankara con 42 morti e quattro attentati a Diyarbakir con 59 morti e uno ad Hakkâri con 18 morti.

È pensabile che Ankara intensifichi le operazioni militari per opporsi all’irredentismo curdo, il quale si trova di fronte alla scelta: lotta armata o abbracciare il progetto del Partito democratico del popolo (HDP), formazione progressista filocurda di Selahattin Demirtaş che, nelle elezioni politiche del 2015, ottenne il 13,1% dei suffragi e 80 seggi, smorzando le ambizioni di Erdoğan.

Il pugno duro di Erdoğan

I capi del PKK non condividono certo la strategia di Demirtaş, che ritiene non percorribile la via tracciata da Öcalan basata sulla lotta armata e sulla violenza, anche se in quest’ultimo periodo il fondatore del PKK dal carcere di massima sicurezza di Imrali sul Mar di Marmara si è mostrato più moderato. Ma gli attentati del 2015-2016 evidenziano che vi è stato un aumento della violenza nei confronti del governo turco.

Il tentativo di colpo di stato del luglio 2016 ha spinto Erdoğan a sferrare un potente attacco ai membri del partito di Demirtaş (HDP). Nel luglio 2017 il leader viene arrestato con l’accusa di terrorismo insieme con l’altro leader Figen Yüksekdağ. Erdoğan ha provocato un autentico terremoto: parlamentari privati dell’immunità, quasi tutti del partito di Demirtaş; più di 8,000 arresti di membri del partito o simpatizzanti; 11 parlamentari del partito filocurdo agli arresti; sostituzione degli amministratori locali delle città curde con amministratori di fiducia del partito di Erdoğan (Partito giustizia e sviluppo, islamico moderato: AKP).

Il prezzo del conflitto

Il conflitto dal 2015 ad oggi – secondo i dati riportati da Stefano M. Torelli, analista politico, su Limes (luglio 2017) – ha provocato la morte di circa 3.000 persone nella sola Turchia. Di queste, 1,350 circa sono esponenti del PKK, quasi un migliaio sono soldati e membri delle forze di sicurezza turche e il resto, circa 600 persone, sono civili, vittime dei Falchi della libertà del Kurdistan, un gruppo di dissidenti del PKK. Non v’è più – secondo l’analista – un’azione di contenimento del PKK, ma di sradicamento dalla società. Tanto da far dire agli osservatori che il futuro dei curdi in Turchia, il 18,9% circa della popolazione di quasi 79 milioni di abitanti, è piuttosto fosco.

Öcalan e i capi del PKK continuano ad avere un forte ascendente e registrano consensi perché la via della mediazione e del dialogo intrapresa dal partito di Demirtaş non ha avuto successo e il governo turco di Erdoğan trae profitto da uno stato di guerra continua. Per sconfiggere lo stato-nazione – per dirla con Öcalan – non c’è che la lotta armata. L’esperimento curdo del Rojava (Siria) è guardato con attenzione dai curdi di Turchia, ma Erdoğan non è certo disposto ad assecondare un progetto simile di una regione de facto autonoma in Turchia.

Vincerà la moderazione o la violenza?

Conclude Torelli: «Al momento, sembra che il PKK sia determinato a mantenere una postura di contrasto con la Turchia, anche a costo di compromettere i risultati raggiunti con molta fatica nel Kurdistan siriano. La situazione potrebbe però cambiare, anche in funzione delle mosse di Ankara. Libero dal peso del giudizio elettorale, dopo aver vinto sia le elezioni del 2015 che il referendum costituzionale del 2017, Erdoğan potrebbe, in uno slancio di opportunismo, tornare a una posizione più conciliatoria nei confronti dei curdi. Tuttavia, finché il presidente turco non sdoganerà nuovamente la parte più rappresentativa della società curda, vale a dire la struttura politica dell’HDP, sarà difficile iniziare qualsiasi trattativa. E il PKK persisterà nella strategia della violenza».

Gli scritti di Öcalan parlano chiaro: «Le strutture centraliste del potere dello stato-nazione turco e la rigida ideologia ufficiale hanno impedito che si trovasse una soluzione alla questione curda fino ad oggi (…). Il progetto basato sull’idea di comunità per un confederalismo democratico turco rafforzerebbe l’unità interna e creerebbe le condizioni per una coesistenza pacifica con i vicini che vivono lì. I confini perdono il loro antico significato quando si tratta di unità sociale (…). Un confederalismo democratico delle comunità nazionali turche potrebbe essere un contributo alla pace mondiale e al sistema di democrazia moderna» (Abdullah Öcalan: Confederalismo democratico (2011).

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