Circolava alla fine degli anni ’60 un ritratto di Cristo wanted–ricercato: capelli lunghi, barba incolta, amico degli emarginati, annunciatore di un messaggio rivoluzionario, malvisto dai poteri costituiti. Era il Gesù dei contestatori. Faceva la sua comparsa accanto a quello misticheggiante di chi si sentiva attratto dalla religione delle devozioni e dell’intimismo spirituale.
Ha avuto la sua epoca anche il Gesù trionfatore, fra labari e stendardi: era il “conquistatore di regni” e il protettore dei sovrani di questo mondo.
Il Gesù della religione è il più inossidabile: garantisce la giustizia, premia i buoni, protegge i pii e punisce i malvagi. A volte qualcuno lo fa scadere al ruolo di castigamatti o di spauracchio per i bambini che fanno i capricci. È comunque l’utile garante di comportamenti morali ritenuti positivi.
Gesù è un personaggio che tutti sembrano voler strattonare per averlo dalla propria parte.
C’è anche il Gesù che ci portiamo dentro di noi dagli anni della nostra infanzia, presentatoci da catechisti a volte più volenterosi che preparati, un Gesù che forse non ci ha mai convinti fino in fondo e che, ad un certo punto della nostra vita, non ha più avuto molto da dirci.
Dopo duemila anni, egli non cessa di provocare e di interpellare ogni uomo e, come ha fatto un giorno nei pressi di Cesarea di Filippo, ci incalza con una domanda imbarazzante: “Chi dite che io sia?”
Di fronte a tante immagini che circolano di lui, è difficile scegliere quella autentica.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Non veneriamo un personaggio del passato né la sua dottrina, crediamo in Cristo, Figlio del Dio vivente”.
Prima Lettura (Is 22,19-23)
Così dice il Signore contro Sebna sovrintendente del palazzo:
19 “Ti toglierò la carica,
ti rovescerò dal tuo posto.
20 In quel giorno chiamerò il mio servo
Eliakìm, figlio di Chelkia;
21 lo rivestirò con la tua tunica,
lo cingerò della tua sciarpa
e metterò il tuo potere nelle sue mani.
Sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme
e per il casato di Giuda.
22 Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide;
se egli apre, nessuno chiuderà;
se egli chiude, nessuno potrà aprire.
23 Lo conficcherò come un paletto in luogo solido
e sarà un trono di gloria per la casa di suo padre”.
Il fatto cui fa riferimento questa profezia è ben noto. Il re Ezechia (VIII sec. a.C.) – un uomo buono, ma anche piuttosto ingenuo – si era scelto come maggiordomo Sebna, un opportunista, un corrotto che si serviva del denaro pubblico per costruirsi il proprio splendido mausoleo, un mestatore intrigante che, contro il parere di Isaia, propugnava l’alleanza con l’Egitto. Fu destituito e il suo posto fu preso da Eliakìm figlio di Chelkia. Isaia approvò questa saggia decisione: Eliakìm era onesto, capace, politicamente affidabile. Il profeta parla di lui in termini entusiastici: “Egli sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per tutto il popolo di Giuda” (v. 21).
L’episodio ci interessa perché dà informazioni sul modo con cui veniva conferito il potere a un nuovo maggiordomo: il re strappava il mantello e la cintura a colui che si era mostrato inetto e li consegnava al nuovo incaricato. Questi veniva rivestito della tunica del suo predecessore, era avvolto con la sua sciarpa e decorato con le sue insegne; infine gli venivano consegnate le chiavi del palazzo (vv. 20-22).
Ricevere le chiavi equivaleva a ottenere tutti i poteri nella reggia, amministrare i beni del sovrano e decidere chi poteva essere ricevuto in udienza.
Il brano si chiude con altre due immagini che preannunciano la condizione in cui verrà collocato Eliakìm: egli sarà come un piolo solidamente conficcato in una parete e come un trono di cui potranno gloriarsi tutti i suoi familiari (v. 23).
Sembra che il profeta preveda per lui una sfolgorante carriera e il raggiungimento di una posizione prestigiosa, invece sta annunciando il suo tramonto politico. Nei versetti seguenti (vv. 24-25 – non riportati dalla lettura) Isaia descrive, con sottile ironia, la fine ingloriosa di Eliakìm. A lui – dice – “si attaccherà ogni peso della casa di suo padre: discendenti e nipoti, ogni vaso anche piccolo, dalle tazze alle anfore… cederà il paletto conficcato in luogo solido, si spezzerà, cadrà e andrà in frantumi tutto ciò che vi era appeso”. È una presentazione satirica delle conseguenze del nepotismo cui anche Eliakìm, purtroppo, finirà per cedere. Approfitterà della sua posizione per favorire parenti, amici e rampolli che si aggrapperanno a lui fino a divenire un peso insostenibile: “il piolo” cederà e tutti coloro che vi saranno legati cadranno e si frantumeranno. Povero Eliakìm, uomo buono rovinato dal potere!
Seconda Lettura (Rm 11,33-36)
33 O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! 34 Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? 35 O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio?
36 Poiché da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Amen.
Il brano conclude la lunga esposizione del problema che ha tanto angustiato Paolo: il suo popolo si è rifiutato di riconoscere in Gesù il messia di Dio. Abbiamo visto che l’infedeltà di Israele ha avuto un risvolto positivo: ha permesso ai pagani di entrare a far parte della Chiesa. Sono state le persecuzioni da parte dei giudei a costringere i discepoli a lasciare Gerusalemme, a disperdersi per il mondo e ad annunciare il vangelo ai pagani (At 11,19-21).
Di fronte a questa “abilità” di Dio nel guidare gli avvenimenti della storia e nel trarre il bene anche dal male, Paolo esclama “Quanto è grande la sapienza e la scienza di Dio e come sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!” (v. 33).
I disegni del Signore sono davvero incomprensibili e imprevedibili, non solo nella storia dei popoli, ma anche nella vita di ognuno.
L’enigma del male ha sempre afflitto l’umanità e nessuna mente, per quanto illuminata, è mai riuscita a darne una spiegazione convincente. Nemmeno nel libro di Giobbe in cui il problema è direttamente affrontato viene data una risposta.
Paolo invita a inchinarsi di fronte al mistero e a riconoscere umilmente che le vie del Signore sono “imperscrutabili”. C’è però una certezza che è data dalla fede: tutto ciò che accade è guidato dall’amore del Padre e ogni avvenimento, anche il più drammatico, ha comunque un senso.
Vangelo (Mt 16,13-20)
13 Essendo giunto Gesù nella regione di Cesarèa di Filippo, chiese ai suoi discepoli: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. 14 Risposero: “Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. 15 Disse loro: “Voi chi dite che io sia?”. 16 Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”.
17 E Gesù: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. 18 E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. 19 A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
20 Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.
Sappiamo distinguere molto bene l’amico dal collega di lavoro, dai compagni di gioco, di bar, di tifoseria sportiva. Sono diversi i sentimenti che proviamo per una ragazza appena conosciuta, per la fidanzata, per la sposa. Quando si viene coinvolti nell’amore scatta il meccanismo della gelosia, compare il tormento di chi teme di perdere la persona amata, di chi non tollera rivali. È una passione non facile da controllare: “La collera è crudele, l’ira è impetuosa; ma chi può resistere alla gelosia?” (Pr 27,4); essa accorcia i giorni, anticipa la vecchiaia (Sir 30,24).
Anche Dio è “geloso” perché nessuno più di lui è innamorato dell’uomo. Per decine di volte nell’AT risuonano le espressioni: “Io, il Signore, sono un Dio geloso” (Es 20,5). “Sono acceso di grande gelosia per Sion” (Zc 8,2). “Dal fuoco della mia gelosia sarà consumata tutta la terra” (Sof 3,8). Dio esige l’amore esclusivo che coinvolge tutto il cuore, tutta l’anima, tutte le forze (Dt 6,6); nel cuore dell’uomo non ci può essere posto che per lui.
Questo amore senza riserve è preteso anche da Cristo: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). Nulla deve essergli anteposto, nemmeno gli affetti più naturali – è questo il senso dell’immagine paradossale da lui usata.
Un giorno, nei pressi della città che Filippo – uno dei figli di Erode il grande – ha fondato nell’estremo nord del paese, Gesù rivolge agli apostoli due domande. Abbastanza semplice la prima: “Chi sono io per la gente?”; più impegnativa la seconda: “Chi sono io per voi?”.
Le opinioni che circolano lo accostano a personaggi eminenti: a Giovanni Battista, a Elia, a Geremia, agli antichi profeti (vv. 13-14).
È innegabile l’ammirazione degli uomini di tutti i tempi per Gesù, eppure la stima e la venerazione non bastano. Egli non è la personificazione, la concretizzazione di valori eccellenti, perseguiti in genere da tutte le persone di buona volontà; non è uno dei tanti che si sono distinti per la loro onestà e lealtà, per l’amore ai poveri, per l’impegno in favore della giustizia, della pace, della non violenza.
Già come uomo – è vero – Gesù li distanzia tutti perché non segue le tattiche e le strategie umane. Basti considerare le scelte di avere aspettato la maturità per iniziare la sua missione, di aver dato la precedenza alla vita nascosta, di non rivelare se non agli intimi e gradualmente il suo progetto, di aver capovolto tutte, ma proprio tutte le logiche umane fino a “consegnare” la sua vita, fino a fare della sconfitta il suo trionfo. Ma neanche questo è sufficiente per essere da lui ritenuti “discepoli”. Discepolo è chi ha capito che egli è unico, come unica è la persona di cui ci si innamora, di cui ci si fida ciecamente e per la quale si è disposti a tutto.
È a questo punto che interviene la risposta sorprendente di Pietro che, a nome anche degli altri, mostra di aver capito tutto. Gli dice: “Tu sei il Cristo”, tu sei il messia, il salvatore di cui hanno parlato i profeti e che tutto il nostro popolo attende (v. 16). Sei colui per il quale siamo disposti a giocarci la vita.
Difficile trovare un risposta più esatta, eppure – nell’ultimo versetto del brano (v. 20) – l’evangelista ricorda che Gesù impone ai discepoli il silenzio, severamente, come ha già fatto con i demoni. La ragione è semplice: Pietro ha dato una risposta esatta solo nella forma, in realtà ha in mente un’idea completamente distorta, è convinto che Gesù stia per dare inizio al regno di Dio sulla terra e pensa che questo si attuerà mediante una ostentazione di forza, prodigi e segni che lo imporranno all’attenzione di tutti. È certo che otterrà un successo strepitoso e questa è anche l’opinione degli altri discepoli che, pur avendo capito qualcosa di più rispetto alle folle, sono ancora prigionieri della mentalità comune che valuta la riuscita di una vita in base ai trionfi ottenuti. Nessuno si è ancora reso conto che, fin dall’inizio, il Maestro ha considerato diabolica la proposta di prendere il potere e di dominare sui regni di questo mondo.
Nella seconda parte del brano (vv. 17-20) viene riferita la risposta di Gesù a Simone: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa…”.
L’interpretazione di queste parole è più difficile di quanto sembri. Per quale ragione e in che senso Simone è chiamato “pietra” su cui viene edificata la chiesa? Una semplice affermazione del primato del papa? No, molto di più.
Cominciamo a fare due osservazione che ci possono aiutare a capire meglio questo importante testo.
Anzitutto notiamo che della “roccia” posta a fondamento della chiesa si parla altre volte nel NT e questa “roccia”, solida, inamovibile, è sempre e solo Cristo. “Nessuno – dichiara Paolo – può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (1 Cor 3,11). Ai cristiani delle comunità dell’Asia Minore ricorda così la loro gloriosa condizione: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore” (Ef 2,19-21). Più esplicito ancora è Pietro che, nella sua prima lettera, invita i neo-battezzati a non staccarsi mai da Cristo, perché è lui la “pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio”; poi sviluppa l’immagine e, rivolto ai cristiani, dice: “Anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale”, uniti come siete alla “pietra angolare, scelta, preziosa” collocata da Dio, nel giorno di Pasqua, come base di tutta la costruzione (1 Pt 2,4-6).
La seconda osservazione è che il nome dato a Simone – Cefa-Pietro – in aramaico (la lingua parlata da Gesù) con tutta probabilità non significa roccia, ma semplicemente pietra da costruzione.
Se le cose stanno in questi termini, la pietra di cui parla Gesù è la fede professata da Pietro. È questa fede che costituisce il fondamento della chiesa, che la mantiene unita a Cristo-roccia, che la rende incrollabile e le permette di non essere mai sopraffatta dalle forze del male. Tutti coloro che, come Pietro e con Pietro, professano questa fede, vengono inseriti, come pietre vive, nell’edificio spirituale progettato da Dio.
L’espressione le porte dell’inferno non va materializzata. Queste porte rappresentano il potere del male, indicano tutto ciò che si oppone alla vita e al bene dell’uomo. Nulla mai – assicura Gesù – potrà impedire alla chiesa di portare a compimento la sua opera di salvezza, a condizione che rimanga sempre strettamente unita a lui, il figlio del Dio vivente.
Pietro riceve anche le chiavi e il potere di legare e di sciogliere. Prima di chiarire il significato di queste due immagini, usate frequentemente dai rabbini, notiamo che il potere di legare e di sciogliere non è riservato a Pietro, ma è conferito, subito dopo, a tutta la comunità (Mt 18,18; cf. Gv 20,23).
Consegnare le chiavi – lo abbiamo rilevato nel commento alla prima lettura – equivale ad affidare l’incarico di gestire la vita che si svolge all’interno del palazzo; significa concedere il potere di introdurre in casa o di negare l’accesso.
I rabbini erano convinti di possedere “le chiavi della Toràh” perché conoscevano le sacre Scritture; ritenevano che tutti dovevano dipendere da loro, dalle loro decisioni dottrinali, dai loro giudizi; si sentivano in diritto di discriminare fra giusti e ingiusti, fra santi e peccatori.
Gesù riprende questa immagine nella sua dura requisitoria contro gli scribi: “Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l’avete impedito (Lc 11,52). Invece di aprire la porta della salvezza, essi la sbarravano, non rivelando al popolo il vero volto di Dio e la sua volontà.
A costoro Gesù ha sottratto la chiave di cui si erano abusivamente appropriati; ora è soltanto sua. Riprendendo la profezia di Isaia su Eliakìm, il veggente dell’Apocalisse dichiara che è Cristo, e nessun altro, “colui che apre e nessuno chiude, che chiude e nessuno apre” (Ap 3,7).
L’edificio spirituale cui Gesù fa riferimento è “il regno dei cieli”, la condizione nuova in cui entra chi diviene suo discepolo e la chiave che permette di entrare è la fede professata da Pietro.
Consegnando le chiavi a Pietro, Gesù non lo incarica di fare il portinaio del paradiso, né, tanto meno, di “farla da padrone” sulle persone a lui affidate, ma gli ingiunge di “divenire modello del gregge” (1 Pt 5,3), gli affida il compito di spalancare a tutti l’ingresso alla conoscenza di Cristo e del suo vangelo. Chi passa attraverso la porta aperta da Pietro con la sua professione di fede (è questa la “porta santa”) accede alla salvezza, chi si rifiuta rimane escluso.
Anche l’immagine del legare e sciogliere è ben nota perché impiegata spesso dai rabbini del tempo di Gesù. Si riferiva alle decisioni riguardanti le scelte morali: legare significava proibire, sciogliere equivaleva a dichiarare lecito. Indicava anche il potere di pronunciare giudizi di approvazione o di condanna del comportamento delle persone e quindi di ammetterle o di escluderle dalla comunità.
Approfondiremo e chiariremo questo concetto quando, fra due domeniche, esamineremo Mt 18,18, dove emerge che questa stessa autorità di dichiarare chi appartiene al regno dei cieli e chi no, è concessa da Gesù a tutta la chiesa.
Concludendo possiamo dire che, dal brano evangelico di oggi, come da numerosi altri testi del NT (Mt 10,2; Lc 22,32; Gv 21,15-17), risulta chiaro che a Pietro è affidato un incarico particolare nella chiesa: è lui che compare sempre per primo, che è chiamato a pascere gli agnelli e le pecorelle e che deve sostenere nella fede i suoi fratelli.
I malintesi e i dissensi non sono nati da questa verità, ma dal modo di svolgere questo servizio. Lungo i secoli – lo ammettiamo con sincera umiltà – tante volte è degenerato e da segno di amore e di unità è divenuto espressione di potere.
Come lo stesso papa ha espressamente riconosciuto, è necessaria una revisione dell’esercizio di questo ministero, in modo che il vescovo di Roma divenga realmente per tutti, secondo la stupenda definizione di Ireneo di Lione (secolo II), “colui che presiede alla carità”.