Teologia e l’innominato desiderio dei cuori

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Una ventina di anni fa, quando ero uno studente universitario privilegiato e con una mentalità che potrei definire abbastanza tradizionale, sono stato introdotto per la prima volta alla teologia della liberazione latino-americana di Gustavo Gutierrez e Jon Sobrino. È stato in quel periodo che ho acquisito una visione che ancora oggi dà forma al mio approccio alla teologia: ossia che si dovrebbe trattare con profondo scetticismo ogni teologo a cui manca una comprensione, anche esistenziale, della natura tragica dell’umano vivere.

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La grazia negli spazi del peccato

Credevo profondamente allora, come credo ancora oggi, che la grazia abbondi proprio laddove pervade il tragico del peccato. In quei giorni oramai lontani percepivo qualcosa che i miei studenti di oggi della triennale portano ancora con sé nei corsi che insegno nel cuore cangiante e frenetico della città di New York – anche se sono passati due lunghi decenni, si è aperto un enorme abisso generazionale, e per i nostri ragazzi il linguaggio tradizionale sul peccato e la grazia è diventato qualcosa di estraneo e difficilmente comprensibile.

Concedo subito al lettore/lettrice che anche questa mia visione e approccio devono essere trattati con il dovuto scetticismo. Da ultimo, l’odierno panorama teologico, immenso ed esso stesso vertiginosamente multiforme, non dovrebbe essere giudicato solamente sulla base della prospettiva particolare di una persona. Infatti, l’ampia diversità della teologia odierna, da quella ecologica alla radical orthodoxy passando per la teologia queer, mi spinge talvolta a vederla come un multiverso teologico. Questo solo per indicare che il mio criterio critico di giudizio potrebbe non essere sufficientemente complesso.

Nonostante questo, sono pronto ad affermare che il potere del tragico, che per un cristiano è riconosciuto in definitiva nella narrazione drammatica e redentrice della croce, rimane un punto di entrata vitale e accattivante nel pensiero e nella comprensione teologica – anche per i miei studenti, che sono sicuramente tutto tranne che tradizionali.

Narrazione e istinto

Sostieni SettimanaNews.itCredo che si tratti in parte di questo nello spiegare il perché la serie di libri di Harry Potter scritti da J.K. Rowling rappresenti per me la più accessibile, forse la più meravigliosamente scaltra introduzione al mito cristiano del peccato e della grazia, della sofferenza, del sacrificio di sé, della morte e risurrezione. Sebbene manchino di un linguaggio per articolare tutto ciò, i miei studenti percepiscono istintivamente nella trama intessuta da Rowling, che si dipana irregolarmente, il richiamo profondo, nel mezzo del paziente soffrire di Harry, del libero scegliere una vita di amore che si svuota di sé (in termini teologici kenosis) portando così un raggio di redenzione nel mondo – anche se rimangono inevitabilmente le conseguenze del peccato.

E questa è anche la ragione per cui i miei studenti sono così toccati quando guardano e discutono sul film De hommes et des dieux (2010), che rende la vera storia del tormento collettivo all’interno di una comunità trappista francese in Algeria. Il film muove verso il suo apice drammatico quando vediamo i monaci nella loro combattuta lotta verso la decisione di sacrificare le loro vite come gesto di solidarietà con i poveri musulmani della regione perseguitati dagli islamisti radicali durante guerra civile algerina nel corso degli anni Novanta.

Certo, sia la serie di Harry Potter che il film Des hommes et des dieux esplorano la tragedia attraverso il medium della narrazione, ma sarebbe un errore non cogliere quanto sia importante questo dettaglio per le generazioni più giovani.

Des hommes et de dieu

Racconto di sé e costruzione del senso

Molto più di quanto non facciano i miei studenti, io assumo una prospettiva critica nei confronti dei social media e della loro tendenza a formare i giovani in modo che essi raccontino, senza pensarci, le loro vite in “tempo reale”, minando così quegli atteggiamenti di auto-riflessione e discernimento critico che, con duro lavoro, cerco loro di raccomandare e inculcare.

Eppure sono ben contento di concedere e onorare il fatto che la narrazione, e in particolare il racconto di sé, è parte essenziale nella costruzione del senso nella nostra contemporaneità. Per questo sono persuaso che i teologi onestamente impegnati a trovare la via per introdurre le generazioni più giovani al potere trascendente dell’amore cristiano dovrebbero tenere in considerazione come si possa incorporare in maniera creativa il narrare e la narrazione nel loro lavoro (permettetemi qui di raccomandarvi la lettura di un libro di prossima pubblicazione presso la casa editrice Orbis sulla narrazione nella teologia scritto dalla teologa statunitense Natalia Imperatori Lee).

Mi sembra chiaro che molti dei miei studenti sono colpiti da racconti, teologicamente permeati, di sacrificio di sé perché sono interessati e affascinati dalla possibilità di integrare elementi di queste narrazioni nel loro proprio vissuto.

Una teologia per la complessità tragica del vivere odierno

È vero che i sociologi ci dicono che una parte sempre più ampia delle giovani generazioni statunitensi non vedono più il cristianesimo come forza guida nella loro vita morale. Eppure percepisco qualcosa di incoraggiante: molti tra questi giovani hanno una sensibilità istintiva, anche se non particolarmente articolata e riflessa, per il fatto che il senso e una trasformazione di sé possono essere trovati attraverso un modo di vivere dedicato a un servizio di amore e sacrificio.

Di che tipo di teologia hanno bisogno i nostri ragazzi oggi? Hanno bisogno di una teologia che sappia rivolgersi, in maniera chiara e inequivocabile, alla tragica complessità dell’esistenza umana. Una teologia che parli creativamente e in maniera avvincente, facendo sue forme e strutture del linguaggio che siano appropriate, in particolare la narrazione. Una teologia che sia stimolante e provocativa, sia sul piano intellettuale che su quello spirituale. Una teologia che, da ultimo, sappia attirarli nello spazio del mistero di amore che è il nucleo incandescente sia del cristianesimo tradizionale sia del desiderio finora ancora senza nome che oggi scorre nel cuore di molti.

James McCartinJames P. McCartin è membro della facoltà di teologia presso la Fordham University di New York (USA), per sei anni direttore del Center on Religion and Culture presso la stessa Università. È autore del volume Prayers of the Faithful: The Shifting Spiritual Life of American Catholics (Harvard University Press, 2010). Il suo contributo porta avanti il dibattito suscitato dall’intervento di Marcello Neri sul ruolo della teologia nel in riferimento al futuro del cristianesimo (cf. Settimananews 11 maggio 2017; ad esso hanno fatto seguito gli interventi di M.G. Masciarelli, il 24 maggio, di J. Deibl dell’8 giugno, di Ch. Theobald, il 23 giugno, di A. Torres Queiruga il 27 giugno, si G. Spallek il 23 luglio). Riportiamo di seguito il suo testo anche nell’originale inglese.


Twenty years ago, as a privileged, rather traditional-minded U.S. college student newly introduced to the Latin American liberation theology of Gustavo Gutierrez and Jon Sobrino, I acquired an insight that still shapes my approach to theology today: One should treat with profound skepticism any theologian who lacks a developed, even experiential, understanding of the tragic nature of human existence. I firmly believed then—as I do today—that grace abounds where tragic sin pervades. But I think I sensed then something that my own undergraduates two long decades and one enormous generational gulf later, students for whom the traditional language of sin and grace is foreign and unnerving, carry with them into the courses I teach in the diverse and frenzied heart of New York City.

I will concede that my insight and approach should also be treated with due skepticism. After all, today’s theological universe, immense and itself dizzyingly diverse, should not be judged solely by one person’s peculiar standard. Indeed, the wide diversity of theology today, from eco-theology to radical orthodoxy to queer theology, tempts me at times to the call it a theological multiverse, suggesting that my critical criterion might be insufficiently complex. Nevertheless, I contend that the power of tragedy—for a Christian what is ultimately recognized in the tragic and redemptive narrative of the cross—remains a vital and appealing entry point into theological thinking and understanding, even for my resolutely non-traditional students.

I believe this is, in part, why they so cherish J.K. Rowling’s Harry Potter book series which, to my mind, is today’s most accessible, if also most wonderfully sly, introductions to the Christian myth of sin and grace, suffering, self-sacrifice, death, and resurrection. Though they lack a language to articulate it, my students innately sense in Rowling’s sprawling storyline the profound appeal, amid Harry’s enduring suffering, of freely choosing a life of self-emptying love (in theological terms, kenosis) and thereby bringing some measure of redemption into the world, even as the effects of sin inevitably remain. It is also why my students are so moved by the 2010 film Des hommes et des dieux, a depiction of the true story of collective anguish within a French Trappist community in Algeria. The film inches toward its dramatic peak as we watch the monks struggle mightily toward their decision to sacrifice their lives as an act of solidarity with poor Muslim neighbors persecuted by Islamist radicals during the Algerian civil war of the 1990s.

Of course, both the Harry Potter book series and Des hommes et des dieux explore tragedy through the medium of narrative, and it would be a mistake to overlook how important this detail is to younger generations. Far more than my students, I take a critical perspective on social media and its tendency to form young people who unthinkingly narrate their lives in “real time,” thus undermining the habits of self-reflection and critical discernment that I work so hard to recommend and inculcate among them. Yet I happily concede and honor the fact that narrative, particularly self-narrative, is an essential element of constructing meaning today, and I believe that theologians concerned with how to introduce younger generations to the transcendent power of Christian love should consider how they might creatively incorporate narrative into their work. (Allow me here to recommend a forthcoming book on narrative in theology by U.S. theologian Natalia Imperatori Lee, to be released by Orbis in 2018.)

It also seems clear to me that many of my students are impressed by theologically-informed stories of self-sacrifice because they are intrigued by the possibility of integrating elements of these stories into their own lives. True, sociologists tell us that an alarming number of younger generations in the United States do not see Christianity as a guiding force in their moral lives. I still sense something encouraging: Many in these younger generations have an innate, if not especially thoughtful or articulated, sense that meaning and self-transformation may be found through lives dedicated to loving, sacrificial service.

What kind of theology do young people need today? They need a theology that addresses clearly and unequivocally the tragic complexity of human existence; a theology that speaks compellingly and creatively by adopting appropriate idioms and formats, especially narrative; a theology that is both intellectually and spiritually challenging; a theology that ultimately draws them into the mystery of love that is both the heart of traditional Christianity and the as-yet unnamed desire of so many.

James P. McCartin is a member of the faculty of Theology at Fordham University (USA). He has directed for six years the Center on Religion and Culture at Fordham. James McCartin is the author of the widely praised history book Prayers of the Faithful: The Shifting Spiritual Life of American Catholics (Harvard University Press, 2010).

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