Berlino è oggi una città cosmopolita, in continuo cambiamento, centro gravitazionale che attira miriadi di giovani e meno giovani (molti tra i quali artisti di ogni genere). Insomma, se volete farvene un’idea, immaginatevi la Parigi di inizio Novecento e scorrete i nomi di coloro che lì si trasferirono. Con un vantaggio, allora come oggi, considerevole: un costo della vita abbordabile, affitti notevolmente più bassi rispetto alle altre grandi città europee, e un mercato del lavoro (da quello più qualificato a quello occasionale) che ha molto da offrire. L’unico ostacolo è che il tedesco non lo impari proprio in una notte, ma anche per quanto riguarda ciò, almeno per i primi tempi, ci si può arrangiare.
Non stupisce che queste condizioni, unite alla vitalità e alle opportunità che la città offre, attiri un numero rilevante di persone, gran parte delle quali ha qualificazioni professionali di livello o potenzialità e fantasia imprenditoriale che trovano nell’atmosfera berlinese un terreno adatto per sbocciare come altrove non potrebbero fare.
Israeliani a Berlino
Quello che può meravigliare, dato il peso della storia recente e la delicatezza politica dei rapporti tra i due paesi, è che tra questa massa di persone che dall’estero si muove verso Berlino per abitarvi ci sia anche un numero considerevole di israeliani, in prevalenza giovani (tra i 27 e i 29 anni), con una solida formazione scolastica e universitaria.
Intorno a questa presenza di cittadini israeliani a Berlino è nato una sorta di mito mediatico, che confonde residenti con turisti, persone di passaggio per lavoro con abitanti della città. Il tutto passato sotto silenzio dai rispettivi governi e dalla politica delle due nazioni, per ragioni che sono facili da immaginare. Soprattutto perché «nelle fasi iniziali dello Stato israeliano la migrazione era considerata un tradimento morale […] e fino al 1956 era in vigore il cosiddetto Prat HaGermania, ossia un’annotazione ufficiale sul passaporto che ne escludeva esplicitamente la validità per viaggi in Germania» (p. 15).
La fine di un tabù
Accanto alla semplice percezione quotidiana e al racconto mediatico mancava finora una seria ricerca empirica che analizzasse i numeri, le forme e le ragioni di questa presenza di cittadini israeliani a Berlino. A questa mancanza sta cercando di rispondere un’indagine empirica promossa dalla «Bertelsmann Stiftung», che è approdata a un primo temporaneo studio pubblicato nel 2015: «Israeliani a Berlino. Quanti sono e cosa li porta a Berlino?» (scaricabile qui).
Il titolo di questo studio iniziale indica già il fulcro della prima elaborazione dei dati empirici raccolti sul campo: chi sono gli israeliani che migrano verso Berlino e quali sono le ragioni che li spingono a lasciare Israele per andare a vivere nella capitale tedesca; ricordando che, «da una prospettiva israeliana, la migrazione verso la Germania è stata per lungo tempo un tabù» (p. 7), una sorta di ferita aperta della quale non si poteva né parlare né prendere coscienza.
La terza generazione: demografia e destino di Israele
I cittadini israeliani che emigrano a Berlino, molti dei quali possiedono un doppio passaporto o Statunitense o di uno dei paesi dell’Unione Europea, appartengono alla terza generazione della popolazione dello Stato di Israele; in molti casi le loro famiglie hanno radici Mitteleuropee o vivevano nelle regioni orientali dell’Europa prima dell’Olocausto. «A differenza dei loro nonni, gli israeliani della terza generazione non hanno avuto alcuna esperienza traumatica [per quanto riguarda la Germania]. E si differenziano dai loro genitori perché sono cresciuti in una stagione in cui, in Israele, l’origine e la cultura europea sono state guardate con sempre maggiore interesse e una coltivazione di esse veniva considerata sempre di meno come uno stigma» (p. 10).
Per quanto riguarda i numeri, accanto alle rilevazioni statistiche del Land Berlino-Brandeburgo che indicano la registrazione di residenza di 3991 persone con passaporto israeliano e quella di 2.274 tedeschi con passaporto israeliano, bisogna tenere in considerazione anche quella fetta di popolazione israeliana residente a Berlino che si è registrata con un secondo passaporto straniero – arrivando così a un numero di circa 11.000 cittadini israeliani che sono emigrati e vivono a Berlino.
Come base per la raccolta di questi dati, lo studio considera «israeliana una persona che è cittadina dello Stato di Israele, parla ebraico e dopo il quattordicesimo anno di età ha vissuto per almeno cinque anni in Israele» (p. 13).
È interessante notare che, a parte gli Stati Uniti, non ci sono studi israeliani su processi migratori che riguardano altri paesi. «Accanto alla difficoltà statistica di individuare in numeri esatti [di questo fenomeno], giocano un ruolo rilevante gli aspetti storici e ideologici: l’emigrazione è e rimane una ferita per Israele. La demografia viene percepita come un destino e ogni ebreo che emigra è vissuto come una perdita per il Paese» (p. 12).
Se passiamo a prendere in considerazione il profilo storico-culturale della “diaspora” berlinese, si può vedere che per una percentuale rilevante si tratta di ebrei di ascendenza aschenazita o di ebrei i cui nonni erano di madrelingua tedesca.
Vi è quindi una certa radicazione famigliare nella cultura europea che favorisce l’ambientamento in una metropoli come Berlino, «accelerando l’integrazione degli israeliani nella città. Non si dovrebbe, però, confondere integrazione con assimilazione, nel senso che gli israeliani divengano tedeschi abbandonando la loro propria cultura o rinunciando a parlare ebraico» (p. 14).
E proprio la custodia viva della lingua ebraica è uno degli atteggiamenti culturali che contraddistingue questa presenza diasporica della terza generazione israeliana nella capitale della Repubblica federale.
Vivere più culture
D’altro lato, «proprio a Berlino è facile mantenere un giusto equilibrio tra le culture: vi abitano molti israeliani, ci sono infrastrutture ebraiche e comunità ebree di correnti differente per quanti vogliono portare avanti una pratica [religiosa]» (p. 14).
A questo si unisce un differente atteggiamento rispetto alla storia e, in particolare, al significato della Germania per gli ebrei del XX secolo: «Il passato di certo esiste ed è parte integrante della cultura della memoria, ma esso non ha un significato rilevante nella vita quotidiana. Proprio i giovani israeliani, che sono la maggioranza di quelli che vivono a Berlino, hanno preso distanza dal passato. Anche i luoghi memoriali [presenti nella città] sono poco visitati da essi» (p. 15).
Israele: la presa religiosa sulla politica
Tra le ragioni che hanno spinto questa fetta della terza generazione israeliana a emigrare verso Berlino prevalgono quelle economiche, data la crisi in atto in Israele che ha fatto lievitare il costo della vita, e quella delle tensioni politiche, interne ed esterne, che caratterizzano lo Stato di Israele: contrassegnato da una rinascita del religioso e da un re-religionizzazione della politica e della cultura.
Fenomeno, questo, che influenza «i flussi elettorali e incrementa i voti per i partiti che si collocano a destra del centro. A questa tendenza corrisponde il posizionamento di una risicata minoranza – in ragione di ciò, di contro, una significativa minoranza del Paese si vede minacciata nel suo modo di vivere e nella sua identità» (p. 18). Accanto a queste troviamo motivazioni affettive, le prospettive di lavoro e la possibilità di conseguire gradi accademici dopo la laurea.
Perché Berlino?
Un ruolo significativo hanno anche le infrastrutture culturali offerte dalla città di Berlino, che permettono una coltivazione assidua e coerente dell’identità israeliana che caratterizza questo gruppo di giovani emigranti – dalla lingua ebraica, agli stili di vita, al cibo e al modo di mangiare. Inoltre, sembra importante per loro mettere in atto processi di riappropriazione culturale di un ebraismo europeo radicato nella loro matrice famigliare.
Da notare, in questo, il contemporaneo intreccio e disgiunzione fra israeliano ed ebreo: Berlino «è anche il centro della vita ebrea e israeliana in Germania, e crescono le infrastrutture israeliane ed ebree. “Israeliano” ed “ebreo” possono essere qui strettamente connessi tra loro, ma non necessariamente. Uno degli intervistati ha detto chiaramente che si vede come israeliano ma non come ebreo» (p. 17).
In cerca di identità
Il profilo identitario di questa “diaspora” berlinese è, conseguentemente, complesso e multiforme, dinamico e in cerca di stabilizzazione, e, in un certo qual modo, paradossale.
Cosa vuol dire rimanere israeliano all’interno di un processo di distanziazione dalle politiche dello Stato di Israele? Quanto, nella rinuncia alla connotazione identitaria “ebrea”, è dovuto a processi di secolarizzazione e quanto è effetto della re-religionizzazione attuale delle dinamiche di vita all’interno dello Stato israeliano?
Per quale ragione vengono mantenute e coltivate pratiche ed osservanze religiose “casalinghe”, ma non si partecipa alla vita delle sinagoghe attive nel territorio della capitale tedesca, anche se la loro presenza è vista in modo favorevole?
Non mancano, inoltre, esperienze negative legate a rifiuto o disapprovazione in ragione della provenienza. Talvolta il semplice parlare in ebraico viene percepito da alcune porzioni della popolazione berlinese tedesca come un appoggio degli emigranti alle politiche dello Stato di Israele, che risulta a sua volta nella percezione di una tendenza anti-semitica da parte degli emigranti israeliani.
D’altro canto, la capacità o incapacità di parlare tedesco rappresenta un nervo scoperto nei processi di integrazione nella vita berlinese, soprattutto per quella fetta di emigranti israeliani che provengono da famiglie ebree originariamente di madrelingua tedesca. Il desiderio di riappropriazione della propria origine ed eredità culturale non passa unicamente attraverso gli atteggiamenti di vita, ma anche attraverso la capacità linguistica smarrita nel passaggio generazionale tra nonni e nipoti.
Israele: tra passato e futuro
Il fenomeno multiforme, complesso, ambivalente, di questa “diaspora” berlinese ha un rilievo che va oltre la storia ferita e drammatica dei rapporti fra Germania e Israele, anche perché permette di percepire movimenti di ridefinizione identitaria e coltivazione del passato del proprio popolo da parte delle giovani generazioni israeliane.
Per questo varrà la pena di seguire con attenzione gli sviluppi ulteriori degli studi patrocinati dalla «Fondazione Bertelsmann» in questo ambito.