«I preti non sono tenuti a lavare i piedi alle donne il Giovedì santo»: di per sé questa dichiarazione del card. Sarah è formalmente corretta. Nello stile astratto e disincarnato con cui viene pensata la liturgia in alcuni ambienti della curia romana, di fronte alle difficoltà e alle novità, ci si rifugia facilmente nel formalismo e nella indifferenza della “norma”: di fronte alla domanda interessata di “rito antico”, si crea con disinvoltura un libero parallelismo, che genera solo confusione; di fronte alle forme del rito di pace, si ricorda semplicemente che il gesto non è obbligatorio, oltre a definire “abuso” ogni canto e ogni movimento durante il rito; di fronte alla “nuova rubrica” voluta da Francesco per la lavanda dei piedi, ci si limita a ricordare che non obbliga nessuno.
È questo il compito del prefetto della Congregazione del culto? Deve solo quieta non movere e mota quietare? O forse deve prendere l’iniziativa solo quando si tratta di proporre la introduzione dell’offertorio di Pio V nel messale di Paolo VI? Questo è il modo di applicare il Concilio?
Se all’epoca di Sacrosanctum concilium avessimo avuto il card. Sarah come incaricato di applicarlo, che cosa avrebbe fatto dei nn. 51-57 della costituzione? Se la maggiore ricchezza biblica, l’omelia quotidiana, la preghiera dei fedeli, la lingua vernacolare, la concelebrazione e la comunione sotto le due specie fossero state giudicate semplicemente come “cose non necessarie” – secondo tradizione – allora avremmo avuto una “vera” riforma liturgica, in cui tutto sarebbe rimasto come prima. Perché, a guardarle bene, tutte queste riforme non potrebbero essere, in fondo in fondo, nient’altro che “abusi regolarizzati”?
Allora veniamo al punto-chiave: una cosa è “guardarsi dagli abusi” e altra cosa è “reimparare gli usi”. Su questa distinzione si può capire la linea profetica di Francesco e quella difensiva di Sarah: da un lato Francesco, per ottenere un uso “più pieno” del segno della lavanda dei piedi, può arrivare anche a commettere un abuso (come è avvenuto, tecnicamente, con la lavanda dei piedi in carcere, dall’aprile 2013 al gennaio 2016); per Sarah, invece, nell’intento di evitare ogni abuso, si può arrivare persino a negare l’uso.
E dobbiamo chiederci, allora: il Concilio Vaticano II che cosa voleva realizzare? la repressione degli abusi o la rinascita degli usi? In questo fraintendimento grave del Vaticano II, Sarah si colloca del tutto al di fuori della logica con cui Francesco intende procedere, riprendendo in pienezza la linea del Concilio. Egli punta sul rilancio di usi rinnovati, piuttosto che sulla lotta agli abusi vecchi e nuovi.
Ed è qui, io credo, che la dichiarazione di Sarah diventa un esplicito ostacolo alla logica voluta da Francesco: il fatto di recuperare la “pienezza di un segno” non può essere in alcun modo mediato dalla sua riduzione alla dimensione del “non necessario”. Non è così che si incentiva la liturgia, e questo è chiaro non solo per la “lavanda dei piedi”, ma anche per il “rito di pace” e ancor più per il parallelismo tra forme diverse del rito romano.
D’altra parte questa differenza appare anche dal confronto tra la lettera del papa, confermata anche dal testo del decreto, e la dichiarazione del Prefetto. Il papa non ha chiesto di “rimuovere un abuso”, ma di “esprimere pienamente il significato del gesto”: egli vuole infatti “migliorarne le modalità di attuazione, affinché esprimano pienamente il significato del gesto compiuto da Gesù nel Cenacolo, il suo donarsi ‘fino alla fine’ per la salvezza del mondo, la sua carità senza confini”.
Da questa differenza tra preoccupazione solo per l’abuso e promozione pastorale dell’uso discende tutto il resto. Ma decisiva, qui, non è tanto la differenza tra papa Francesco e il card. Sarah, bensì quella tra l’attuazione appassionata del Concilio Vaticano II e la insofferenza malcelata verso di esso. Ed è questa dichiarata insofferenza che, quando emerge apertamente in un Prefetto, non può essere affatto considerata come un nonnulla: di fronte a questa risentita indifferenza non si può restare indifferenti.
Pubblicato il 16 marzo 2016 nel blog: Come se non
Sono d’accordo, caro p. Renato, sia con te che con Grillo: mi sa che quello che dà fastidio è il Vaticano II, più ancora delle donne…
Ho l’impressione che questi cardinali non siano mai stati per un tempo congruo in una realtà pastorale povera, non dico di frontiera, dove non c’è il cerimoniere o lo schiavetto a prepararti e vestirti, dove ti accorgi a pelle se il rito esprime la fede o è “guardato” come se fosse rappresentato da marziani.
E il segno della lavanda dei piedi, rafforzato dal racconto di Giovanni proprio nel giorno della memoria della istituzione della Eucaristia (non penso sia stata una svista della Chiesa), è uno dei momenti più significativi che conservo nella memoria degli anni di parroco. A volte segno “forzato” come nell’anno della donna: solo donne a vivere il segno, a dire per una volta almeno che la maggior parte dei servizi più umili, ma spesso più simili all’attenzione del Samaritano, sono servizi prestati da donne. O nel pieno dell’emergenza di arrivi di profughi e stranieri, quando non puoi farli esibire su una sedia per rispetto alla diversa fede e alla loro dignità… una bella fila di sedie vuote, sopra alcuni vestiti laceri, quel po’ di alimentari che la Caritas procura loro, un vocabolario… e, calma, una voce che sedia per sedia racconta il loro dramma ma anche la carità che muove molte persone anonime a farsi loro incontro senza telecamere o fotografi, ma anche senza catini dorati o piedi già profumati in precedenza. E, se dovessi ripetere il gesto quest’anno ancora drammatico per l’emergenza profughi (o per l’emergenza chiusure?), penso proprio che su una sedia troverebbe posto una berretta cardinalizia…