«La nostra posizione pro-immigrazione è basata sulla fedeltà alla parola di Dio e onora il sogno americano. È del tutto fuorviante affermare che chiedere giustizia per gli immigrati non costituisca un punto centrale dell’insegnamento cattolico. Esso deriva direttamente dalle parole di Gesù che in Matteo 25 dice esplicitamente: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35)».
Con la tipica concretezza americana i vescovi degli Stati Uniti hanno ribadito in questi giorni ancora una volta la loro posizione nei confronti dei cambiamenti in materia di politica migratoria avviati dalla nuova amministrazione di Washington con una breve dichiarazione rilasciata il 7 settembre per voce del responsabile della comunicazione, James Rogers. Contro ogni tentativo che vorrebbe rinchiuderli in sacrestia, i pastori non temono di mostrare a viso aperto tutta la loro contrarietà forti dell’insegnamento della Chiesa: «Gli immigranti e i rifugiati sono appunto gli stranieri che dobbiamo accogliere tra noi: questa non è una posizione di parte. La Bibbia è molto chiara: l’accoglienza degli immigrati è un atteggiamento connaturato alla nostra fede cristiana».
Cancellata la norma in vigore dal 2014
L’ennesimo intervento dei vescovi rappresenta solo l’ultimo di una lunga schiera che li ha visti da tempo impegnati per sollecitare l’attenzione del Congresso sul tema dei migranti e rifugiati al fine di giungere ad una nuova legge quadro che tenga conto dell’orizzonte sempre più ampio di questi ultimi anni (su questo ogni tentativo del presidente Obama si era sempre scontrato con l’opposizione di maggioranza repubblicana). La situazione è apparsa precipitare nel corso dell’estate quando l’attuale presidente Trump ha firmato in data 16 agosto l’azzeramento di uno dei tanti provvedimenti tampone messi a punto dal suo predecessore.
Il Programma in questione (sotto esame già dal mese di febbraio) prevedeva il ricongiungimento dei minori migranti alle loro famiglie o l’inserimento di quanti non accompagnati. Il Central American Minors (CAM), approvato dal presidente Obama a novembre 2014 (in quell’anno avevano calcolato un numero di almeno 60 mila minori fuggiti dei Paesi del cosiddetto “triangolo della morte”), intendeva offrire una risposta all’aumento costante dei profughi da El Salvador, Guatemala e Honduras, tra i quali tanti minori non accompagnati. I genitori che già risiedevano negli Stati Uniti avevano la possibilità di richiedere un rinnovo a scadenza biennale del permesso di soggiorno per i figli al di sotto del 21° anno di età.
A stretto giro di posta Joe S. Vásquez, vescovo di Austin, Texas, presidente della Conferenza episcopale per i migranti (che solo lo scorso 26 luglio aveva inviato un’altra lettera al Congresso sul tema), aveva scritto ai rappresentanti a Washington in difesa del CAM, in quanto avrebbe fornito «un modo legale e organizzato per i minori che migrano negli Stati Uniti a riunirsi con le famiglie», aggiungendo altresì che «terminare il programma non promuoverà né la sicurezza per questi minori, né tantomeno aiuterà il nostro governo a regolare il fenomeno migratorio nei prossimi anni». «Sappiamo che i bambini devono essere protetti e deve essere data loro la capacità di rimanere nei loro paesi d’origine individuando opportunità – scrive Vásquez – ma al contempo, quando non esistono alternative, essi devono anche poter lasciare il loro Paese e migrare in sicurezza per trovare maggior protezione».
Drammi attuali e fosche prospettive
La decisione, subito ampiamente commentata dai media, in testa la CNN, comporta l’immediata espulsione di almeno 3.000 persone che non saranno più in grado di venire considerate migranti legalizzati. Il Programma era stato messo a punto dalla Casa Bianca per offrire un rifugio sicuro ai minori più vulnerabili che già vivono negli Stati Uniti (ma entrati illegalmente), mentre ora l’amministrazione Trump, con un ordine esecutivo, elimina un’opzione per quei genitori disperati che si vedono negare il ricongiungimento. Da parte sua il presidente spiega il provvedimento come uno dei modi per contrastare l’immigrazione clandestina e rendere più difficile l’ingresso negli Stati Uniti per i minori provenienti dal Centroamerica, interrompendo così quella che viene definita una «rete pericolosa».
Il programma CAM aveva fatto sì che tutti i migranti di età inferiore ai 21 anni, con i genitori legittimamente residenti negli Stati Uniti, venissero automaticamente considerati come cittadini degli Stati Uniti a tutti gli effetti anche se non nati su suolo americano. Molti di loro, circa 3000 appunto, fino a quel momento erano vissuti un po’ come in un limbo, in quanto a loro non poteva applicarsi neanche lo status di rifugiato: da agosto il Dipartimento per la sicurezza nazionale non è più in grado di utilizzare il programma CAM per automatizzare quel processo, e per quei bambini e ragazzi si apre solo la strada dell’arresto e del respingimento nei Paesi d’origine (a fronte dei genitori che dovrebbero restare negli Stati Uniti dove hanno casa e lavoro). Ovviamente tutto questo si applica a maggior ragione a tutti quelli che avevano ricevuto un visto condizionato e che, di fatto, non potranno più spostarsi negli Stati Uniti.
Un calcolo approssimato dei media valuta in circa 1.465 minori cui è stata concessa la possibilità di migrare legalmente negli Stati Uniti dalla creazione del Programma CAM nel dicembre 2014. Ma sembrano essere quasi il doppio (2.714 persone) quanti avevano ricevuto garanzia, sulla base del CAM, ma che non saranno in grado di entrare negli Stati Uniti legalmente grazie ad esso. La grande maggioranza proviene da El Salvador, seguito da Honduras e un piccolo numero dal Guatemala. Per tanti genitori, molti dei quali stanno già ricevendo le notifiche, si chiude così definitivamente la strada per allontanare i propri figli dalla violenza e dalle situazioni pericolose – povertà crescente, traffico di droga, ingresso in bande di rapinatori – nei loro Paesi d’origine, e in alcuni casi specifici, questo si applicava anche al coniuge di un residente legale. Dal mese di agosto l’unica possibilità resta quella di affidarsi, con tutti i rischi del caso (leggi tratta dei minori, vendita di organi ecc.) ai contrabbandieri col rischio di pagarne anche le conseguenze in termini di arresto per violazione della legge.
Reazioni di tanti in difesa dei più deboli
«La nostra preoccupazione è che l’amministrazione ha deciso di abbandonare completamente questi bambini e ragazzi e li espone dall’oggi al domani ad una reale situazione di pericolo immediato», ha detto al Washington Post Lisa Frydman, vice presidente di Kids in Need of Defense, nonostante il governo continui ad affermare il contrario.
A conferma delle preoccupazioni, il quotidiano di Washington ricordava come dall’insediamento della nuova amministrazione il numero di persone che cercano di entrare negli Stati Uniti dal confine Sud con il Messico sia quasi crollato (mentre aumentano le richieste di entrare in Canada tanto che nel mese di agosto se ne calcolavano almeno 250 al giorno), e come si sia quasi interrotta anche la domanda di ingresso legalizzato (un incontro tra i vescovi di frontiera USA-Messico si è tenuto giusto ai primi del mese a Piedras Negras al confine col Texas con la preoccupazione condivisa di evitare la criminalizzazione dei migranti).
È in costante aumento invece il numero di ordini esecutivi di espulsione, molti dei quali accompagnati da autentiche prese di posizione di centinaia e centinaia di cittadini che scendono in piazza in difesa delle famiglie separate a forza, com’è accaduto in California a Maria Mendoza Sanchez, una madre di famiglia di origine messicana residente a Okland da 23 anni, raggiunta da un ordine esecutivo di espulsione. A nulla è valso il suo impiego come infermiera oncologica ospedaliera e il lavoro sicuro del marito che garantivano alla famiglia sostentamento per i tre figli e una casa in affitto. A nulla sono servite le numerose e partecipate manifestazioni tra Oakland, San Francisco e Berkeley, e tantomeno le riprese televisive che descrivevano l’accaduto: scortata dalla polizia, Maria, insieme al marito (che non ha voluto abbandonarla al suo destino) e al figlio minore, ha dovuto abbandonare gli Stati Uniti lasciando là due figlie che intendono terminare gli studi, se pure alla ricerca un alloggio di fortuna. Senza più né lavoro, né casa, la famiglia Sanchez è ora ospite in Messico da parenti.
Solo una delle tante storie di autentici drammi che stanno attraversando gli Stati Uniti oggi e che sono salite alla ribalta anche da noi ai primi del mese con l’acronimo più generale di DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals) per via della decisione firmata il 4 settembre di ritirare l’autorizzazione all’intero programma, il che lascerebbe senza ogni speranza almeno 200 mila minori inchiodati tra le violenze del triangolo centroamericano.
Un futuro incerto per i “Dreamers”
Nello scorso giugno il vicepresidente Mike Pence aveva avuto un incontro a Miami con i presidenti di El Salvador, Honduras e Guatemala, assicurando l’impegno americano per rafforzare lo sviluppo economico di quei Paesi unito allo sforzo per eliminare la corruzione e combattere la criminalità organizzata, ma le decisioni politiche sembrerebbero andare in direzione opposta.
Come pure rispetto al Messaggio di papa Francesco per la prossima Giornata dei migranti e dei rifugiati, dove è invocata la fine dell’«espulsione collettiva e arbitraria dei migranti», fatto che, a suo avviso, «non risolve la crisi migratoria nel mondo».
Per tanti bambini e ragazzi, che ormai hanno imparato l’inglese a scuola, il “rimpatrio” nei Paesi d’origine, dai quali si sono allontanati spesso in tenera età, costituirà con ogni probabilità un dramma dai risvolti oscuri. A questo gruppo era stato affibbiato il nome di “Dreamers” perché anche a loro “sognatori” era destinato quel sogno americano che aveva visto in oltre due secoli approdare sul continente nordamericano tanti europei (milioni anche i nostri connazionali) in cerca di miglior fortuna.
Tra essi ha fatto scalpore la testimonianza di un giovane prete (classe 1988) della diocesi di Atlanta. Rey Pineda, di origini messicane, che ha affidato a Twitter tutta la sua tristezza unita all’interrogativo sul futuro: arrivato negli Stati Uniti all’età di 2 anni insieme ai suoi genitori Rey è vissuto ad Atlanta dove ha frequentato la scuola e conseguito una laurea in filosofia per poi entrare in seminario. Solo grazie al Programma di Obama aveva potuto essere ordinato prete proprio nel 2014. «Sono convinto che la mia storia personale mi abbia reso capace di condividere la sofferenza della gente che incontro. Guardo al mio ministero come a una chiamata per costruire ponti tra le persone. La diversità conduce talvolta ad affrontare delle sfide e io intendo con tutte le mie forze aiutare a sanare queste differenze». Solo i prossimi mesi diranno se potrà continuare a farlo sul suolo americano.
Perché ora, con l’obiettivo dichiarato dell’America First, verrebbe data la precedenza ai cittadini americani, forse dimenticando che, decimata tra il XVII e XIX secolo la popolazione dei nativi, quanti hanno fatto grande l’America – inteso gli Stati Uniti – sono stati proprio i figli di quei migranti che giungevano stipati nelle navi in partenza dai porti europei dei disperati, spesso in fuga per motivi politici o razziali o semplicemente per motivi di carattere economico. Com’è accaduto del resto anche a Fredrich Trump, nato come Drumpf in Renania ed emigrato nel 1885 come barbiere a New York, e nonno del 45° presidente.
La discesa in campo dei vescovi…
Accanto alle dichiarazioni e ai messaggi a nome dell’intera conferenza episcopale, si è levata la voce di singoli vescovi, non solo quanti, come il cardinale Cupich di Chicago, appaiono far parte della generazione dei cosiddetti “vescovi di Francesco”, ma anche quanti sono appartenuti alla schiera dei “Warriors bishops”, i “vescovi guerrieri”, perché in aperto contrasto con l’amministrazione Obama per via dell’introduzione della copertura sanitaria pubblica che, a loro avviso, avrebbe leso la libertà religiosa (fatto mai contestato in quel modo in nessun altro tra i Paesi occidentali).
«Una cosa è porre in sicurezza le nostre frontiere e deportare criminali violenti giunti qui illegalmente. Diverso e molto più deplorevole è la volontà di punire i giovani che sono cresciuti negli Stati Uniti e hanno casa qui, ma i cui genitori sono entrati nel Paese con loro illegalmente, senza peraltro costituire un pericolo per nessuno di noi» ha affermato l’arcivescovo di Philadelphia, Chaput (che con altrettanta schiettezza si era mostrato alquanto scettico sul capitolo ottavo dell’Amoris lætitia).
Contro l’ormai ex consigliere senior del presidente, Steve Bannon, si era invece espresso il cardinale Dolan, arcivescovo di New York City. Riguardo alle affermazioni di Bannon, secondo il quale la Chiesa cattolica avrebbe degli interessi economici da difendere in tema di aiuti ai migranti e avrebbe bisogno di loro per riempire le chiese in caso contrario vuote, il cardinale rispondeva secco: «Tutto ciò è talmente assurdo e ridicolo che non merita alcun commento».
E mentre difendono l’unica preoccupazione dei Dreamers, quella di poter costruirsi un futuro migliore in una terra ospitale (come la promessa fatta ad Abramo) i vescovi escono in questi giorni con una pubblicazione – Welcoming the Migrant and Refugee – che presenta una riflessione biblica e storica sul tema delle migrazioni, riporta il pensiero degli ultimi pontefici e indica alcuni atteggiamenti e passi concreti da attuarsi come singoli e come comunità.
In più, dal mese di settembre (il lancio è previsto il giorno 27) aderiscono anch’essi alla campagna promossa da Caritas Internationalis «Share the Journey» (Condividi il viaggio), un’iniziativa avviata dal presidente, il cardinale Tagle, e destinata a prolungarsi fino al 2019 al motto «Help now!» (aiutiamoli adesso) per fornire aiuto in altri Paesi come sul proprio territorio nazionale.
Con il realismo di chi ormai conosce il largo uso dei social, i vescovi americani invitano ad «unirsi alla riflessione» facendo partecipi altri (Instagram, Facebook, Twitter, You Tube …) per trovare risposta alla domanda di sempre: «Che posso fare io?». «Usa i social media per indurre altri alla carità verso il prossimo ovunque si trovi – è l’appello sul sito della Conferenza episcopale –. Unisciti alla Missione. Diventa parte del nostro movimento per togliere dalla povertà 45 milioni di americani – e cambiare la vita di milioni di persone che ne hanno bisogno – attraverso la condivisione del tuo tempo, la tua competenza o un aiuto di carattere economico alle organizzazioni caritative degli Stati Uniti o ad una qualsiasi delle agenzie della Chiesa cattolica».
Un’occasione in più per «rifiutare ogni falsa tra sicurezza e umanità» peraltro strisciante anche un po’ in tutta Europa.
… e la parola di papa Francesco
«Lei ogni volta che incontra i giovani dice sempre loro: non vi fate rubare la speranza, il futuro. Il presidente Trump negli Stati Uniti ha abolito la legge dei Dreamers, i “sognatori”, che fa perdere il futuro a 800.000 ragazzi entrati illegalmente quando erano minori. Che cosa ne pensa?» hanno chiesto al pontefice sul volo che da Cartagena lo riportava a Roma al termine della visita in Colombia.
«Ho sentito dell’abolizione di questa legge, ma non ho potuto leggere gli articoli, su come e perché si è presa questa decisione. Non conosco bene la situazione. Però staccare i giovani dalla famiglia non è una cosa che porta buoni frutti né per i giovani, né per la famiglia. Questa legge viene dall’esecutivo e non dal Parlamento: se è così, ho speranza che ci si ripensi un po’. Ho sentito parlare il presidente degli Stati Uniti, che si presenta come un pro-life. Se è un bravo pro-life, capisce l’importanza della famiglia e della vita: va difesa l’unità della famiglia. Quando i giovani si sentono sfruttati, alla fine, si sentono senza speranza. E chi gliela ruba? La droga, le altre dipendenze, il suicidio, a cui si può arrivare quando si viene staccati dalle proprie radici. Qualsiasi cosa che vada contro le radici ruba la speranza».