Andrés Torres Queiruga lo incontrai la prima volta a Santiago de Compostela e devo ammettere che mi fece una bella impressione sia come persona molto attenta alle domande sia come studioso profondo nel dare risposte alle varie questioni. Lo lasciai parlare per un bel po’ di tempo e mi raccontò il suo “pellegrinaggio” di studioso. Mi disse che il suo pensiero spaziava dall’antropologia alla filosofia, dalla teologia fondamentale al dialogo interreligioso. Non si nascondeva che il suo pensiero provocasse discussioni.
Capii che aveva una idea ben fissa: ripensare i grandi dogmi della fede cristiana – tra gli altri, la creazione, la cristologia, l’escatologia – a partire dalla sensibilità dell’uomo contemporaneo, al quale i paradigmi del passato appaiono incapaci di suscitare nuovi slanci.
Riecheggiò nella conversazione – come ricorre peraltro in tutti i suoi scritti – il tema della salvezza in rapporto alla rivelazione dell’uomo e il teologo gagliego arrivò a tracciare rapporti nuovi tra fede e ragione.
Un teologo che appassiona
Mi raccontò della sua vita di appassionato e fervente gagliego; dei suoi primi studi di filosofia e teologia, ai quali si era avvicinato con la lettura delle opere del teologo gagliego Amor Ruibal. Il biblista José Alonso lo aprì alla lettura critica della sacra Scrittura. Durante il periodo romano – studi e dottorato alla Gregoriana (1962- 66) –, s’infervorò dello spirito conciliare e si buttò a capofitto nelle teologie dei francesi Chenu, Congar, De Lubac, dei tedeschi Rahner e Ratzinger, degli svizzeri von Balthasar e Kung, degli olandesi, soprattutto di Schillebeeckx. Studiò i teologi protestanti Tillich, Bultmann, Pannenberg, Moltmann, Jungel.
Un percorso che Torres Queiruga continua a raccontare con passione.
Dopo quel primo incontro, nella sua abitazione stracolma di libri, a due passi della celebre cattedrale, meta di pellegrini e viandanti d’ogni tempo e d’ogni dove, i nostri colloqui sono continuati quasi annualmente. E mi sorprendono sempre più la vivacità del teologo gagliego, la sua ricerca meticolosa, la creatività e la gran voglia di scrivere un libro-memoria del suo pellegrinaggio. Mi auguro che lo scriva. Avremo tutti da imparare e credo che Torres Queiruga ci sorprenderà ancora.
Ha una qualità non comune, una dote fantastica: sa comunicare il suo percorso e la sua continua ricerca.
Questa sua dote la mise in evidenza subito dopo il suo ritorno da Roma, quando, divenuto docente di teologia fondamentale all’Istituto Teologico Compostellano, iniziò a guidare gruppi di studenti nell’approfondimento anche spirituale di una verità di fede, che progressivamente assunse centralità nella sua riflessione: l’idea del Dio di Gesù, che, creando per amore, è da sempre l’unica salvezza degli uomini.
Per ripensare la risurrezione
Alcuni anni fa, mi occupai di due delle sue opere per la traduzione e per la pubblicazione: Repensar la resureccion. La diferencia cristiana en la continuidad de las religiones y de la cultura. (Titolo in italiano: Ripensare la risurrezione. La differenza cristiana tra religioni e cultura)) e l’altro:Dialogo de las religiones y autocomprension cristiana. (Titolo in italiano: Dialogo delle religioni e autocomprensione cristiana). Entrambi i libri furono pubblicati dalle Edizioni Dehoniane, la nota casa editrice di Bologna. Ne curai la revisione e tracciai un breve profilo “umano” di Torres Queiruga.
Soprattutto in Ripensare la risurrezione trovo quello che più mi interessa e sotto vari aspetti mi affascina del teologo gagliego, che gagliego è proprio tutto d’un pezzo, non soltanto perché ama scrivere direttamente in gagliego e poi tradurre in castigliano, ma perché ama la cultura della sua terra e il suo passato.
In questo libro trovo l’idea di fondo dell’uomo Torres Queiruga: il suo percorrere e scrutare le epoche storiche con la curiosità di un autentico investigatore. «Il libro – mi disse nella conversazione del marzo 2006 – è nato da varie preoccupazioni. La prima è la più immediata e vitale: il susseguirsi delle morti di persone care a mano a mano che il tempo passa.
In secondo luogo, la preoccupazione religioso-culturale: la risurrezione, appunto perché dono di Dio, non può fare la sua comparsa ex abrupto nel mondo cristiano, senza connessione con le grandi preoccupazioni religiose e le ansie fondamentali dell’uomo.
Infine, la preoccupazione fondamentale della coerenza cristologica: leggere la divinità di Gesù nella sua umanità, la differenza nella sua identità, la novità nella sua continuità.
Tutto questo richiede che si comprenda la risurrezione e la si interpreti “dal basso”: figli con il Figlio, figli nel Figlio. Come la risurrezione viene tante volte ora presentata non può essere modello e rivelazione della nostra risurrezione. Va quindi ripensata».
Tracciati carsici
Non mi è stato facile accostarmi al suo pensiero né al suo modo di procedere. Lo stile talvolta sinuoso, “carsico” – si direbbe – pensando ai torrenti del Carso della Venezia Giulia, che scompaiono sotto terra per riapparire più avanti con un’acqua tersa.
Andrés Torres Queiruga, riprendendo ancora l’immagine del viandante, muove i passi, si arresta, controlla le carte topografiche, sembra talvolta perdersi nei meandri del pensiero filosofico o teologico dei suoi autori e del suo ragionare e ricompare con una visione nitida della questione. Ma non per questo “definita” e “conclusa”, tale da non richiedere altre investigazioni.
Può sembrare talvolta un viandante senza bussola, ma è solo un’impressione perché sa tirare fuori la bussola al momento opportuno e la bussola sono le verità della fede antica e della grande tradizione, che vanno però “ripensate”, mai rinnegate. Torres Queiruga non sovverte il passato, togliendogli il legame con la Tradizione e le radici cristiane.
Come procede il teologo gagliego nel suo pellegrinaggio, dopo aver posto all’inizio la necessità di “ripensare” la risurrezione? È lui stesso a dirlo: «Lo sviluppo è stato organico: sono partito da un’idea-intuizione, che è nata dentro di me e ha preso progressivamente corpo in modo autonomo.
Ho dovuto lasciare gli schemi tradizionali e tener conto del contesto attuale. Mi sono stati di aiuto due fattori: la mia idea di rivelazione, intesa non come qualcosa che viene dal di fuori, ma che nasce dal di dentro – una sorta di maieutica socratica – e la mia preoccupazione di considerare seriamente il cambiamento di paradigma imposto dalla rivoluzione della modernità».
Il viandante Torres Queiruga procede dopo avere scrutato il passato e interrogato la storia e la cultura in tutte le sue espressioni. Non è un viandante improvvido, incauto e sprovveduto. Tutt’altro! Interroga non soltanto l’esterno, ma chiama in causa soprattutto l’interiorità, sulla quale il teologo gagliego è bene documentato. Il pellegrino arriva a far tacere l’esterno per sentire la voce del profondo. Ovviamente, il profondo dell’uomo contemporaneo, che ha bisogno di nuove strade per arrivare a dirsi “figlio nel Figlio”.
Siamo “quasi” giunti alla meta, che il pellegrino – Torres Queiruga si era prefissata. È arrivato a scoprire che la risurrezione non va intesa come una «miracolosa rianimazione» di un cadavere, ma nel suo carattere «non mondano» e trascendente. I trattati teologi attuali – osserva – cadono nella trappola positivista di cercare prove “fisicistiche” nel sepolcro vuoto e nelle apparizioni. Il pellegrino è illuminato da una verità: lui, “il primogenito dei morti”, ci ricorda che noi risuscitiamo già alla morte; che il male è vinto; che nella liturgia dei defunti celebriamo la morte e la risurrezione di Gesù Cristo insieme con la nostra.
Tramonto e aurora
A questa verità fondamentale, che propone all’uomo la strada per vincere il male che abbruttisce e scolora la vita, è giunto il pellegrinare di Torres Queiruga. È come avviene per la cattedrale di Santiago, che il calar del sole rende ancora più suggestiva e affascinante, silenziosa ed eloquente.
Ma non c’è solo il tramonto del sole che intenerisce i pellegrini che mirano stupiti la cattedrale: c’è anche l’albeggiare. Mi ha colpito la conclusione del suo articolo apparso nel numero di Concilium: Ateismo e immagine cristiana di Dio (4/2010). Torres Queiruga cita il breve saggio di J. Ortega y Gasset : Dios a la vista. Siamo nel 1926 e lo scrittore parla di epoche di oscuramento, quando pare che l’umanità si allontani per sempre da Dio, come la terra pare fuggire definitivamente dal sole quando inizia la sua marcia verso l’afelio. Ma, come il pianeta incurva la sua orbita, tornando al sole proprio da quel punto più lontano, così anche l’umanità può tornare a Dio quando tutto pare predire il contrario.
Di fatto – osserva Torres Queiruga – ci sono segni di un «ritorno del sacro». Le sue forme selvagge, anche con la negazione teorica spesso aggressiva contro la confessione cristiana, possono certo essere, da un lato, la denuncia di una cattiva presentazione e, dall’altro, lo stimolo alla teologia perché lavori, con fedeltà ma con libertà creativa, alla presentazione della nuova figura.
Forse, allora, al contrario di ciò che è accaduto con Sartre, alcuni contemporanei avranno l’opportunità di riconoscere «Colui al quale – forse innominato – la loro anima anela». (p. 67 edizione italiana di Concilium).
Ma il pellegrinaggio non finisce a Santiago, neppure a Finisterre, perché la vita è un pellegrinare fino alla meta dell’ultimo giorno, cui la fede cristiana nella risurrezione dà un senso sconvolgente. Un pellegrinare anche oltre la terra. Scriveva il poeta lusitano Camoes, al Cabo da Roca, nel distretto di Lisbona, il Promontorium magnum dei romani, estremo punto occidentale dell’Europa: «Qui…dove finisce la terra e comincia il mare» (in Os Lusiadas, canto VIII). E il mare era un’avventura per i lusitani e i pescatori della Galizia. Metteva saudade. Nostalgia della terra lasciata e desiderio di farvi ritorno. Giunse, sospinto dai venti, sulle coste della Galizia il corpo di san Giacomo apostolo. L’Europa si mise in camino, che continua.