Proviamo per un attimo a uscire dal contenitore a cui si riferisce il linguaggio, necessariamente scarno e giuridico come quello di un motu proprio (Summa familiae cura) che vuole dare un nuovo ordinamento a un’istituzione ecclesiale (in questo caso il Pontificio istituto Giovanni Paolo II per Studi su matrimonio e famiglia), e a fare un piccolo esercizio di immaginazione rispetto alla più ampia istituzione del sapere teologico. Credo che si tratti di qualcosa di necessario per riuscire a rendere non solo ragione ma anche onore al recente documento in merito di papa Francesco.
Esso rappresenta, infatti, un deciso investimento da parte dell’attuale vescovo di Roma nei confronti della teologia, da un lato, e lascia trasparirne una precisa idea e profilo, dall’altro. Su questo, testo e persone coinvolte definiscono un quadro unitario che deve essere colto in quanto tale.
Genesi della teologia
La teologia viene rimandata alla sua genesi in quello che è «un ulteriore percorso sinodale» della Chiesa cattolica rispetto al vivere concreto degli uomini e delle donne del nostro tempo. Facendo di questi due ambiti reali il luogo della prova di una millenaria sapienza teologica che sa, fin dagli inizi, di doversi proprio a essi.
La teologia non può prodursi in una camera asettica, senza storia e senza spessore, impermeabile al sentire condiviso della fede. Deve avere l’intelligenza di integrarne le divaricazioni per rendere evangelicamente coerente una parola sapienziale da sempre destinata al comune vivere umano di tutti. Fragile, anche nelle sue dedizioni più coerenti e appassionate – come Paolo non si vergogna di ammettere.
Dar prova che lo stesso discorso apostolico ha il suo luogo proprio in «vasi di argilla» è la forza inedita della parola cristiana. Senza timore né tentennamenti. Quando sa aderire a questo principio, la teologia può mettere in campo «il prezioso apporto del pensiero e della riflessione che indagano, nel modo più approfondito e rigoroso, la verità della rivelazione e la sapienza della tradizione della fede, in vista della sua migliore intelligenza nel tempo presente».
Collaboratori del desiderio di Dio
Il desiderio di contemporanea prossimità del Dio di Gesù al vissuto reale degli uomini e delle donne chiede, alla teologia e alla Chiesa, l’abilità di attraversare realmente il «cambiamento antropologico-culturale, che influenza tutti gli aspetti della vita»: non di osservarlo in maniera distaccata da uno spazio sicuro e immune, nel quale si cerca più la protezione delle proprie insicurezze che una fedeltà storica alla notizia evangelica di Dio.
Accentando in questo l’azzardo originario del Dio che dà la vita volendo bene, passione inscritta fin dal principio nella trama delle Scritture. Il richiamo alla «fondamentale alleanza dell’uomo e della donna per la cura della generazione e del creato» non è semplicemente una bella immagine retorica per dire altrimenti il medesimo che coltiviamo nell’orto concluso dei nostri discorsi senza destinatari.
La migliore intelligenza possibile
Si tratta, piuttosto, di ritessere il filo del legame, troppe volte affermato ma scarsamente praticato, fra la teologia del testo biblico e la migliore intelligenza di cui può essere capace la fede in un determinato passaggio della storia reale delle donne e degli uomini.
In questo scarno documento, se solo volesse, la teologia può trovare pane per i suoi denti; oppure, può rivelarsi in tutta la sua vecchiaia, mostrandosi incapace di masticare il cibo che la tiene in vita.
Questo lavorio è competenza propria delle teologhe e dei teologi di professione, non certo di chi è chiamato al timone della barca di Pietro – a cui, evangelicamente e storicamente, sono richieste altre competenze. Non si può essere tutto, perché inevitabilmente si finisce per fare male le cose.
Riconoscerlo e affidare a ciascuno il suo (carisma, vocazione, professionalità), lasciandogli debito spazio, non può che far bene a tutta la comunità dei fratelli e delle sorelle nel Signore.