Meriterà di tornare con più calma, e maggiori dati disponibili, sulle elezioni federali tedesche di domenica scorsa. Già a caldo, comunque, si può cercare di mettere mano a qualche riflessione non meramente retorica.
Il dato più evidente è la regressione dei voti confluiti verso i due grandi partiti popolari storici: la CDU di Merkel e la SPD, che ha scelto fin dall’inizio un candidato debole e incolore come Schulz per due probabili ragioni (entrambe prevedevano una sconfitta, ossia l’impossibilità di proporsi come partito guida nella formazione del nuovo governo federale).
SPD: la necessità di reinventarsi
La prima, non avveratasi, era quella di permettere un rapido cambio al vertice del partito dopo una sconfitta decorosa per consentire di entrare nella fase delle trattative per una nuova grande coalizione da una posizione che non coincidesse con quella della sconfitta.
La seconda, già ventilata dallo stesso Schulz nelle prime ore del conteggio delle schede, era quella di non avere una figura forte alla guida del partito, in caso di risultato disastroso, per poter mettere mano a una profonda revisione politica e personale della SPD. Compito a casa che è stato annunciato anche se nessuno sa davvero come svolgerlo.
CDU: interpretare il calo di voti
Sul versante CDU non bisogna lasciarsi immediatamente catturare dal calo percentuale rispetto alle elezioni del 2013. Il 41,5% di allora fu un risultato anomalo e inatteso, coincidendo tra l’altro con l’uscita della FDP dal Bundestag.
Il 33% di queste elezioni (il peggiore risultato dal 1949) non può certo soddisfare in vista del futuro, avendo in parte la caratteristica di un voto di fiducia ad personam espresso nei confronti di Merkel.
Parte di questa perdita di consenso è stata investita nella «resurrezione» della FDP a livello federale, segnalando una preferenza di parte del ceto conservatore per la fine di altri quattro anni con una grossa coalizione al governo. La distribuzione dei voti finali non permette però una tradizionale coalizione CDU-FDP.
A questo ha contribuito anche l’esito non propriamente felice della tornata elettorale in Baviera, ossia la strategia scelta dalla CSU negli ultimi quattro anni per regolare il proprio rapporto interno con la CDU di Merkel. Avvicinarsi alla retorica politico-nazionale della AfD non produce buoni risultati per la tradizione politica conservatrice tedesca.
L’AfD e le due Germanie
Il prepotente ingresso della AfD in Bundestag con il 12,6% potrebbe rappresentare una benedizione per tutto il paese. Per la prima volta dopo la Riunificazione la Germania ha preso consapevolezza di un tabù taciuto da tutti per quasi un trentennio: ossia l’esistenza reale ed effettiva di due Germanie.
Nei Länder della ex-DDR, infatti, il partito della destra-nazionalista ha ottenuto consensi di tale portata che non permettono più di passare sotto banco il problema di una riunificazione politica e burocratica, ma non civile e culturale.
In ogni caso, per la prima volta dopo il 1961, un partito di destra-nazionalista siede nella civile arena politica del Bundestag tedesco (se solo pensiamo ai dibattiti parlamentari italiani). La possibilità di un degrado linguistico e civile dell’attività parlamentare nel corso della futura legislazione è lì accovacciata ai piedi di tutti i partiti.
Potrebbe non essere scontata però. La complessità istituzionale delle procedure parlamentari ha già assorbito in passato l’ingresso di partiti atipici (basti pensare ai Verdi) o naturalmente fatto implodere mere rappresentanze di protesta anti-sistemica (Piraten).
L’AfD ha quattro anni di tempo per trasformare una situazione congiunturale, sfruttata fino all’ultima goccia, in una politica sistemica capace di attestarla come rappresentanza di lunga durata. Rispetto a questo, le spaccature e conflittualità interne non giocano a suo favore in questo momento. E, dopo il momento di gloria, potrebbe esplodere una sorta di regolamento interno di conti che non farebbe bene al partito.
Coalizione inedita
Rimane l’incognita dei tempi e della strutturazione contenutistica della prossima coalizione di governo. Con la chiamata all’opposizione della SPD anche la Linke (9,2%) si ritrova necessariamente nella medesima posizione, senza neanche bisogno di dirlo.
Rimangono i Verdi (8,9%) che, però, hanno già annunciato una consultazione della base, come fece la SPD nel 2013, per quanto concerne una coalizione con CDU e FDP.
Questo allunga necessariamente i tempi della costituzione del governo (nel 2013 si arrivò quasi fino a Natale) e rende complicata la trattativa per la stesura del patto di coalizione. L’indebolimento interno della CSU e la fragilità di un partito come la FDP, che sa non solo di essere risorta dal nulla ma di poterci ripiombare in tempi brevi, potrebbero rinforzare Merkel nella strategia di costruzione di una coalizione inedita per la Germania.
Fallire in questo, dato che Merkel ha già annunciato di non voler formare un governo di minoranza, e quindi tornare alle elezioni, sarebbe probabilmente la prospettiva peggiore: non solo per i tre partiti dell’eventuale coalizione, ma anche per tutti gli altri (AfD compresa).
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