La prima volta che ho avuto una qualche esperienza diretta con la questione catalana è stato nella prima metà degli anni Ottanta. Un amico del mio gruppo in oratorio ospitò per qualche settimana una ragazza spagnola.
Non ricordo molto di lei e di quei giorni passati, solo che molti tra noi ci invaghimmo di lei. In effetti era una ragazza dotata di un suo fascino; e, per quel poco che riuscivamo a comunicare, parlammo di politica, scuola, impegno, militanza (eh sì, allora si usava ancora quella parola, anche in un grande oratorio milanese ai tempi di Martini).
Milano: primi anni Ottanta del XX secolo
Lasciò in regalo al nostro amico un disco, che poi noi tutti ascoltammo fino alla nausea. Forse per vincere la nostalgia e la melanconia di un fugace incontro. Ovviamente le nostre compagne di gruppo colsero la palla al balzo per infierire senza pietà sul nostro rincitrullimento (spostare il punto di attrazione degli ormoni può essere fatale a quell’età…).
Era di un cantautore a noi totalmente sconosciuto; dei testi capivamo poco o niente, se non quelli che si rifacevano a delle poesie di Kavafis di cui circolava una traduzione italiana su cui riuscimmo a mettere le mani. Mi ci vollero parecchi mesi per venire a capo dell’invaghimento per la ragazzina spagnola e per comprendere fino in fondo la ragione del suo fascino.
Che, in fin dei conti, era tutta racchiusa lì – in quel vinile, che piratammo prontamente in una serie di cassette da distribuire tra noi (sempre lato maschile del gruppo, s’intende). Armato della traduzione di Kavafis in una mano, e di un inutile dizionario spagnolo-italiano nell’altra, iniziai ad addentrarmi nei testi del misterioso artista, unica traccia rimasta della bella spagnola.
Per qualche settimana non riuscii a comprendere bene perché la traduzione delle poesie di Kavafis mi aiutasse molto più del dizionario. Passino i verbi, ma almeno qualche sostantivo sarei dovuto riuscire ad azzeccarlo. Ogni tanto funzionava, ma qualcosa sembrava continuare a non andare. Internet avrebbe risolto tutto in un attimo, ma ahimè allora non era nemmeno un sogno per noi. Armato di santa pazienza, cosa non si fa per l’infatuazione di una primavera, e col nome dell’autore del 33 giri me ne andai in biblioteca.
La lingua e il regime
Prima buona notizia: non ero completamente scemo, c’era una ragione nella lotta col dizionario. Seconda buona notizia: il misterioso artista, di cui conoscevo solo il nome, uscì dall’oscurità di una storia di cui ricordavo solo vagamente qualche immagine alla televisione e una manciata di commenti dei mei durante le cene.
Taglio sul passato, ma un paio di informazioni possono aiutare. L’album si intitolava Viatge a Ítaca ed era di Lluis Llach. La lingua (catalana) come forma di resistenza (al regime di Franco) e di affermazione di una storia e di una cultura davanti alle omologazioni e censure del potere. Almeno così mi sembrò allora, scorrendo fra righe e musica de L’Estaca, composta da Llach nel 1970.
Credo che fosse stata proprio la fierezza leggera di un’appartenenza così radicata, quasi ancestrale, tramandata di generazione in generazione per tutto il tempo della dittatura di Franco, ciò che ci affascinò, senza averne la più pallida idea, di quella ragazza apparsa e scomparsa dalle nostre vite (per farvi un’idea del legame tra Llach e Barcellona guardate il video seguente).
Bologna: 25 settembre-1 ottobre 2017
Ho passato alcuni piacevolissimi momenti durante questa settimana, per lo più conviviali, in compagnia di due ragazzi catalani di Barcellona venuti a Bologna per due semestri di Erasmo. Nella passione e nella consapevolezza mi hanno ricordato i tratti di quella ragazza che incontrammo più di trent’anni fa a Milano.
Preoccupati per quello che sta succedendo a casa loro, lacerati dal fatto di essere qui e non là dove invece desidererebbero. Entrambi indipendentisti convinti, senza violenza o preconcetti cotti in salsa banale. Un po’ inconsapevoli del tutto, ma questo lo dico io che sto tra Flensburg e Bologna e ho trent’anni più di loro.
Non pensavo certo così della ragazza spagnola che ci introdusse a Luis Llach. Era, letteralmente, un altro mondo e non c’era l’Europa. Il primo viaggio all’estero fatto da un gruppetto di noi dell’oratorio, destinazione Francia, si rivelò facilissimo da organizzare nella logistica e una selva inestricabile per quanto riguardava la modulistica… (a cui provvidero le mamme, così da essere sicure che partissimo con i documenti per un soggiorno di turismo all’estero e non con quelli per il permesso di lavoro…).
Ma torniamo ai nostri due ragazzi catalani a Bologna. Della loro lingua, e della loro terra, parlano con affetto e amore sincero: un senso di appartenenza a una storia, a una cultura, a un modo di stare dentro la vita del paese spagnolo. Diverso, forse anche distinto, ma non necessariamente alternativo – eppure è a questo che sono arrivati anche loro.
Moderati nei toni e capaci di articolare le ragioni del loro sentire, che puoi anche non condividere o mettere in questione, ma che non mi sentirei mai di definire il risultato di un indottrinamento. Sarebbe riduttivo, c’è qualcosa di più profondo e radicato nei loro volti, nella pacatezza appassionata della loro parola.
Un patrimonio da non disperdere, comunque vada a finire il caos politico e istituzionale in cui si sono ficcate Barcellona e Madrid.
Pensieri di viaggio
Oggi ho passato tutto il mio viaggio da Bologna a Flensburg con i loro volti impressi nella mente. Pensando alle loro ragioni e alle loro parole; ma pensando anche a quello che non riescono a cogliere fino in fondo. E noi, tutti noi, con loro. Questi due ragazzi, simpatici e belli nello starci insieme, sono, oserei dire nella stessa misura, catalani ed europei.
Hanno conosciuto l’amico che li ospita finché non trovano una stanza in città (a prezzi scandalosi) non so bene attraverso quale giro. Forse durante il suo Erasmo a Madrid (paradossi della vita), forse sul Cammino di Santiago, o forse quando se ne è andato in Irlanda per un anno a lavorare tra ostelli e fattorie. Oppure sono amici di amici che ha conosciuto in questo suo peregrinare nelle terre d’Europa.
Questa geometria europeista, spensierata, senza trafile burocratiche interminabili, fatta di FlixBus e Low-cost, di treni e autostop, è parte integrante del loro vivere e del loro modo di essere. È il tessuto delle loro relazioni, che solo Dio sa come riescano a tenerle vive dalla Finlandia alla Grecia. Ogni tanto ti spariscono di casa per riemergere, da metterli subito sotto la doccia, nella casa di una famiglia a Montpellier o a Praga, oppure in una qualche altra città europea.
L’Europa come destino fragile e prezioso
Questa risorsa dell’Europa è ciò che dovremmo raccontare loro perché non se la facciano scappare dalle mani nel momento stesso in cui vivono di essa. Perché non siano solo opportunità usa-e-getta da sfruttare, ma qualcosa che ci appartiene e di cui siamo fieri. Qualcosa che ci unisce tutti in un destino comune, capace di ospitare la storia e la lingua di ciascuno.
Che nessuno lo abbia fatto, anzi, che quasi tutti lo abbiano taciuto e continuino a tacerlo in questo momento, non è colpa loro. È la grande responsabilità della mia generazione, che è stata del tutto incapace di introdurre i nostri ragazzi alla narrazione di questo spazio europeo di vita quotidiana in cui sono completamente immersi.
E di questo non è stato capace neanche Llach, che pur aveva sia l’esperienza (esule a Parigi) che l’arte del linguaggio per aiutare le giovani generazioni catalane di oggi a dire il patrimonio della loro cultura in quell’orizzonte più ampio di vita e di lingue che chiamiamo Europa – perché in essa il 2017 non è davvero più il 1970…