Profezia e apocalittica
I cc. 24–27 del libro di Isaia non sono attribuibili al profeta storico dell’VIII sec. a.C., ma risalgono alla tradizione che a lui si ispira e che lo attualizza.
Nel passaggio dal tempo anteriore dell’esilio (586 a.C.) a quello successivo (dopo il 538 d.C.), il genere letterario della profezia, col suo tono personale, segnato dall’oralità e teso a illustrare la salvezza nel presente della storia previa la conversione del cuore, cede il passo lentamente al genere letterario dell’apocalittica.
Essa adotta un tono più impersonale, si serve di testi scritti ed è tesa a illustrare il destino finale della storia, l’eschaton o l’imminenza della fine. Essa è predeterminata da Dio e prevede una lotta aspra fra le potenze del male e quelle del bene a livello celeste, che hanno entrambe i loro corrispettivi agenti terreni.
Solo Dio, con la sua forza immensa, riuscirà a portare la salvezza. Se, ad una prima vista, sembra che l’apocalittica rivesta un tono più pessimistico della profezia riguardo al presente (il male sembra avere il sopravvento), tuttavia si apprezza il fatto che l’intervento risolutore di Dio è aperto ai confini di tutta la terra, coinvolgendo tutti i popoli nella vittoria sul male.
Secondo alcuni studiosi, ad esempio Alberto Mello, i quattro capitoli di tono apocalittico di Is 24–27 (chiamati anche “la grande apocalisse”) possono essere compresi sotto il tema del “giudizio universale”. Essi prevedono nei cc. 24–25 una parte più “decostruttiva” (pars destruens), che illustra la distruzione di un’imprecisata “cittadella del nulla”. Nella seconda parte – i cc. 26–27 –, più “costruttiva” (pars costruens), si parla della costruzione di una “città forte” (26,1), espressamente identificata con Gerusalemme.
Non è errato, però, compiere anche un’operazione di sovrapposizione delle immagini e dei quadri, contemplando nell’(auto)disfacimento di un certo mondo conflittuale e caotico la costruzione progressiva di un mondo nuovo, stabile e pacifico.
Il banchetto “divino”
Dopo un inno di ringraziamento (Is 25,1-5) innalzato da un giusto che loda YHWH per aver trasformato “la città” in un mucchio di pietre, la cittadella fortificata in un ammasso di rovine (v. 2), dimostrandosi in tal modo la forza del debole e del povero nell’angoscia (v. 3), la “grande apocalisse” di Isaia arriva al suo culmine. La conclusione della storia sarà una straordinaria vittoria del bene sul male, nonostante le apparenze al presente contrarie.
Per descrivere questo, Isaia si serve di tre immagini che colpiscono la nostra immaginazione e i nostri sentimenti: un banchetto “divino”, lo svelamento e la vittoria sulla morte.
Il profeta non ha nessun imbarazzo nel presentare la fine della storia come un sontuoso banchetto preparato da YHWH per tutti i popoli. Non tanto un banchetto imbandito come compimento di una strage e carneficina dei nemici sconfitti, ma un banchetto regale e sacrificale insieme. Il re che si installa definitivamente sul trono del potere salvifico universale allestisce un banchetto a cui sono invitate tutte le genti che salgono al monte di Sion (“questo monte”, cf. Is 2,1-5), affluendo alla sorgente della Torah, l’Istruzione di vita che YHWH ha posto in profondità nei cuori (cf. Ger 31,33).
La fine della storia come un banchetto! Un’immagine straordinaria, che non intende essere banalmente gaudente e compensatoria dei sacrifici compiuti dai popoli durante il loro cammino storico, ma che probabilmente intende descrivere un banchetto compreso come un “sacrificio di comunione” (cf. Lv 7,11-15). Una parte delle offerte sacrificali veniva riservata come oblazione per il Signore e spettava al sacerdote. Il resto veniva consumato in fraternità fra tutti gli offerenti. Si celebrava, in tal modo, la lode o il ringraziamento a Dio, rinsaldando i legami di comunione di vita che lo univano al suo popolo.
Il compimento della storia è illustrato con l’immagine di un sontuoso banchetto (mištēh), che prevede carni grasse in abbondanza – carni grasse con il midollo, si precisa –, innaffiate da vini eccellenti, invecchiati e decantati. Un banchetto consumato con gioia nel tempio, probabilmente. Niente di che scandalizzarsi, come hanno fatto alcuni puristi per il pranzo consumato con centinaia di poveri da papa Francesco nel tempio civico di San Petronio, in occasione della sua visita alla città di Bologna. La carne dei poveri è il tempio di Dio e, guardando negli occhi, si portano nel cuore, e YHWH sorride contento dei suoi figli…
Il velo e la morte
Un banchetto non si può celebrare con un “velo/lôṭ” sugli occhi. YHWH lo strapperà via dalla faccia coperta di tutti i “popoli/‘ammîm”: lo “ingoierà/distruggerà totalmente/billa‘”. Così pure viene detto del suo sinonimo, il “panno tessuto/massēkâ”, tessuto su tutte le “genti/gôyim”. Non pare essere tanto il velo del lutto (cf. 2Sam 15,30; 19,5), impiegato per asciugarsi le lacrime degli occhi. È il velo della non-conoscenza di YHWH, il Dio di Israele, il liberatore e l’amante di tutti gli uomini.
YHWH disferà il suo lavoro punitivo fatto in precedenza: «Poiché il Signore ha versato su di voi uno spirito di torpore, ha chiuso i vostri occhi, cioè i profeti, e ha velato i vostri capi, cioè i veggenti» (Is 29,10). Basta nebbia fitta (cf. Is 60,2) che alle genti non fa vedere il volto accogliente di YHWH!
Isaia rivela/fa “apocalisse” qui del compimento di ciò che era già stato annunciato in Is 2,1-5. I popoli che (fin d’ora e poi) alla fine dei giorni accorreranno al tempio del Signore in Sion, accoglieranno l’Istruzione di YHWH e vivranno finalmente nella pace. La visione della fine “rivelata” dal Signore tramite i suoi profeti illumina gli occhi e scalda i cuori con la speranza certa, non illusoria o incerta.
YHWH “ingoierà/distruggerà completamente/billa‘” non solo il velo e il panno tessuto sugli occhi delle genti, ma anche la “morte/māwet”. Probabilmente si intende dire che Dio spoglierà la morte del suo potere. Con un’altra vocalizzazione, il termine mwt/māwet può essere letto come môt, che può alludere a “Mot/mwt/Morte”, il dio del pantheon semitico che ha “ingoiato” il dio Ba‘al, prima di essere a sua volta ucciso dalla dea Anat. Secondo il testo originale ebraico masoretico, YHWH “ingoia” la morte per sempre.
Le traduzioni greche vanno oltre, e pongono la morte come soggetto. La traduzione dei LXX, della metà del II sec. a.C. afferma: “inghiottirà la morte (sogg.!) (il) essente forte” (trad. lett. Reggi); la traduzione di Teodozione (composta probabilmente fra il 130 e il 164 d.C.) – impiegata dagli ebrei rispetto alla LXX ormai “adottata” dai cristiani – recita: «la morte è stata ingoiata per la vittoria» (trad. Mello). A metà degli anni 50 nel I sec. d.C. Paolo aveva già impiegato in 1Cor 15,8 l’espressione che sarà usata da Teodozione. Is 25,8 probabilmente non annuncia in modo esplicito la risurrezione dei morti, ma per Paolo questo è un dato ormai acquisito.
YHWH, un Dio della salvezza e della vita piena, che banchetta con tutti i popoli per celebrare la vittoria definitiva sul male e sulla morte. «Ecco il nostro Dio… Questo è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci…» (25,9).
È il Padre di Gesù!
Il banchetto nuziale del re
Proseguendo il suo insegnamento nel tempio (cf. Mt 21,23), giunto ormai agli ultimi giorni della sua vita pubblica, Gesù vince la prima delle cinque controversie che lo vedono questionare rabbinicamente “in famiglia” – a tratti in modo aspro, a dire il vero – con i sommi sacerdoti, gli anziani del popolo (Mt 21,23) e i farisei (Mt 21,45).
Al racconto della prima “vittoria”, l’evangelista Matteo fa seguire tre parabole sul Regno. La terza (Mt 22,1-4) ha come immagine centrale un banchetto nuziale molto solenne: sono le nozze del figlio del re!
Gesù parla sempre del regno di Dio, del mondo che si realizza quando il Padre è lasciato regnare sui cuori e sulle società, in modo da “sconvolgere” i criteri umani di vita, per trasfigurarli in criteri “divini”,evangelici, paradossali, ma che colgono e donano la verità delle cose.
La verità profonda dei nostri giorni – e, in pienezza, quelli della nostra vita piena con Dio nel Regno definitivo – è un banchetto di nozze regale a cui tutti siamo invitati.
Il codice nuziale e regale, sontuoso e solenne, gioioso e vittorioso sulle miserie dei giorni degli uomini, è il codice fondamentale, il “codice sorgente” della relazione tra Dio Padre “re” e coloro che partecipano al suo regno di vita assecondando la sua sete di relazione nuziale. Non sono le norme, le istruzioni o le realtà da compiere ad avere il primo posto. Innanzitutto vi è l’amore tra il re, il “figlio del re” e la sposa (innominata!).
Gli inviti al banchetto sono fatti per tempo ai “chiamati/convocati/keklēmenous (cf. vv. 3.4; il verbo “kaleō/chiamare” rimanda ad “ekklēsia/convocazione/Chiesa”). Questi, però, rifiutano volontariamente.
L’ultimo promemoria è inviato tramite altri servi (oggi si userebbe un SMS promemoria prioritario). Si tratta del pranzo e dei tori del re (“quelli miei”, vv. 4bis!), degli animali fatti ingrassare appositamente per il grande evento; sono già stati macellati e tutto è pronto. Venite dunque, è l’appello accorato del re ai “chiamati/convocati”, venite alle nozze del figlio del re, non a un funerale!
La noncuranza priva di interesse e di risposta positiva (amelēsantes, con l’alfa privativo iniziale gravido di significato) a un invito di tanto onore connota gli invitati, descritti come ricurvi sugli impegni quotidiani, seppur importanti come il lavoro domestico nei campi o il commercio a livello internazionale.
L’elemento paradossale di alcuni invitati che fanno violenza o addirittura uccidono i servi che portano l’invito spinge il lettore a pensare simbolicamente a YHWH, che sempre e premurosamente ha inviato lungo la storia i suoi profeti a chiamare alla conversione e alla festa il suo popolo eletto (cf. Ger 25,4, 26,5; 44,4: «Vi ho inviato con assidua premura tutti i miei servi, i profeti»).
Il banchetto nuziale del figlio del re non si svolge solo al termine della storia (cf. il profeta Isaia nella Prima Lettura), ma durante la vita degli uomini.
Il v. 7, con la reazione violenta del re che fa uccidere dalle sue truppe gli assassini dei suoi servi e fa bruciare la loro città, è un elemento paradossale e incongruente con il racconto, che proseguirà con l’invito pressante ad altre persone al pranzo che era (e rimane!) pronto (e caldo).
I gesti violenti del re offeso a morte sono perfettamente compatibili e comprensibili nel tempo di Gesù: così si devono comportare – e di fatto si comportavano – i re che volevano farsi rispettare! La parabola deve narrare una storia fittizia credibile e dai tratti abituali agli ascoltatori.
Non è detto, però, che tutti e singoli i particolari si debbano o si possano applicare al referente esterno al racconto, Dio Padre e re in questo caso. La parabola non è un’allegoria, e quindi, anche se ci può essere un’allusione alla distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. da parte dei romani, non si deve necessariamente vedere in questo tratto paradossale la giusta punizione da parte di Dio Padre nei confronti degli ebrei che non hanno creduto in Gesù! Sarebbe un’interpretazione scorretta, fuorviante e radicalmente pericolosa – compiuta purtroppo da non pochi interpreti del passato –, che ha concorso a creare le radici di quell’antigiudaismo sfociato poi nella tragedia della Shoah nel XX secolo.
Il re ha abbondanza di servi e grandezza di cuore. E il suo cuore piange a vedere i suoi beni, deperibili, come l’amore fresco e non congelato, non goduti dagli invitati che lui stimava, ma che si sono rivelati nei fatti “ouk… axioi/indegni/non all’altezza/senza la capacitas giuridica necessaria”.
Radunarono tutti
Ed ecco la sorpresa, il secondo tratto paradossale. Il re manda i suoi servi ai crocicchi delle strade fuori della città, nelle periferie locali ed esistenziali, a chiamare tutti gli uomini che avessero incontrato.
Probabilmente un re normale (storia fittizia credibile!) non avrebbe fatto questo. O avrebbe dato da mangiare le pietanze ai suoi stessi servi e agli animali, o avrebbe gettato via tutto preso dalla rabbia. Forse avrebbe potuto intenerirsi e inviare le pietanze a tutti i suoi sudditi, specialmente ai poveri.
Ma egli fa qualcosa di più, una cosa strana e inaspettata, “innaturale”. Egli invita indiscriminatamente le persone nella sua reggia. È un re “strano” e misericordioso, potente e autorevole certo, ma che si lascia vincere dalla gioia di far partecipi le persone della festa nuziale del figlio.
I suoi servi condividono il cuore di questo re, e usciti (v. 10), “radunano/synagō” (il verbo da cui deriva “synagōgē/sinagoga”) tutti coloro che trovano, indistintamente, cattivi (menzionati per primi!) e buoni.
La sala da pranzo nuziale “fu riempita/eplēsthē” – per pura grazia: passivum divinum alla lettera! – di invitati comodamente “sdraiati/anakeimenous” sui cuscini e sui tappeti del re.
L’invito alla festa di nozze, la festa dell’amore e dell’apertura alla vita, è fatto indiscriminatamente a tutti gli uomini. Il cuore nuziale del re è aperto totalmente ai suoi invitati (la sposa mai nominata?).
Questo è strano e, al limite, insopportabilmente scandaloso per qualcuno, anche oggi. Ma questo è il dato primario, il codice sorgente, il flusso preveniente e immeritato dell’amore di Dio Padre e re. Lui fa uscire i suoi servi per invitare le persone a uscire dalla banalità del quotidiano vissuto senza la gioia e senza una grande apertura mentale e di prospettiva esistenziale. Li invita a entrare nella gioia dell’amore nuziale che riscatta e trasfigura il quotidiano, riempiendolo di senso, di gioia, di speranza che sorregge il cammino.
Ci sarà tutto il tempo per tornare al duro lavoro, ma intanto si goda dell’allegria delle nozze, della comunione conviviale, degli sguardi d’amore degli sposi, della gioia che sprizza dagli occhi del padre del re, e dal re in persona.
La chiamata è colma di grazia, la risposta richiede responsabilità personale. Nessun automatismo nella vita delle relazioni, nella vita profonda che colora di senso la vita quotidiana.
L’evangelista Matteo, pastore premuroso e attento, aggiunge, come altre volte, un’applicazione della parabola, che recupera correttamente un aspetto di verità della stessa, ma che non necessariamente si pone lungo il filo principale del discorso parabolico originario di Gesù.
L’invito della grazia indiscriminata e immeritata va accolto, ma la responsabilità del proprio “agire conforme/vestito” (simbolo antropologico di tutto l’uomo) alla gioia nuziale, che si vuole far durare per sempre, richiede corrispondenza cuore a cuore, gioia a gioia, vita a vita.
Probabilmente, il vestito di nozze veniva prestato sul momento a chi non l’aveva. È richiesto però almeno lo sforzo minimo di indossarlo, appropriandosi della verità della gioia nuziale di comunione.
L’evangelista e pastore Matteo ricorda la possibilità di perdere per propria negligenza di vita la gioia delle nozze, andando incontro liberamente fin d’ora (e non solo alla fine!) a una misera sorte di triste solitudine.
Molti/Tutti sono chiamati, pochi sono eletti, ricorda il pastore Matteo, applicando ecclesialmente l’annuncio evangelico di Gesù primariamente gratuito, universale e gioioso. Un’applicazione ecclesiale corretta e giustificata da parte dell’evangelista pastore, ma che non deve avere il sopravvento sull’annuncio evangelico che apre i cuori all’accoglienza gioiosa, che innescherà un cammino di conversione spontanea dovuto al contagio della gioia, non alla freddezza di una norma o della dottrina.
La richiesta ecclesiale del pastore Matteo è corretta. Il vangelo della grazia ha però sempre il primato.
Dio Padre e re che esce a invitare gli uomini a festeggiare nella sua reggia la gioia delle nozze del figlio (con la sposa innominata, rappresentata dagli invitati stessi) è il cuore straordinario del vangelo. Papa Francesco non manca di attualizzarne il contenuto con alcune parole e molti gesti (che scandalizzano solo chi vuole scandalizzarsi).
Uscire per chiamare tutti alla gioia. Il resto verrà di seguito, per contagio.