Prosegue la ricca riflessione che don Francesco Cosentino sta sviluppando per i lettori di Settimana News sul tema della crisi del prete. Qui i suoi interventi precedenti: La crisi del prete. Si può fare diversamente? (2 luglio); La crisi del prete. Accettare “lo scarto” (14 luglio); La crisi del prete. “Non lasciateli soli”! (3 settembre); La crisi del prete. La paura di “perdere il centro” (27 settembre).
Decentrarsi e condividere la missione apostolica con un laicato maturo – una sfida ecclesiale che non possiamo più rimandare – significa iniziare a rielaborare il ministero sacerdotale nella sua specificità. Altrimenti detto – per continuare le precedenti riflessioni – ci si può chiedere: cosa compete al ministero sacerdotale?
Radunare nella fede
Il ministero sacerdotale deve riflettere il ministero dell’unità che ha il suo fondamento in Cristo, sacramento primordiale del Padre, mandato a «radunare» e «convocare» l’umanità. L’essenziale del ministero presbiterale, perciò, riguarda quelle azioni che mirano appunto a radunare nella fede il popolo di Dio: l’evangelizzazione, la celebrazione dei sacramenti e in particolare dell’eucaristia, il servizio di accompagnamento della vita dei fratelli insieme al ministero di comunione che favorisce anche un’autentica promozione umana.
Le circostanze cambiano a seconda della cultura del luogo e della specifica situazione ecclesiale, ma, tuttavia, il filo rosso del ministero del prete potrebbe essere sintetizzato così: dare il primato alla Parola e all’annuncio del Vangelo perché susciti, motivi e sostenga la fede; essere l’animatore dei diversi carismi della comunità – animare non è gestirli con autoritarismo – perché essa cresca nell’unità; avviare un discernimento simpatetico, cioè empatico e allo stesso tempo critico, sulla realtà che lo circonda, così da diventare un accompagnatore attento del vissuto umano della gente, specialmente dei poveri.
Da questa specificità ministeriale, nasce una fisionomia particolare di prete:
- Il prete come uomo dell’ascolto della Parola, per essere poi pronto ad annunciarla e metterla in circolo nella vita della comunità (non solo nell’omelia domenicale, ma nella catechesi, nelle famiglie, nei condomini, nei quartieri e così via).
- Il prete come uomo della comunione, che entra in relazione con i fratelli, discerne i loro carismi e stimola il progressivo movimento all’unità, soprattutto attraverso la grazia sacramentale.
- Il prete come uomo del discernimento pastorale e culturale, che diventa capace di interpretare il vissuto delle persone e di aiutare loro stesse a partecipare alla trasformazione della propria esistenza, ma anche della storia e delle sue strutture. In tale ambito, si ricordino i continui richiami di papa Francesco sull’urgente necessità di pastori che non si irrigidiscano in schemi precostituiti in cui la norma prevale sulla persona, bensì di preti che accompagnano, ascoltano, illuminano e offrono alle persone strumenti adeguati per poter «riconoscere» ciò che si muove nel loro cuore e nella loro vita quotidiana, rendendoli capaci di scelte mature, autentiche, libere ed evangeliche.
Se volessimo dirla in negativo, toccando qui un altro aspetto della crisi del prete, potremmo affermare con Greshake che «non appartiene al ministero sacerdotale la direzione dell’attività organizzativa, l’amministrazione delle finanze, l’esecuzione di opere edili, la gestione di istituzioni ecclesiali come scuole materne, case di riposo e simili. Tutto questo può essere lasciato ai laici. E che questo sia possibile deve garantirlo la guida della diocesi. Non può essere che da una parte ci lamentiamo della scarsità di preti – che, a mio parere, non esiste – e, dall’altra parte, non si creino le condizioni affinché i preti vengano liberati da tutti i compiti che non derivano dal ministero ordinato e dalla missione sacerdotale» (G. Greshake, «Il ministero sacerdotale in una Chiesa in trasformazione», in Rivista del clero italiano 1[2010], p. 21).
Conseguenze sulla formazione
Vi sono alcune conseguenze concrete, che ricadono sulla formazione sacerdotale e devono investire tutte le migliori energie, sia a livello diocesano che nei seminari.
La prima: la formazione sacerdotale deve puntare all’essenziale. Se si oscilla tra giovani-adulti privi di solide esperienze di fede antecedenti e ragazzi che sembrano più innamorati dell’apparato esteriore e di qualche abito decoroso che, invece, della sostanza dell’essere prete e pastore, allora la proposta formativa deve recuperare l’essenza, essere sobria, centrarsi su una spiritualità sana ed equilibrata, sfoltire le fronde inutili e «mettere in crisi» certe idee di prete, barocche o trendy che siano.
La seconda: la formazione sacerdotale deve favorire la comunione. Nonostante la comunità del seminario e i bei discorsi sulla famiglia presbiterale, la formazione ha ancora in mente una figura di prete «solitaria», individuale e spesso autoreferenziale. Ciascuno, in cuor suo, sa che nella peggiore delle ipotesi sarà parroco, vescovo e re nel proprio feudo. Oggi, la comunione intesa anche come disponibilità a pensare e progettare insieme, condividendo realmente stili e contenuti della missione, è dettata anche da alcune circostanze come il calo delle vocazioni; tuttavia, essa non è determinata da situazioni esterne, ma, secondo Optatam totius è un dovere del sacramento dell’ordine che riceviamo.
Vi sono esperimenti molto interessanti in tal senso, che stanno già superando le cosiddette «unità pastorali». A Bologna è stata ridisegnata la mappa della diocesi, verso un’organizzazione che non sarà più di singole parrocchie, ma per «zone» o «distretti» pastorali, cioè più comunità parrocchiali che faranno capo a una Collegiata e dovranno elaborare, coordinare e praticare insieme diverse attività pastorali. A Noto, in Sicilia, è iniziato già un esperimento di «comunità di parrocchie», dopo un cammino sinodale che ha coinvolto preti e laici; se la parrocchia continua a curare la dimensione «domestica» della fede, le comunità di parrocchie, con un parroco moderatore, si impegnano in modo trasversale sul territorio e dinamizzano l’evangelizzazione offrendo, fra l’altro, un segno efficace di spiritualità di comunione. In altre diocesi italiane, già da tempo si stanno sperimentando, con diverse modalità, alcune forme di unità pastorale.
Abbiamo molto bisogno degli altri
La conclusione, per quanto possa sembrare eccessiva, non può che essere questa: non possono essere ammessi al presbiterato seminaristi che non mostrino una spiccata tendenza al ministero dell’unità, che non siano cioè capaci e disposti a entrare in relazione con i fratelli preti e con quelli laici, che non siano capaci di lavoro comune e si rinchiudano, invece, in piccoli mondi fini a se stessi o nei propri gruppi di appartenenza. Senza una struttura umana e spirituale disposta alla sinergia e alla collaborazione, non si potrà più essere preti.
Ci basti ricordare, qui, un passaggio dell’omelia del cardinale Martini durante una messa crismale: «Mi è accaduto di dire più volte alla fine di un ritiro: “Cari confratelli, lavorate meno, lavorate meglio, lavorate più uniti, pregate di più”. A qualcuno si potrebbe anche dire: “Celebra meno messe e sta di più in ascolto della Parola”. Entrando dunque a discernere pazientemente che cosa genera fatica e paura troviamo anche le risposte possibili, i passi praticabili, le condizioni spirituali e umane più idonee a vivere il ministero. Ci apriamo con più scioltezza alla collaborazione con i laici che condividono le stesse prospettive pastorali e che ci possono validamente aiutare. Da ultimo vorrei dire che ho colto, incontrando i presbiteri nei ritiri, al di là di fatiche e disagi, anche alcune esigenze e attese. Si sente un po’ da tutti un bisogno di maggiore fraternità, di un più ampio sostegno, di nuovi sprazzi di luce… C’è l’attesa e l’esigenza di essere più sostenuti nella fede e nella sequela del Signore, in un cammino di comunione autentica che ci faccia crescere come presbiterio… Abbiamo tutti molto bisogno gli uni degli altri».
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