Autocritica del magistero e riforma della Chiesa

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Tra le più grandi novità che papa Francesco ha introdotto nel linguaggio ecclesiale brilla di luce molto intensa la chiara correlazione tra esigenza di riforma ecclesiale e necessità di una franca autocritica magisteriale. Nell’ultimo mese e mezzo una serie di documenti – due lettere “motu proprio” e un discorso – hanno potentemente rilanciato le esigenze di riforma attraverso una analisi spregiudicata della tradizione recente, senza nascondere i necessari compiti di autocritica. Potremmo dire che un elemento di grande e preziosa originalità del magistero di Francesco è quello di unire al compito critico il compito autocritico. E se la Chiesa si era specializzata da due secoli nella critica del mondo, molto più timida e a volte quasi assente era stato l’esercizio della autocritica della Chiesa, spesso confusa con il cedimento al nemico. Ripercorriamo brevemente questo percorso recente:

a) Le premesse: Evangelii gaudium, Laudato si’ e Amoris lætitia

Tutto comincia dall’inizio del pontificato. Già dalla sera del 13 marzo 2013, ma poi, ufficialmente e solennemente con Evangelii gaudium, troviamo nel suo primo capitolo una serie di prese di distanza da stili pastorali inadeguati che può essere compresa esplicitamente come una salutare autocritica con cui la Chiesa si ripensa rispetto al proprio stile. Ma altrettanto si legge in Laudato si e, ancora più esplicitamente, nel “decalogo di autocritica” (su cui mi sono già soffermato qui) che incontriamo ai nn. 35-37 di Amoris titia. Questo modo di comprendere la funzione del magistero e di mettere in questione abiti acquisiti negli ultimi decenni, appare come una vera profezia ecclesiale. Ma alla luce di questi precedenti, vediamo ora le acquisizioni più recenti di questo stile magisteriale autocritico.

b) Il MP Magnum principium e l’autocritica liturgica

Come attestano bene le resistenze esplicite da parte degli stessi organi curiali chiamati ad applicarne le disposizioni, Magnum principium prende atto di una “paralisi” che ha bloccato la normale attività di traduzione della tradizione. È stato il magistero a causare la paralisi e ora il magistero fa autocritica e rimette al centro il “grande principio” della partecipazione “intelligente” del popolo all’atto di culto. Di fronte ad un magistero che aveva consigliato di usare con molta parsimonia la espressione “assemblea celebrante”, ora la restituzione delle competenze alle conferenze episcopali riaprono le porte e le finestre della Congregazione del culto, che qualcuno vorrebbe ancora sprangare con serrature a doppia mandata e sistemi di sicurezza a prova di bomba. Le illusioni di chi aveva puntato sul primato di una “lingua non più viva” a scapito delle “lingue belle vivaci” vengono smascherate:

«A tale scopo bisogna fedelmente comunicare ad un determinato popolo, tramite la sua propria lingua, ciò che la Chiesa ha inteso comunicare ad un altro per mezzo della lingua latina. Sebbene la fedeltà non sempre possa essere giudicata da parole singole ma debba esserlo nel contesto di tutto l’atto della comunicazione e secondo il proprio genere letterario, tuttavia alcuni termini peculiari vanno considerati anche nel contesto dell’integra fede cattolica, poiché ogni traduzione dei testi liturgici deve essere congruente con la sana dottrina».

La pretesa di una traduzione “letterale” viene superata dalla descrizione, apertis verbis, delle “corrispondenze dinamiche” in cui vale la proporzione: il latino sta ad un popolo, come la lingua vernacola sta ad un altro popolo. I diversi popoli determinano una mediazione complessa e non diretta tra le lingue. Questa autocritica – che in fondo è soltanto il ritorno alla logica del Concilio Vaticano II, che Liturgiam authenticam aveva cercato di annichilire – inaugura una stagione di rinnovato dialogo tra fede e cultura, nel quale nessun sapiente pastore inglese dovrà più ripetere ad un funzionario romano: «come osa lei correggere il mio inglese?» (B. Hume)

c) Il MP Summa familiae e l’autocritica sulla teologia della famiglia

Anche sul piano della teologia del matrimonio e della famiglia, in conseguenza diretta della elaborazione di Amoris titia e del suo “decalogo di autocritica” (cf. supra), era inevitabile che si provvedesse a correggere quel centro di massimalismo teologico che da decenni era rappresentato dall’Istituto Giovanni Paolo II. Il ridimensionamento della pretesa massimalistica della teologia familiare viene prodotto con una puntuale descrizione della “meravigliosa complessità” della famiglia contemporanea, irriducibile alle agghiaccianti semplificazioni a cui ci avevano abituati non pochi professori di quell’Istituto. Se leggiamo il cuore del testo, troviamo molto chiare le parole di autocritica e di nuovo orientamento:

«Il cambiamento antropologico-culturale, che influenza oggi tutti gli aspetti della vita e richiede un approccio analitico e diversificato, non ci consente di limitarci a pratiche della pastorale e della missione che riflettono forme e modelli del passato. Dobbiamo essere interpreti consapevoli e appassionati della sapienza della fede in un contesto nel quale gli individui sono meno sostenuti che in passato dalle strutture sociali, nella loro vita affettiva e familiare. Nel limpido proposito di rimanere fedeli all’insegnamento di Cristo, dobbiamo dunque guardare, con intelletto d’amore e con saggio realismo, alla realtà della famiglia, oggi, in tutta la sua complessità, nelle sue luci e nelle sue ombre.[5]
Per queste ragioni ho ritenuto opportuno dare un nuovo assetto giuridico all’Istituto Giovanni Paolo II, affinché “a lungimirante intuizione di San Giovanni Paolo II, che ha fortemente voluto questa istituzione accademica, oggi [possa] essere ancora meglio riconosciuta e apprezzata nella sua fecondità e attualità”.[6] Pertanto, sono venuto alla deliberazione di istituire un Istituto teologico per le scienze del matrimonio e della famiglia, ampliandone il campo di interesse, sia in ordine alle nuove dimensioni del compito pastorale e della missione ecclesiale, sia in riferimento agli sviluppi delle scienze umane e della cultura antropologica in un campo così fondamentale per la cultura della vita».

Le forme e i modelli del passato – con un modo di fare teologia autoreferenziale e chiuso, da scrivania o da balcone, mai da strada – debbono essere decisamente superati. Una autocritica lucidissima è la premessa per un nuovo stile, una nuova relazione strutturale non solo con la pratica pastorale, ma anche con la cultura antropologica.

d) Il Discorso alla Pontificia accademia per la vita e l’autocritica sul “prolife”

Una Humanae vitæ riletta con gli occhiali di Dignitatis humanæ: così giudicherei il grande discorso che papa Francesco ha pronunciato di fronte alla Accademia pontificia, nel quale si può leggere, con una sorpresa non priva di presentimenti:

«La fede cristiana ci spinge a riprendere l’iniziativa, respingendo ogni concessione alla nostalgia e al lamento. La Chiesa, del resto, ha una vasta tradizione di menti generose e illuminate, che hanno aperto strade per la scienza e la coscienza nella loro epoca. Il mondo ha bisogno di credenti che, con serietà e letizia, siano creativi e propositivi, umili e coraggiosi, risolutamente determinati a ricomporre la frattura tra le generazioni. Questa frattura interrompe la trasmissione della vita. Della giovinezza si esaltano gli entusiasmanti potenziali: ma chi li guida al compimento dell’età adulta? La condizione adulta è una vita capace di responsabilità e amore, sia verso la generazione futura, sia verso quella passata. La vita dei padri e delle madri in età avanzata si aspetta di essere onorata per quello che ha generosamente dato, non di essere scartata per quello che non ha più».

E ancora:

«Insomma, è una vera e propria rivoluzione culturale quella che sta all’orizzonte della storia di questo tempo. E la Chiesa, per prima, deve fare la sua parte. In tale prospettiva, si tratta anzitutto di riconoscere onestamente i ritardi e le mancanze. Le forme di subordinazione che hanno tristemente segnato la storia delle donne vanno definitivamente abbandonate. Un nuovo inizio dev’essere scritto nell’ethos dei popoli, e questo può farlo una rinnovata cultura dell’identità e della differenza».

Superare “nostalgia e lamento” – atteggiamenti che avevano superato ormai da decenni la soglia di guardia – e ammettere “ritardi e mancanze” diviene un invito a non giocare in difesa, ma all’attacco, a riprendere l’iniziativa, a considerare la vita non solo e non tanto come biologia, ma come storia e come memoria. Al fine di rispettare tanto radicalmente la “vita umana” da non poter mai pretendere di scavalcarne volontaristicamente la “dignità”.

È ovvio che queste prese di posizione, urgenti da decenni e finalmente pronunciate e rese operative, non lasciano il tempo che trovano. Anche negli animi di coloro che avevano pensato di poter identificare il cattolicesimo nella sua versione ottocentesca, antimodernista e apologetica, esse suscitano emozione, delusione e rabbia. L’aria fresca che rientra ufficialmente nella Chiesa cattolica è confortante per i più, allarmante per pochi. Ma non basta aprire la finestra e scoprire panorami impensati: ora occorre che le singole comunità assumano questa stessa postura e questa medesima prospettiva. Che attraverso una sana autocritica guadagnino nuove evidenze e altre priorità. Perché il vangelo e la fede possano tornare ad essere gioia contagiosa e forza di vita.

Pubblicato il 18 ottobre 2017 nel blog: Come se non.

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