«Sai, – mi diceva un’amica l’altro giorno – questa vostra trovata della giornata dell’islam, con l’aria che tira, ha proprio il sapore di un miracolo all’italiana!». Una considerazione, buttata lì, che ovviamente mi ha colpito e interrogato.
Quando, oltre quindici anni fa, ancora viva l’emozione per l’assalto terrorista di Al Qaeda alle Twin Towers l’11 settembre 2001, a un gruppetto di amici di cui faccio parte, che già allora erano impegnati sul versante del dialogo venne in mente che bisognava fare qualcosa, prevedendo facilmente i contraccolpi che ne sarebbero venuti alle relazioni fra mondo cristiano e mondo musulmano, sarebbe stato difficile immaginare che quella semplice trovata avrebbe ben presto preso piede, su scala nazionale. Tanto più che le giornate a tema, dedicate nel corso dell’anno a qualche argomento specifico, rischiano ormai di diventare un appuntamento scontato, a forte rischio di deriva retorica.
Il ruolo delle donne nel dialogo
Non è stato così, invece, per la Giornata ecumenica del dialogo cristianoislamico del 27 ottobre, oggi ancora in buona salute, per molti motivi. Che sarà dedicata, nel 2017, a una questione calda e strategica, il ruolo delle donne nel dialogo interculturale e interreligioso.
Se la Giornata ha saputo attraversare indenne questi anni bui, densi di paure e solitudini, pulsioni islamofobiche e chiusure mentali, non è soltanto per l’impegno di quanti ne hanno colto la portata cruciale, indubbia, ma perché, in realtà, al dialogo non esiste alternativa.
Il problema, piuttosto, riguarda cosa stia dietro questo termine e la sua praticabilità fattiva, in un orizzonte di penose strumentalizzazioni politico-mediatiche e di scarso, o nullo, ascolto reciproco.
La globalizzazione in atto, del resto, contrariamente a quanto ci si poteva ingenuamente aspettare, più che a un indebolimento delle identità (reali o immaginarie), sta conducendo a un loro irrigidimento, che non coglie sufficientemente le potenzialità positive pur presenti nell’inedito incontro quotidiano di uomini e culture che sta avvenendo nelle nostre città e paesini, e tende invece ad enfatizzare diffidenze e timori. Beninteso, reciproci.
In ogni caso, personalmente mi auguro che quest’anno sul tema prescelto si rifletta e si dibatta a fondo: perché sulla donna e sulla sua possibilità di rendere pubblico il suo originale pensiero sul mondo e sulla vita credo si giocherà una buona fetta del futuro di questo pianeta; ma altresì, nello specifico, una porzione imponente del domani di Chiese, religioni e comunità di fede, e della loro spinta al dialogo.
Una ricorrenza simbolica e reale
Questo appuntamento, avviatosi in sordina ma pian piano radicatosi a macchia di leopardo in tutto il Paese, s’ispira al fatto che il 14 dicembre 2001, ultimo venerdì del mese di Ramadan del 1422 dall’Egira, Giovanni Paolo II chiese a tutti, donne e uomini di buona volontà, nel cuore della guerra in Afghanistan, di condividere con i fratelli e le sorelle dell’islam il digiuno di Ramadan. Una pratica altrui, povera ma assai ricca d’implicazioni. Messaggio coraggioso e di alta portata, inviato ad appena un trimestre da quel terribile 11 settembre che da tante parti fu letto come l’avvio di un autentico scontro fra civiltà.
Da allora quell’ultimo venerdì è divenuto, per molti cristiani di diverse confessioni e per parecchi musulmani in Italia, la ricorrenza simbolica in cui ritrovarsi, guardarsi in faccia e rilanciare così l’urgenza di provare a camminare assieme. Nonostante tutto! Un’iniziativa, fra l’altro, unica del genere in tutto il vecchio continente…
Dal 2008, invece di svolgersi l’ultimo venerdì di Ramadan, la Giornata è stata celebrata il 27 ottobre, a memoria di quello stesso giorno che, nel 1986, vide riunirsi ad Assisi, convocati coraggiosamente da Giovanni Paolo II, molti rappresentanti delle religioni mondiali a pregare per la pace, dono di Dio. Da allora, per ragioni pratiche (la ricorrenza era mobile come il calendario islamico, e presto si sarebbe giunti in piena estate) la data del 27 ottobre rimane fissa, permettendoci di segnare in anticipo la ricorrenza nelle nostre agende.
Nel corso delle varie edizioni, con slogan appositamente ideati da un comitato promotore che ha non solo un cuore virtuale nel sito www.ildialogo.org, animato dall’amico Giovanni Sarubbi che vi ha dedicato tanto tempo e altrettanta passione, ma anche parecchie gambe locali, i momenti di incontro si sono via via moltiplicati. Con numerosi protagonisti che, semplicemente, hanno deciso di salire sul carro impervio del dialogo: da amministrazioni locali a comunità parrocchiali, da Chiese evangeliche a movimenti ecclesiali, da realtà carcerarie fino a tanti centri islamici e cani sciolti.
Pazienza e umiltà
La grande sfida che la Giornata ci mette davanti è, una volta di più, quella di evitare una lettura delle differenze esistenti, anche profonde, come uno scontro tra il bene e il male, di rifiutare la demonizzazione dell’altro. Nella consapevolezza che il rischio di farsi prendere dalla sfiducia, dalla stanchezza, dalle delusioni, è decisamente alto!
Ovviamente, si tratta di dare corpo, nella quotidianità, alla pratica del dialogo, caso serio di questa stagione: soprattutto al dialogo di vita, realisticamente, più che a quello teologico, ancora assai fragile. Educandoci, e educando le nostre comunità, le nostre città, quel che resta della vita sociale, al dialogo, attività che possiede una valenza certo spirituale, ma non solo.
In una società pluralista come quella italiana di oggi, che sta rischiando – stando a non pochi indicatori – una deriva identitaria e/o apertamente razzista, un simile percorso ha infatti una valenza esplicitamente sociale, e può servire a costruire convivenza, solidarietà civile e senso di appartenenza.
Anche perché, dopo anni in cui è apparsa quasi impronunciabile, la parola dialogo sta finalmente tornando a risuonare con una certa frequenza nel dibattito pubblico ed ecclesiale.
Archiviato il ricorrente mantra sui pericoli del relativismo, è stato papa Francesco ad aver fornito un contributo essenziale a tale svolta, con una serie di gesti e di discorsi che fanno presagire l’inizio di una nuova stagione.
Un passaggio notevole è stato il suo discorso in occasione dei cinquant’anni del Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici (PISAI), prestigiosa struttura accademica che, nel corso dei decenni, ha formato decine di preti, laici e missionari preparati, in primo luogo, al dialogo con l’islam. Che «esige pazienza e umiltà – ha detto il 24 gennaio 2015 – che accompagnano uno studio approfondito, poiché l’approssimazione e l’improvvisazione possono essere controproducenti o, addirittura, causa di disagio e imbarazzo… Forse mai come ora si avverte tale bisogno, perché l’antidoto più efficace contro ogni forma di violenza è l’educazione alla scoperta e all’accettazione della differenza come ricchezza e fecondità».
Brunetto Salvarani, Il folle sogno di Neve Shalom Wahat al-Salam. Israeliani e palestinesi insieme sulla stessa terra, Collana «Testimoni», Edizioni Terra Santa, Milano 2017, pp. 208, € 15,00.
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