Che ha da dire la Chiesa sul lavoro, nell’Italia che ancora soffre le conseguenze della crisi economica? Conosciamo livelli record di disoccupazione giovanile e abbiamo sotto gli occhi un Paese a diverse velocità. Tra Nord e Sud si consuma un divario statistico non solo per l’occupazione, ma anche per la carenza di opportunità di formazione. La 48a Settimana sociale dei cattolici si è svolta a Cagliari dal 26 al 29 ottobre e si è fermata a riflettere sul lavoro così come è indicato nel magistero di papa Francesco: «libero, creativo, partecipativo e solidale» (EG 192). Le giornate si sono sviluppate intorno a quattro tappe: la denuncia, il racconto delle buone pratiche, l’ascolto e l’attivazione di proposte. Un metodo molto apprezzato dai partecipanti, che segna una discontinuità e che può diventare uno stile sinodale nelle diocesi.
La denuncia: c’è un lavoro che come cattolici «non vogliamo». È quello che non risponde alla sete di dignità dell’uomo. Il pensiero va ai volti sofferenti di molte persone: i disoccupati, soprattutto giovani, le vittime sul lavoro, chi produce armi o inquinamento che uccide, il fenomeno del caporalato, le donne costrette a scegliere tra lavoro e famiglia, i precari… Una mostra pensata ad hoc, intitolata «Il lavoro che non vogliamo», ha accompagnato la Settimana cercando di approfondire le forme di lavoro indegno presenti sui territori italiani oggi. Il lavoro è vita: lacerano il cuore, dunque, storie drammatiche ascoltate in assemblea come quella del pugliese Stefano Arcuri, che ha perso la moglie,vittima del caporalato.Tuttavia,quando la denuncia non scade nel lamento assume i caratteri del problema che si intende risolvere.
Lavoro e dignità
In apertura, è giunto il contributodeterminante di papa Francesco, attraverso un videomessaggio. Egli ha ricordato che ci si santifica lavorando per gli altri, continuando così l’opera creatrice di Dio Padre. «Senza lavoro non c’è dignità», ha ricordato. La sua denuncia si è rivolta soprattutto nei confronti di lavori che non possono definirsi tali perché non degni e umilianti la persona. Anche il precariato genera angoscia di perdere il lavoro: «è immorale – ha concluso – uccide la dignità, la salute, la famiglia e la società. Il lavoro nero e il lavoro precario uccidono». La soluzione prospettata da Francesco sta in un nuovo modello di sviluppo, che sappia coniugare il lavoro con la cura per la casa comune, e in comunità fondate più sulla comunione che sulla competizione.
Le riflessioni successive hanno fatto prevalere il desiderio di mettere al centro le persone per superare le «chiacchiere della politica» (card. Gualtiero Bassetti) e di intercettare la necessità di un cambiamento di paradigma nel progetto di sviluppo attuale (mons. Filippo Santoro, presidente del Comitato scientifico organizzatore).
Dalla denuncia alle buone pratiche
La denuncia ha lasciato il passo al racconto delle buone pratiche. Il momento forse più coraggioso e originale della Settimana! La Chiesa ha dismesso gli abiti lamentosi e amletici del «c’è del marcio in Italia» intorno al mondo del lavoro per indossare gli occhi della speranza: «c’è del bello in Italia!». Chi se ne accorge? Si tratta di fare spazio alle novità, che sono state battezzate appunto «buone pratiche».
L’economista Leonardo Becchetti, membro del comitato organizzativo, ha presentato la sintesi del lavoro fatto in giro per l’Italia. L’esperienza dei «Cercatori di LavOro» è stata anche visitata dai partecipanti al Convegno. Numerosi bus hanno percorso la Sardegna per incontrare questi segni che parlano da sé più di mille conferenze. C’è una generatività diffusa che va scoperta, valorizzata, fatta crescere, messa in rete perché possa diventare buona pratica anche per altri.
Persino il fallimento è prezioso per capire gli errori da non ripetere: quali cause non hanno dato gambe a buone intuizioni? In Italia l’iniziativa «Cercatori di lavOro» ha coinvolto 82 diocesi. Sono state individuate più di 400 «buone pratiche» capaci di mettere in moto il settore manifatturiero, quello sociosanitario della cura alla persona e quello della valorizzazione dei beni culturali.
Parecchie di esse hanno trovato il loro alveo all’interno del Progetto Policoro, che a più di vent’anni dal suo inizio, si è positivamente strutturato in diverse parti del Paese. Queste pratiche rispondono a tre caratteristiche: la capacità di stare sul mercato, la possibilità di innescare processi sociali e produttivi al proprio interno e l’influsso benefico sull’intero territorio. Esse però non nascono dal nulla: hanno bisogno di politiche monetarie e fiscali in grado di creare le condizioni perché l’imprenditorialità prenda piede. «Il lavoro non si trova ma si crea» – ha commentato Becchetti. Per favorirlo è indispensabile rimuovere gli ostacoli, fatti spesso di burocrazia o di corruzione.
Ne deriva una cultura che innerva l’economia, secondo il saggio principio proposto da Francesco che «il tempo è superiore allo spazio». Così le narrative avvilenti del lavoro nero, dell’assistenzialismo, del reddito di cittadinanza lasciano spazio a narrative feconde arricchite di intraprendenza, di sussidiarietà e di relazionalità. Un esempio: l’attività «made in carcere», che riduce la recidiva del 70%, rappresenta un bene sociale e un risparmio per lo Stato.
Anche la visione del docufilm Il lavoro che vogliamo di Andrea Salvadoresi è inserita in questa dimensione. Presentato al Festival del Cinema di Roma, è stato salutato dal pubblico di Cagliari con unanime consenso. Il linguaggio della cinepresa aiuta a presentare il volto affascinante di chi crede nel lavoro: splendido omaggio alla creatività. Il lavoro è un miracolo quando le persone da costi diventano ricchezza, patrimonio e valore aggiunto. Allora sì che fa davvero rima con oro!
Ascolto e approfondimento
Aprire gli occhi sulle buone pratiche è servito a dare il via alle discussioni nei tavoli di analisi e di proposta. Da qui la terza tappa: l’ascolto. Ciascuno ha potuto dare il proprio contributo: ascoltare ed essere ascoltato.
Ulteriore approfondimento è giunto dal sociologo Mauro Magatti, docente all’Università Cattolica e segretario del comitato scientifico. La sua relazione ha messo al centro l’esigenza di un rinnovato patto tra le generazioni. Veniamo da un’Italia che, a partire dagli anni ’80, si è ripiegata su di sé in nome di un individualismo improduttivo. La recente crisi economica e le trasformazioni tecnologiche del lavoro esigono un cambio di paradigma. Si tratta di mettersi in ascolto dei germogli di una nuova primavera che è alle porte. È tempo di semina e non di raccolto: ci sono ragioni per sperare.
Tre strade
Di fronte al bivio che vede da una parte lo sfruttamento e la disuguaglianza perpetrata e dall’altra un nuovo modello di sviluppo, non c’è alternativa. Tre strade possono guidarci. La prima viaggia sulla capacità di tenere insieme le diverse dimensioni dell’umano: non basta né il sapere puramente teorico né solo quello pratico. L’educazione va compresa come bene comune. La seconda strada è quella di costruire un sistema favorevole a chi crea lavoro. La terza, infine, è «il passaggio dall’economia della sussistenza a quella dell’esistenza», secondo una felice espressione di Magatti: essa produce un saper-vivere e un saper-fare. Il lavoro va umanizzato. Per farlo, non basta una generica ripresa economica, ma serve uno sforzo straordinario di accompagnamento dei giovani. L’assurdo in cui ci troviamo è che, oggi in Italia, chi ha il patrimonio non investe, mentre chi vuole investire non può farlo perché non dispone di risorse. Ecco perché urge un patto tra le generazioni. I patrimoni siano messi in circolo per offrire occasioni ai giovani. Ciò vale anche per la Chiesa!
La proposta
Da ultimo, la proposta. Essa di è concretizzata in un fecondo dialogo con le istituzioni e in impegni richiesti alle diocesi e alle parrocchie. Sul primo versante, la presenza sia del premier Paolo Gentiloni sia del presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani hanno favorito l’ascolto reciproco. A Cagliari sono arrivati anche Giuliano Poletti, ministro del lavoro, e Maurizio Sacconi, presidente della Commissione lavoro al Senato.
Al presidente del Consiglio italiano sono state consegnate alcune proposte emerse nei dibattiti: la necessità di rimettere al centro i processi formativi, soprattutto al servizio dei giovani, l’esigenza di canalizzare i risparmi dei piani individuali di risparmio, il bisogno di far coniugare sostenibilità ambientale e responsabilità sociale nei contratti pubblici, la rimodulazione delle aliquote IVA delle imprese.
Al rappresentante dell’Europa, invece, sono stati affidati tre impegni: l’armonizzazione fiscale con il superamento dei «paradisi» interni all’Europa, la necessità di investimenti strutturali per sostenere il lavoro, l’integrazione nello Statuto della Banca centrale europea del parametro dell’occupazione accanto a quello dell’inflazione come riferimento per le scelte di politica economica. Si è scesi nel tecnico, ma l’esigenza di concretezza non poteva fare diversamente.
Metodo sinodale
Qualcuno potrebbe obiettare che in questo modo si sia rischiato di tornare all’epoca in cui i vertici della Chiesa italiana trattavano direttamente con le istituzioni senza la mediazione laicale. Non è così per due ragioni. In primo luogo le proposte sono state il frutto di cento tavoli di dibattito in cui tutti i partecipanti sono stati coinvolti: a dibattere c’erano giovani, laici impegnati nel sociale, preti e vescovi. Si è esercitata una sinodalità confluita poi in gruppi di lavoro e in una ulteriore riflessione conclusiva. In secondo luogo, le richieste alle istituzioni non sono state funzionali a un “interesse” ecclesiale, ma al futuro del lavoro, che riguarda il bene comune del Paese. Al centro ci sono i volti della gente, non i soli cattolici! Se in passato, le due Settimane sociali che hanno affrontato il tema del lavoro (Venezia nel 1946 e Brescia nel 1970) hanno contribuito a scrivere l’articolo 1 della Costituzione e lo statuto dei lavoratori, dopo Cagliari cosa nascerà?
Gli impegni della Chiesa
Gli impegni affidati alla Chiesa li ha sintetizzati mons. Filippo Santoro nel discorso conclusivo. Dopo aver chiesto un minuto di silenzio per le vittime del lavoro, ha invocato un impegno in favore del lavoro degno. Ciò esige una conversione culturale, che parte dalla salvaguardia della festa. La domenica è un punto fermo, se si vuole evitare che il lavoro si trasformi in idolo. Ma occorre anche continuare a tenere gli occhi aperti sulle molteplici buone pratiche disseminate sui territori italiani: è possibile creare lavoro degno in Italia.
L’impegno della Chiesa italiana ora deve muoversi supiù fronti: dal rilancio del Progetto Policoro all’aggiornamento dei Carcatori di LavOro, dalla valorizzazione del patrimonio dell’insegnamento sociale della Chiesa all’esigenza che ogni diocesi organizzi un gruppo di cattolici motivati a dare impulso alla pastorale sociale e del lavoro.
«La vita delle nostre comunità – ha esortato il presule – non può limitarsi alla catechesi, liturgia, processioni e benedizioni»! La pastorale sociale, dunque, ritrovi i giusti spazi e piena dignità nelle comunità cristiane. Da figlia di un dio minore, diventi la cartina di tornasole della passione formativa e caritativa. È vangelo che si fa carne.
Calato il sipario sulla 48a Settimana sociale, rimane una solida rete di relazioni che fa sentire ciascuno non solo connesso, ma in comunione. In questo senso, è stata esperienza di Chiesa… Parole come talenti, generativi, relazioni, creatività, intraprendenza… si sono rincorse di continuo a Cagliari. Si è aperto un cantiere per la Chiesa. La sinodalità rappresenta uno stile che è anche già un contenuto… La priorità è avviare processi. Che è come dire: generativi di tutta Italia, unitevi!