Il 29 novembre la Conferenza episcopale tedesca, nell’ambito della solidarietà con i cristiani perseguitati, ha reso noto uno studio sulla Nigeria (Arbeithilfen, n. 295). 180 milioni di abitanti, 400 gruppi etnici, uno dei più grandi produttori di petrolio dell’Africa: la Nigeria è da un decennio nei primi posti relativamente alla persecuzione contro i cristiani. Sia Open Door come Aiuto alla Chiesa che soffre, l’Istitute for Religious Fredom come il Center for Study of Global Christianity convergono nel denunciare il Nord del paese come uno dei territori più pericolosi per il cristianesimo.
Dal 2006 al 2014 sono stati uccisi 11.500 cristiani, mentre 1,3 milioni sono costretti ad andarsene dai loro villaggi e 13.000 chiese sono state distrutte. Cifre da collocare in un’emergenza più ampia, provocata dal fondamentalismo islamista di Boko Haram (la costola di Daesh nel paese): 3,2 milioni di nigeriani sono stati obbligati a migrare, 1,6 milioni all’interno del paese e altrettanti verso i paesi confinanti (Ciad, Camerun, Niger). Gli attacchi terroristici degli ultimi anni hanno provocato 20.000 morti, in gran parte musulmani.
Fondamentalismo islamico
La persecuzione anticristiana e la violenza civile sono prodotti di una lunga storia di violenze e di prevaricazioni, come anche di condizioni strutturali che veicolano le ricchezze del paese in mano a pochi e condannano alla povertà la grande maggioranza della popolazione. «Ogni anno un fiume di miliardi di petrol-dollari va nelle tasche dei politici nigeriani. Corruzione e impunità sono, accanto al terrorismo, i grandi problemi del paese».
Il paese, frutto della partizione coloniale, vede i tre maggiori gruppi etnici dislocati in diversi territori: gli hausa-fulani al Nord, gli yoruba a Sud-Ovest e gli igbo ad Est.
L’egemonia politica del Nord musulmano all’indomani dell’indipendenza (1960) ha provocato una guerra civile con gli igbo che volevano una repubblica autonoma. La ribellione (1967) fu soffocata nel sangue: due milioni di morti. La parte centrale del paese ha comunque conosciuto scontri più o meno violenti.
Lo stato è laico, ma 12 stati del Nord sono retti dalla sharia, la legge islamica.
Cristiani e musulmani si dividono in parti equivalenti il 90% della popolazione. I cattolici sono 27 milioni, gli anglicani 18. Vi sono diverse altre confessioni e sette. In forte crescita le comunità evangelicali.
I 19 stati del Nord appartenevano, fino all’inizio del 1800, alla città stato degli hausa. La conquista musulmana, caratterizzata da violenze e conversioni obbligate, ha distrutto la civiltà precedente governando per un secolo quei territori (1804-1903), col califfato di Sokoto.
Le armi del colonialismo inglese hanno occupato il territorio del Nord come quello del Sud, lasciando vittime e risentimenti. Gli inglesi hanno demandato l’amministrazione del Nord in mano ai musulmani, limitandosi a raccogliere le tasse e a garantire il controllo militare del territorio.
Se l’islam dell’800 era percepito come violento, non meno il cristianesimo del ’900 è stato assimilato al colonialismo. In particolare, la ramificata presenza delle scuole cristiane è stata percepita dai musulmani come una forma educativa anti-islamica.
Dal punto di vista dei cristiani, l’egemonia politica del Nord musulmano è vista come causa delle difficoltà che conoscono al Nord: permessi molto rari per la costruzione di chiese, cittadinanza di secondo livello, nessun rappresentante nelle assemblee legislativi locali, esclusione dall’amministrazione e dal personale militare.
La tradizionale economia nomadica del Nord della popolazione fulani, a causa della crescita demografica e dei progressivi mutamenti climatici che hanno desertificato ampie aree del territorio, hanno progressivamente spinto i greggi e i bovini a entrare nei territorio coltivati dai contadini che si vedevano ridurre sul lastrico dalla prepotenza dei pastori.
Va ricordato che la proprietà delle mandrie non è dei pastori, ma dei maggiorenti e di poche famiglie del Nord. La richiesta dei contadini di favorire l’allevamento intensivo al Nord cozza contro la convinzione dei fulani della loro libertà di pascolo. Il riarmo dei contadini ha alimentato a sua volta le violenze.
Contro le scuole
In questo contesto di tensioni ha preso avvio il movimento fondamentalista e violento di Boko Haram che porta nel nome un elemento del suo consenso: Boko Haram significa «proibizione della formazione occidentale».
Fin dal 2004, capeggiato da Ustaz Mohammed Yosuf, si oppone alle scuole cristiane e si avvicina all’ispirazione dei Talebani, dando origine ad aree di formazione paramilitare ai confini nordici del paese.
I primi attacchi sono contro i presìdi di polizia e le caserme. Come ha fatto notare Brandon Kendhammer, all’inizio il movimento ottenne consensi per la sua attività contro la corruzione e l’ingiustizia. La proposta della sharia non era direttamente contro la democrazia.
Il salto di qualità terroristica avviene nel 2009, con attacchi brutali sia verso i cristiani che i musulmani di indirizzo non salafista. Viene alimentato ad arte lo scontro etnico: le razzie dei fulani diventano sempre più pesanti nei confronti dei contadini.
«In genere, gli attacchi notturni si svolgono così: gli assalitori arrivano a notte fonda, verso le due o le tre del mattino, su convogli di pick-up che si spostano a grande velocità. Gli uomini armati cominciano a sparare con i fucili, danno fuoco alle case, cercano di uccidere tutti quelli che possono, donne e bambini compresi. In genere, tutto finisce nel giro di un’ora o due al massimo, fino all’arrivo dei rinforzi. Qualche anno fa molti di questi massacri venivano compiuti all’arma bianca, con i machete, ma negli ultimi tempi i testimoni raccontano che i terroristi sono equipaggiati sempre meglio con armi pesanti. Nasce spontanea la domanda: chi li arma? Esistono connivenze con Boko Haram, sapendo che agisce preferibilmente nel Nord-Est della Nigeria, negli stati periferici di Yobe, Borno e Adamawa? Esistono complicità politiche o persino internazionali?». I sospetti vanno sistematicamente verso l’Arabia Saudita.
«I raid dei fulani contro i villaggi di agricoltori cristiani avvengono ormai quasi ogni settimana e non fanno quasi più notizia, né sulla stampa internazionale, né su quella nigeriana, stanca di raccontare sempre le stesse storie. Gli attacchi non sono più limitati al Plateau, dove restano comunque più frequenti, ma si sono oramai diffusi ad altri stati della Nigeria centrale, come Kaduna e Benue» (Aa.Vv, Il libro nero della condizione dei cristiani nel mondo, Milano 2014, pp. 320-321).
Nel 2012 Boko Haram allarga le operazioni di guerra al Camerun e al Ciad e conosce il vertice della violenza nel 2014 con 8.000 vittime e la proclamazione del califfato. Si proclama «stato islamico» e vaste aree del Nord passano sotto il suo diretto controllo.
Lo stato centrale comincia a reagire nel maggio del 2013 dichiarando guerra al fondamentalismo, ma inizia a prevalere solo nel 2016. Boko Haram ricorre agli attentati compiuti da minorenni e da bambini. In quanto movimento fondamentalista rifiuta ogni pluralismo, qualsiasi diversità di stile di vita e un’assoluta fedeltà alle norme coraniche. Gli effetti reali sono l’impoverimento, la mancanza di formazione scolastica, l’allargamento della crisi democratica ed economica.
Sostegno alle vittime
Il positivo e democratico passaggio di consegne alla presidenza della repubblica, da Goodluck Jonathan (cristiano) a Muhammad Buhari (musulmano) e il maggiore impegno delle forze armate costituiscono segnali positivi.
Una buona parte della dirigenza islamica e i vescovi cristiani sono in prima fila per ricucire relazioni e alimentare dialoghi. Tutte le iniziative cristiane sono indirizzate alle vittime, a prescindere dalla loro appartenenza religiosa. Ma questo non elimina la fatica e i risentimenti di quanti sono colpiti.
Come fa notare nello studio il vescovo di Sokoto, M. Hassan Kukah, è difficile invitare al dialogo chi per due o tre volte all’anno si trova coinvolto in uno sconto o in un conflitto che rimane impunito. «La nostra gente vede sui giornali le foto di imam e vescovi sorridenti che si tengono per mano, che si battono le mani sulle spalle, che bevono insieme un te o che festeggiano insieme la fine del digiuno. L’esperienza quotidiana della gente comune non è di questo tipo».
Per questo il dialogo interreligioso non è solo una volontà, ma una necessità, come ricorda il vescovo di Bamberg (Germania), Ludwig Schick. «Una coesistenza religiosa pacifica – annota mons. Klaus Klämer, presidente internazionale di Missio-Aachen – richiede un impegno deciso, anche davanti ad amare sconfitte. Essa cammina assieme al dovere di una competenza interculturale, allo sviluppo di una specifica identità religiosa, così come alla disponibilità e capacità del dialogo interreligioso».