Mettendo insieme molti degli elementi disponibili, a partire dalla sconfitta del 4 dicembre 2016, si può arrivare alla conferma di un dato importante della realtà politica italiana. Si può enunciare così: al leader del Pd, Matteo Renzi, si addice la solitudine. Uno stato di cose dal quale gli altri rifuggono perché ne paventano le conseguenze sulle dimensioni del consenso, sembra la condizione che egli preferisce fino a considerarla una conquista.
I fatti aiutano a spiegare perché non si tratta di un paradosso ma proprio di un carattere tipico del personaggio, di cui bisogna tener conto per leggerne i comportamenti e decrittarne i propositi. Che del resto, a guardar bene, sono trasparenti.
Il mito del 40%
Il 4 dicembre 2016, come tutti ricordano, Matteo Renzi condusse in campo aperto il suo Pd a sostegno del referendum confermativo della riforma costituzionale, sulla quale aveva giocato l’intera sua figura politica. Solo contro tutti: una situazione subìta o, in definitiva, desiderata?
Dopo quella sconfitta furono in tanti a pensare – e a desiderare – che una correzione di orientamento sarebbe stata comprensibile e desiderabile. E invece fin dal primo momento fu messo in circolazione il tema del 40%, riproposto più volte successivamente dallo stesso leader.
Consiste in questo: che, nella sconfitta referendaria, il Pd ha raggiunto la stessa percentuale, appunto il 40%, ottenuta nelle elezioni europee del 2014, cioè al culmine della sua espansione. Con quel percento, è vero, si perde il referendum, ma si vincono le elezioni. Dunque, avanti tutta senza le correzioni strategiche auspicate anche da molti che pure avevano sostenuto le scelte riformatrici del governo.
Una rincorsa più lunga
C’è stata, è vero, la rinuncia a Palazzo Chigi con la “girata” del potere a Paolo Gentiloni. Ma tutti hanno compreso che non era un reale distacco o una salutare pausa di riflessione. Piuttosto una rincorsa più lunga per saltare il medesimo ostacolo.
Una vera analisi delle ragioni del tracollo referendario, così come di quella della successiva catastrofe siciliana, non si è mai fatta. Di quel salutare interrogativo: “dove abbiamo sbagliato?”, che un tempo si chiamava autocritica o esame di coscienza, neanche una traccia. Sarebbe stata una concessione ai tanti avversari, esterni ed interni, che avevano dato vita all’“accozzaglia” vincente. E dunque era una conferma della leadership, più che della linea politica, anche a costo di dare fiato ad una scissione che nel frattempo si stava preparando.
La “direzione unitaria”
Non era una provocazione ma una misura di saggezza il suggerimento, che anche su queste pagine venne formulato, di ripercorrere gli antichi tracciati di una politica che, nei momenti di massimo conflitto, riusciva a sopravvivere attraverso lo strumento, o l’espediente, della “direzione unitaria”.
Quasi mai risolveva i problemi, ma sempre riabituava a convivere persone e gruppi cristallizzati nelle reciproche rigidità. Rileggere, per conferma, le storie della Dc e dello stesso Pci; e anche – per una prova a contrariis – quelle dei socialisti e delle frazioni settarie dell’ultrasinistra.
Escluso un percorso unitario, che avrebbe comportato probabilmente anche un avvicendamento di leadership, il Pd si è trovato a fronteggiare una rottura storica con l’animo leggero di quelli che “se gli altri escono, noi siamo più forti”. Affermazione veridica quanto alla spartizione del potere interno, non certamente fondata se riferita ai rapporti di forza sullo scenario globale.
La legge elettorale
La confezione della nuova legge elettorale poteva offrire una prova d’appello a tutti i contendenti dell’area terremotata dalla scissione. È ozioso sostare sul quesito: chi abbia creato più ostacoli a un recupero, pur minimale, di coesione. Ma nessuno, per quanto attento, è riuscito a cogliere segnali di un clamoroso impegno, se non per una riconciliazione, almeno per la fissazione di regole che avrebbero riattivato un minimo di coesistenza tra le parti.
Poteva essere l’introduzione del voto disgiunto – tra quota uninominale e quota proporzionale – nel nuovo meccanismo elettorale? Per avere una risposta bisognava provarci.
Si è giunti così alla vigilia del voto politico con il Pd in uno stato di conclamata solitudine. In politica si chiama isolamento, che non è splendido anche se spesso lo si proclama tale.
Solo con se stesso
La conseguenza di tale stato di cose è che il Pd sarà solo con se stesso nell’affrontare la prova. Le componenti interne vengono richiamate alla compattezza dei momenti d’emergenza senza che si siano in precedenza registrati loro contributi di rilievo nella determinazione delle scelte.
La solitudine è accresciuta dall’insuccesso dell’iniziativa di Pisapia, rivelatasi improba nel tentativo di rianimare, allargandola, l’area del centrosinistra. Ed anche l’abbandono di Alfano, sul versante centrista, costituisce una sottrazione importante non per i numeri ma per i significati indotti, se è vero che una parte rilevante di Alleanza Popolare si accinge a rifluire nel seguito di Berlusconi al quale tutti pronosticano un radioso avvenire.
I “liberi e euguali”
Il modo con cui si sono svolte le “trattative” per la ricomposizione del centrosinistra – affidate a Piero Fassino, da tutti stimato ma non a tutti gradito – è materia da tener presente nella valutazione dei risultati (non) conseguiti.
Quanto all’area che si è costituita alla sinistra del Pd, ne va segnalato l’attivismo, corroborato dalla acquisita conduzione del Presidente del Senato, Pietro Grasso, dall’annunciato ingresso della Presidente della Camera, Laura Boldrini, e dal tentativo di qualificarsi sul binomio “liberi e uguali” che non sembra voler ripercorrere le acrobazie in cui si esercitarono, ai loro tempi, Fausto Bertinotti e i suoi variopinti seguaci.
Il centro e le ali
Se le Camere saranno sciolte attorno all’Epifania e se si voterà il 4 o il 18 marzo 2018, non c’è molto tempo per nuove esercitazioni a vuoto. Ancora una volta il Pd si lancerà nella mischia con l’intento di realizzare uno sfondamento centrale. Ma rischia di essere avvolto dalle due ali dello schieramento – l’altra è il Movimento 5stelle – che ormai gli hanno preso le misure.
La scelta renziana della “concretezza” (un termine che evoca più la cultura di Andreotti che quella di Fanfani, al quale Renzi è stato più volte accostato) può rappresentare una risorsa… Se non si rinchiude nel piccolo recinto dei provvedimenti spiccioli e si avventura sul terreno delle grandi scelte, come sarebbe un piano nazionale di vasto respiro volto a rilanciare davvero la piena occupazione.
Mi sembra che in questa analisi manchi – forse per ragioni di spazio – il tentativo di comprendere quali altre con-cause abbiano prodotto la situazione attuale del PD. Si attribuisce a Renzi un protagonismo assoluto – nel bene e nel male – ma manca quasi completamente, nel dibattito politico, un’analisi approfondita e coerente di quale sia la posizione, le proposte, le linee e i progetti delle parti che hanno lasciato solo il PD. Lo fa solo chi sta dalla parte di Renzi, suscitando immediatamente il sospetto di una riserva apologetica. Ma sarebbe interessante, e doveroso, non limitarsi alle battute sul carattere del Segretario del PD, o a ripetere lo slogan dell’unità, e chiedersi che visione della politica, quale interpretazione dell’Europa, quale comprensione della scena complessiva mondiale e quali capacità di andare nella direzione individuata emergano. A quale prezzo il PD avrebbe potuto non rimanere solo? Per ora, le risposte vengono date solo alla domanda opposta: a quale prezzo il PD è rimasto solo? Ritegno che se si analizzasse la posta sul piatto, ne avremmo l’utile risultato di smascherare più obiettivamente quella condotta da “ancien régime” che ha giocato tutte le sue carte per stare sulla piazza, a scapito della propria purezza ostentata, e forse potremmo con altri, in forma più dialogata, immaginare e costruire una nuova fisionomia della politica, di cui si ha bisogno come il pane, e anche rielaborare la sintassi di cosa sia la destra e cosa la sinistra. Da Norberto Bobbio in poi, (Destra e sinistra, 1994) pare che non sia più stato fatto.