Dopo tanto cedimento allo spirito del tempo perfino nel celebrare la santa memoria del Natale del Signore, siamo ormai nella necessità di recuperarne il senso del mistero, ossia riconsiderarlo con serietà.
Il Natale è festa della tenerezza, nel senso che è evento centrale nella storia di misericordia che il Dio trinitario ha ideato e attivato per la comunità degli uomini. Questa festa cristiana non ha, perciò, nulla da spartire con la sua dolcificazione e l’edulcorazione che ne ha operato la società consumistica, la quale di tutto abbonda, meno che di delicatezza e di profondità spirituale; tutto sembra possedere meno la capacità di vibrare in presenza del mistero.
è il messaggio che ci ha lasciato papa Benedetto XVI in un’udienza generale di qualche anno fa: «Facciamo in modo che, anche nella società attuale, lo scambio degli auguri non perda il suo profondo valore religioso, e la festa non venga assorbita dagli aspetti esteriori, che toccano le corde del cuore. Certamente, i segni esterni sono belli e importanti, purché non ci distolgano, ma piuttosto ci aiutino a vivere il Natale nel suo senso più vero, quello sacro e cristiano, in modo che anche la nostra gioia non sia superficiale, ma profonda» (21 dicembre 2011).
Il carattere “drammatico” del Natale
Le feste cristiane hanno senso solo nella prospettiva credente. Fuori dell’orizzonte di fede, esse iniziano a significare cose diverse: potremmo dire che si deteriorano nello spirito e nella loro identità più vera. Riflettiamo. Quello di Natale è uno dei racconti evangelici più drammatici e duri, accostabile alla fenomenologia della passione e della morte del Cristo:
– la Vergine di Nazaret fu raggiunta, prima di generare Gesù, dall’assicurazione angelica: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio» (Lc 2,30);
– la venuta del Figlio di Dio è preannunciata con la severità di un uomo penitente, la cui voce grida nella desolazione del «deserto» (Mc 1,3);
– i pastori «furono presi da grande spavento» e dovettero anch’essi ricevere la parola di conforto dal cielo: «Non temete» (Lc 2,9-10);
– alla notizia della nascita di Gesù, «il re Erode si turbò e con lui tutta Gerusalemme» (Mt 2,3);
– il Figlio di Dio – commenta Giovanni – entra nella storia degli uomini «incompreso» e «non accolto» dai suoi, come «luce» rifiutata dalle «tenebre» (cf. Gv 1,10-11). Desta, perciò, non poca meraviglia il fatto che questo evento cristiano, già in nuce evento martiriale, abbia assunto nel tempo un carattere molle e debole, in contrasto stridente con ciò che esso è secondo i Vangeli. Anche Natale resta segnato dal graffio implacabile con il quale la cultura dell’effimero riesce a sfregiare i luoghi della geografia dell’anima e a profanare le sante date dello spirito. La lettura dei “Vangeli dell’infanzia” chiede con forza a noi cristiani di recuperare attenzione verso i segni “drammatici” che connotano l’evento natalizio.
Il carattere radicale del Natale
è una constatazione incontrovertibile: spesso, nella società di oggi, rispetto ai grandi eventi cristiani si conserva un senso di rispetto e si mostra perfino disponibilità ad accogliere il loro messaggio, ma questo viene quasi sempre inteso più come un ideale di saggezza che di salvezza religiosa, più come nutrimento e potenziamento del capitale umano che come un richiamo di redenzione.
Oggi si rischia l’indebolirsi del carattere radicale del cristianesimo: la sua profezia pare talora farsi ideologia; la sua alterità trascendente sembra soffocare nella durezza della condizione umana; la sua profondità escatologica corre il pericolo di accorciarsi nelle brevi traiettorie del futuro solo storico.
Il cristianesimo ha esaurito la sua funzione storica? si chiedeva in uno scritto del 1941 don Primo Mazzolari. è forse la preoccupazione che il cristianesimo possa perdere questa funzione che porta ad operare quell’«inginocchiamento dinanzi al mondo» di cui parlava jacques Maritain (cfr. Il contadino della Garonna, Morcelliana, Brescia 1980), osservando l’aspra temperie secolarizzatrice esplosa dopo la chiusura del concilio Vaticano II.
La risposta alla domanda mazzolariana è: il cristianesimo non ha esaurito e non esaurirà la sua funzione nel tempo dell’uomo se resta radicale ed esigente, esplicito e completo, fedele all’uomo e pienamente religioso. Natale, portando in sé il segno della pienezza misterica e dello svuotamento kenotico, esige e richiama questo carattere di “radicalità” ineliminabile.
Il mistero natalizio esprime, infatti, tutta la “tensione” che c’è fra cielo e terra, fra tempo ed eternità, fra l’inizio dell’exinanitio della croce e la conseguente gloria della risurrezione.
Infine, il mistero natalizio compone in sé le due polarità della salvezza: è, ad un tempo, l’inizio di un riscatto redentivo e l’inizio di una creazione nuova.
Natale e l’umiltà del Dio trinitario
Il Natale è evento trinitario: il Padre ha inviato il Figlio nel mondo per poter inviare, con lui, lo Spirito su di esso. è qui la sintesi dell’intera economia cristiana della salvezza, che trova perciò nel mistero natalizio il suo punto-alfa e nel mistero pentecostale il suo punto-omega, che ha nel Padre la sua origine, nel Figlio la sua mediazione, nello Spirito la sua perfezione consumativa.
Come l’intera storia della salvezza è opera della Trinità, così di essa è ogni iniziativa misterica che la compone: in questo senso il Natale è trinitario. A Natale nasce temporalmente, nel seno della Vergine-Madre, il Figlio dal Padre, per opera dello Spirito Santo. Alla kenosi natalizia, perciò, partecipano tutte e tre le persone divine. Solo in cielo, alla fine, verrà pienamente svelato ciò che ebbe origine nel cuore del mistero trinitario, fu celebrato a Betlemme e proseguito nella realtà cristiano-ecclesiale e, in modo non del tutto manifesto, in quella dell’intera famiglia umana.
a) L’umiltà del Padre: consegna il Figlio. Il Padre a Natale si umilia insieme con il Figlio; prende parte, cioè, alla sua kenosi. Questa, infatti, non si dà senza la missione data dal Padre al Figlio: il Figlio è disceso dal cielo perché mandato dal Padre a realizzare la sua decisione di salvezza.
La kenosi, quale atto di salvezza, trova nel Padre il suo principio. Tutto il dinamismo di grazia ha la sua origine nel Padre, fonte di ogni vita, fonte di ogni santità, fonte di ogni glorificazione. Del resto, l’eterna “processione” generativa cui il Figlio è eternamente inserito, non s’interrompe nel Natale, ma in esso assume la forma temporale-kenotica. È chiaro, allora, che il Padre sia “implicato”, in modo necessario ed essenziale, alla generazione del Figlio nel tempo, allorché nasce «da donna» (Gal 4,4).
Il Natale è evento che riguarda tanto il Figlio quanto il Padre, nella specificità della loro diversa “condizione” trinitaria. è evento di grazia che si sostanzia con il generare del Padre e con l’essere generato del Figlio: al mistero di Natale non può mancare nessuno di questi due misteriosi dinamismi. È l’umiltà del Padre che ci dona la grazia natalizia dell’umiliazione salvifica del Figlio.
b) L’umiltà del Figlio: si fa servo. Questo è l’atto umiliativo più conosciuto dai cristiani, perché su di esso hanno insistito di più l’esegesi biblica, la teologia, la catechesi, l’omiletica. Il Figlio nell’incarnazione assume la condizione servile; vela la sua gloria; oscura lo splendore della sua relazione filiale con il Padre (cf. Fil 2,6-8).
Grazie a questo annientamento Dio ha potuto farsi presente nel mondo. L’atto di misericordia di questo abbassamento consiste nel permettere all’uomo di contemplare la gloria divina, altrimenti inaccessibile: solo la gloria velata è accessibile agli occhi degli uomini: «A causa dell’eccessiva luce si dissolverebbe ogni carne, a meno che, per disposizione ineffabile di Dio, o la carne si muti in luce per poter vedere la luce, o la luce si muti in carne per essere vista dalla carne» (Ps. Clementine, Hom. XVII, 16). Ebbene, il Verbo si è fatto carne e noi abbiamo potuto contemplare la gloria della Trinità.
L’incarnazione è una prima spoliazione che ne profetizza una seconda: quella della croce. C’è nel Natale la primizia dell’azione sacrificale di Gesù: il sacrificio del Calvario è l’esito estremo di questo sacrificio primordiale. Nel «bambino avvolto in fasce» e giacente nella «mangiatoia» (Lc 2,12) la fede fa intravedere il Crocifisso appeso al patibolo: la “nudità” del Natale è profezia mesta della “nudità” del venerdì santo.
Del resto, nato fuori della città (cf. Lc 2,34), nel contesto più disadorno e incomprensibile (cf. Lc 2,7), morirà anche fuori della città, con la ignominiosa morte degli schiavi; il cammino del Bambino di Betlemme, iniziato in una stalla, finirà sulla croce: la mangiatoia e la croce non sono distanti l’una dall’altra; anzi, esse sono vicinissime, poiché si trovano dentro lo stesso perimetro di grazia: sono due punti dello stesso dinamismo di salvezza.
c) L’umiltà dello Spirito: opera “di là del Verbo”. Nel vortice dell’incarnazione entrano anche la persona e l’opera dello Spirito. Il glorioso Verbo s’è fatto umile carne nel seno della Vergine Maria «per opera dello Spirito Santo» (simbolo niceno-costantinopolitano). È lui che ha permesso il velarsi della gloria filiale nel seno di santa Maria. L’ombra dello Spirito ha reso possibile il nascondimento del fulgore regale del Figlio nella forma del servo.
Lo Spirito si è umiliato a Natale: lì si è fatto, a sua volta, servo del servo di YHWH, ponendosi a disposizione di lui, per sempre e in tutto: già nell’incarnazione, poi nella consacrazione messianica al Giordano, nella vita pubblica, negli eventi di Pasqua e in quello di Pentecoste (che è mistero di Cristo), nell’opera missionaria della Chiesa, fino a «quel giorno», quando Gesù compirà il suo secondo avvento.
Lo Spirito, dal Natale in poi, è l’umile Servo di Gesù. Non ha infatti un suo tempo, ma il tempo di Cristo; non ha un suo Vangelo, ma il Vangelo di Gesù, che ripete e interiorizza nella vita degli uomini; non ha un suo progetto salvifico, ma è a servizio del piano salvifico che il Padre ha ideato e il Figlio ha mediato. Il suo scopo è di far conoscere Gesù, di portare gli uomini a lui, di rendere contemporaneo il Cristo ad ogni generazione.
Affermava Ignazio Hazim, metropolita ortodosso di Lataquié, nel discorso d’apertura alla Conferenza ecumenica di Upsala (1968): «Senza di lui (lo Spirito) Dio è lontano, il Cristo rimane nel passato, il Vangelo è una lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità è un dominio, la missione è propaganda, il culto un’evocazione e l’agire cristiano una morale di schiavi». Noi potremmo dire: senza lo Spirito, non avremmo per noi l’opera messianica del Cristo; non avremmo neppure la grazia del suo Natale che è, perciò, anche un dono dell’umile servizio che lo Spirito rende a Cristo e a noi. Lo Spirito, come ha scritto felicemente H.U. von Balthasar nel 1966, è «lo Sconosciuto al di là del Verbo». È questa la sua umiltà, espressa anche a Natale.
Natale, festa della gioia
Festa severa, il Natale non è affatto festa triste, ma gioiosa. Piuttosto, il Natale va sottratto alla presa molle e catturante del consumismo, che di questa solennità approfitta e che tende di travolgere facendola precipitare nel grande vortice del mercato e dell’effimero.
Maria, la madre della Natività, ci esorta anch’essa all’umiltà, perché Dio possa trovare spazio nel nostro cuore, non oscurato né occupato dall’orgoglio e dalla superbia. Ella ci indica il valore del silenzio, che sa ascoltare il canto degli Angeli e il vagito del Bimbo, non soffocandoli nel chiasso stordente e nella confusione dissipante. Ella ci chiama a sostare dinanzi al presepio, assaporando la gioia semplice e pura che quel Bambino reca all’umanità. Nella notte santa, l’Astro sorgente, «splendore della luce eterna, sole di giustizia» (cf. Antifona al Magnificat, 21 dicembre), verrà a illuminare chi giace nelle tenebre e nell’ombra della morte.
Natale ha bisogno di silenzio per essere riconosciuto in sé e nella vita dell’altro, come s’esprimeva madre Teresa di Calcutta: «è Natale ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare l’altro». E possiamo continuare dicendo che è Natale quando c’è lo spazio per l’invocazione, quando c’è lo spazio perché il Figlio nasca in noi. Questa gioia è completa soltanto quando questa realizzazione armonica della nostra vita è attuata nell’apertura a Dio, grembo santo dal quale la nostra esistenza è fiorita. «Quando mi sfiorano le tue mani immortali, il mio piccolo cuore si smarrisce dalla gioia e ne sgorgano parole ineffabili», afferma il saggio poeta indiano, Rabindranath Tagore.
Così concepita, la gioia autentica ci viene sempre solo come dono. Essa è la partecipazione alla gioia di Cristo: «Ma ora vengo a te Padre, e dico queste cose nel mondo, affinché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia», pregò Gesù, prima di lasciare questo mondo (Gv 17,13). «Afflitti», i discepoli di Gesù sono «sempre lieti» (2Cor 6,10). S. Paolo sovrabbonda di gioia nelle sue tribolazioni (2Cor 7,4). La comunità cristiana vive in una letizia semplice (At 2,46) e la predicazione della buona novella è dovunque fonte di grande gioia (At 8,8). Anzi, siccome Dio non può essere trovato se non nell’uscire da se stessi e nel darsi all’altro, l’altruismo è l’unica via alla gioia autentica, che la logica del Natale ci insegna.