Già si è intervenuti tante volte sul tema della parrocchia nel convincimento che ogni Chiesa locale non potrà non privilegiare questo importante soggetto pastorale, questa comunità ecclesiale che verifica la sua alta importanza teologica e pastorale nel fatto che è la comunità eucaristica più somigliante alla Chiesa diocesana.
La parrocchia nel tunnel della crisi
Don Primo Mazzolari, il grande parroco di Bozzolo e di Cicognara, il prete italiano che Giovanni XXIII chiamò «la tromba dello Spirito Santo nel mantovano», nel suo indimenticato libretto La Parrocchia (Vicenza 19634), ebbe a scrivere: «La parrocchia, che fu ed è, e non può non essere, la cellula della Chiesa, oggi è in crisi. Non si tratta di pessimismo o d’un modo di dire, è un fatto, che nessuno sinceramente può negare o fingere di non vedere» (p. 7).
Le ragioni della crisi della parrocchia non sono tutte facilmente decifrabili, ma certamente rimandano, fra l’altro, ai grandi cambiamenti socio-culturali avvenuti A metà del secolo scorso: erano rivolgimenti sociali così vasti e radicali che molti si spinsero a parlare di superamento della parrocchia.
La crisi della parrocchia, già denunciata prima del Concilio, ha conosciuto un aggravamento nel primo post-Concilio: uno dei sintomi più evidenti di tale disagio è stato percepito dalla difficoltà a parlarne con la sicurezza di una volta, poiché nuove aggregazioni della vita di Chiesa (gruppi, movimenti e associazioni) sorgevano e s’espandevano per solito al di fuori dei suoi confini, insinuandosi il dubbio che esse potessero porsi come realtà ecclesiali alternative alla parrocchia stessa.
Da sorella minore a sorella maggiore
Si potrebbe dire che la parrocchia appariva come la sorella minore fra le altre aggregazioni ecclesiali, ma fortunatamente oggi i sintomi di crisi divengono segni di speranza: la parrocchia torna al centro dell’attenzione pastorale. Qualcuno ha parlato di «rivincita della parrocchia». Si tratta d’altro: si è tornati, anzitutto, al buonsenso (ve l’immaginate una pastorale senza parrocchia?) e poi s’è preso a riguardare saggiamente la parrocchia (troppo spesso divenuta oggetto solo delle scienze umane) all’interno dell’ecclesiologia conciliare e, in particolare, a ricollocarne la riflessione nell’alveo del mistero della Chiesa locale.
Una domanda si impone. A quali condizioni la parrocchia ha riacquistato e può consolidare le ragioni della sua validità? La domanda merita diverse risposte. Intanto, si può accennare a due di esse.
La prima: bisogna porre il tema della parrocchia “in contesto”, ripensarla cioè in stretto e vitale innesto con la situazione socio-culturale, che oggi è assai diversa da quella di un passato anche recente.
La seconda: rileggere la parrocchia in termini teologici, riconsegnando alle considerazioni di natura storica e sociologica un valore di complemento, sia pure molto utile e senz’altro anche necessario.
La parrocchia, Chiesa di Dio tra le case degli uomini
È stato Giovanni Paolo II a definire la parrocchia come «la Chiesa che vive tra le case degli uomini» nell’esortazione apostolica Christifideles laici (n. 26), e da lui ripresa nel Messaggio ai vescovi italiani, in occasione della 52a Assemblea generale (Assisi: 17-20 novembre 2003).
Nella loro assemblea di Assisi, i vescovi si sono posti la domanda: come e quando la parrocchia è «la Chiesa che vive tra le case degli uomini»? I vescovi hanno inteso operare un oculato discernimento spirituale sull’oggi e per il domani, partendo dal vissuto parrocchiale, con quanto implica a livello di fatiche e di opportunità. L’angolatura da cui s’è voluto rileggere la vita delle parrocchie italiane fa ormai stabilmente parte delle scelte della Chiesa italiana: si tratta dell’ottica missionaria. In parole diverse, s’è voluto osservare il “volto missionario” delle nostre parrocchie, al fine di sincerarsi se l’ansia missionaria le anima e fino a che punto. Da ciò il documento “Il volto missionario della parrocchia in un mondo che cambia”.
Una parrocchia «sostenibile»
Si dice talvolta che occorre individuare per il futuro il volto d’una parrocchia sostenibile. Lo usiamo anche per dire della parrocchia, sperando che ci aiuti a capirla meglio.
Per parrocchia “sostenibile” s’intende, in buona sostanza, una parrocchia possibile. Serve sempre ricercare le condizioni di una parrocchia possibile: lo richiede l’intera vita parrocchiale. Anzitutto il territorio, cioè l’ambiente socio-culturale: questo determina le condizioni di base di una parrocchia in modo notevolissimo. L’esiguità del numero degli abitanti, l’assenza di scuole, la mancanza di punti culturali di riferimento sono condizioni ambientali che non impediscono di fare parrocchia, ma impongo di farla in un certo modo. Così è se si hanno situazioni con l’esagerazione di segno contrario.
Ma ci sono anche aspetti d’altra natura che determinano una “parrocchia possibile”: questa comunità ecclesiale è possibile se vi sono le condizioni causali della sua esistenza: l’annuncio della Parola, il fonte battesimale e l’eucaristia. Certo, per una parrocchia occorrono anche altre risorse sacramentali e di grazia, ma mi attesto all’indicazione degli elementi di stretta essenzialità.
Ciò che serve alla nascita e al nutrimento essenzialissimo della parrocchia sono il seme e il pane della Parola e quelli che Pietro Abelardo chiamava i «sacramenti maggiori», il primo dei quali è “maggiore” per la sua necessità in ordine alla salvezza e il secondo lo è la sua particolarissima dignità, realizzando la presenza della persona stessa di Cristo.
Una “sostenibilità” espansiva
Se queste sono le note essenziali della parrocchia, che la rendono «sostenibile», non sono tuttavia le uniche. Come non fare riferimento alla presenza del sacerdote perché venga fatta l’eucaristia? Anche nell’ipotesi di parrocchie accorpate, di parrocchie eventualmente gestite dai diaconi, l’eucaristicità d’una parrocchia può essere assicurata solo dalla presenza del sacerdote, anche se molto diradata (però: quanto diradata, perché la parrocchia possa essere detta “sostenibile”?).
Le stesse osservazioni vanno ripetute per il perdono sacramentale: una parrocchia è “sostenibile” se, di fatto, i suoi cristiani possono compiere il passaggio sacramentale, se non nel suo spazio, almeno che sia capace di farlo compiere.
La stessa cosa accade dal punto di vista della Parola: sono gli stessi servizi più essenziali della Parola (kérigma o primo annuncio, un’essenziale catechesi e un’essenziale dottrina) a chiedere di crescere verso l’esperienza di altri servizi della Parola (omelia, catechesi specializzate, conoscenza approfondita della dottrina). Il che significa: la “sostenibilità” tende a svilupparsi, a passare da soglie minimali di condizioni pastorali a soglie più elevate.
“Sostenibilità” significa sobrietà e coralità pastorali
La “sostenibilità”, pertanto, non è solo la regola pastorale per i momenti di magra (scarsità del clero, ad esempio), ma è un saggio principio di missione e di pastorale sempre e comunque valido, sempre e comunque applicabile; aiuta, ad esempio, nella ricerca di ciò che, nell’intrapresa pastorale, è essenziale (e va conservato) e di ciò che lo è meno (e va tralasciato).
Una parrocchia “sostenibile” deve saper curare anche una certa sobrietà nelle iniziative, non solo perché non ce la facciamo a far tutto (come giustamente ripetono i sacerdoti), ma anche perché non siamo chiamati a fare tutto quello che facciamo. Un’analisi delle cose da non fare più nella pastorale parrocchiale per dar posto e fare meglio ciò che è più necessario dovrebbe essere oggetto di ripensamento della famiglia presbiterale, delle zone pastorali, dell’intera comunità parrocchiale.
Infine, la parrocchia è “sostenibile” nel senso che è fatta per essere sostenuta da tutti i soggetti che sono chiamati a farlo e sono capaci di farlo vocazionalmente, carismaticamente, ministerialmente.
La parrocchia “sostenibile” si realizza in pienezza o esprime compiutamente la verità di sé solo quando, nella fede, sa decifrare la natura e il grado della sua realtà ecclesiale e, alla luce di quello che è ecclesialmente, sa vivere ed esprimere:
- la coordinazione delle iniziative,
- l’accoglienza battesimale,
- la convivialità eucaristica,
- la sinodalità decisionale,
- l’ospitalità caritativa,
- la passione missionaria,
- la sussidiarietà pastorale.
In breve, una parrocchia “sostenibile” sa suscitare, vivacizzare, nutrire tutte le potenzialità di natura e di grazia presenti nel suo seno, armonizzandole in modo sapiente, in modo che la coralità pastorale operi un miracolo in più: quello di rendere la parrocchia bella e attrattiva.
La parrocchia è un popolo
Sempre interessante, ancora di più è pressante oggi la domanda: parrocchia di popolo o parrocchia d’élite? Conviene rispondere a questa domanda per non compromettere lo sforzo di riforma della parrocchia da tutti sentita come necessaria. La risposta a questa domanda deve fare riferimento a ragioni teologiche, le sole che possono dirci cosa è la parrocchia e le sole che posso guidarci a determinare quale forma storica essa debba assumere in conformità alla sua identità e alla sua missione. E allora, parrocchia di popolo o di élite?
La parrocchia non è un gruppo di pari o di affini, cioè persone omogenee per età o interessi o per altro; essa è un popolo, nel quale tutte le differenze umane convergono in quella straordinaria esperienza aggregativa che è la comunità.
La parrocchia non nasce elitaria, ma popolare: «La comunità parrocchiale – scrivevano i vescovi italiani – riunisce i credenti senza chiedere nessun’altra condivisione che quella della fede e dell’unità cattolica. La sua ambizione pastorale è quella di raccogliere nell’unità persone le più diverse tra loro per età, estrazione sociale, mentalità ed esperienza spirituale» (CEI, Comunione e comunità [1.10.1981], n. 43).
La parrocchia nasce popolare perché partecipa all’essere e alla missione della Chiesa, che nasce dalla convocazione di Dio, il quale le affida consegne, le prospetta fini, le dona mezzi per realizzare i suoi divini propositi.
La parrocchia, in piccolo, vive il mistero della Chiesa, della quale sa realizzare un’essenziale presenza di grazia, dal momento che sa realizzare la presenza salvifica e gloriosa di Cristo: «in queste comunità [diocesi e parrocchie] – afferma il Concilio –, sebbene spesso piccole e povere e disperse, è presente Cristo, per virtù del quale si costituisce la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica» (Lumen gentium, n. 26).
La parrocchia è casa di tutti
Proprio perché esprime la realtà del popolo di Dio, la parrocchia è la casa di tutti, aperta a tutti. In essa, conseguentemente, ognuno si deve sentire a casa propria, poiché è, come afferma Giovanni Paolo II, una «casa di famiglia, fraterna e accogliente con tutti» (Christifideles laici: 30.12.1988, nn. 26-27), o, come amava dire papa Giovanni XXIII, la «fontana del villaggio» alla quale tutti corrono a dissetarsi per l’arsura che la vita crea.
La parrocchia non è la comunità dei migliori (i santi), né per i gruppi cristiani d’“élite” (aggregazioni ecclesiali particolari per carismi, impianto organizzativo e quant’altro); è la comunità cristiana dove passa una concreta porzione del popolo di Dio, connotato da doni di creazione e di grazia.
Fra l’altro, la parrocchia è lo spazio missionario nel quale è convocata la comunità degli uomini, già irradiata da riflessi di santità e purtroppo anche oscurata del peccato. «La parrocchia rimane la Chiesa di tutti: impegnati o dubbiosi, buoni o cattivi, obbedienti o critici, assidui o lontani. La ragion d’essere di una comunità parrocchiale è quella di costituire la struttura di base per l’appartenenza ecclesiale dei cristiani prima, dopo e fuori da qualsiasi appartenenza particolare. La parrocchia, come la diocesi, ha bisogno di restare se stessa, rendendola la Chiesa di tutti […]. Anche questa è una forma di Chiesa dei poveri e povera. Tutta la vita e l’azione della Chiesa, della parrocchia, hanno bisogno di ristrutturarsi nell’atto del vangelo, cioè nell’annuncio della bella notizia a chi ancora non crede o ha interrotto il suo percorso di vita cristiana» (Severino Dianich – Atti del 24° Convegno nazionale delle Caritas diocesane, Modena 15-18 giugno ’98).
La parrocchia fra prossimità e distanza
Allora, parrocchia d’“élite” o parrocchia di popolo? La risposta è: parrocchia di popolo. In questa “popolarità” (che evita le derive di alcuni significati inaccettabili, come quello di populismo) c’è tutto l’umano con quanto di buono, di mediocre e di avvilente possiede, e va compresa tutta la variegata fenomenologia religiosa, con quanto di raffinatezza, di lacunoso, di scadente, di debole ci sia dal punto di vista spirituale.
La parrocchia è lo spazio dove la geografia e la storia, spesso rattristanti, degli uomini trovano ospitalità e attenzione; e si deve dire anche il contrario: in quella geografia e in quella storia la parrocchia è inserita e immersa come “casa” fra le case, come “casa” accanto alle case degli uomini, abitandovi con prossimità profonda, ma anche con alterità alta: la parrocchia, infatti, ha da narrare (testimoniando) la storia di Dio-con-l’uomo, deve annunciare una sapienza altra, quella della croce, e una profezia inattesa, quella della risurrezione.
Ringrazio l’autore per questi spunti, che considero pertinenti e stimolanti; tuttavia trovo che nelle riflessioni sulla parrocchia degli ultimi anni manca di dichiarare esplicitamente e con più coraggio un punto: per permettere che le parrocchia non muoia, bisognerà avere il coraggio di fare delle scelte e queste scelte spettano certamente anche alla buona volontà del popolo, ma soprattutto e in prima istanza a coloro che hanno il dovere e la responsabilità di farle. Perché una parrocchia sia “sostenibile” nel senso che intende l’autore, e quindi anche significativa come presenza nella chiesa e nel mondo, bisogna scegliere che cosa fare vivere e che cosa lasciare morire, scegliendo – non solo accettando – come in un viaggio avventuroso, che cosa perdere per arrivare al futuro. I vescovi diocesani non possono più sottrarsi a questo dovere/responsabilità, pena vedere soccombere i loro parroci nelle sabbie mobili create da un pantano vorticoso non rimosso da troppo tempo. La data del libretto di Mazzolari è indicativa: siamo in ritardo “solo” di cinquataquattro anni.