Si è tenuto a Yogyakarta (Indonesia), nel mese di luglio 2017, un seminario internazionale su Carisma e devozioni: verso una identità dehoniana inculturata. Esso è stato voluto dalla congregazione dei Sacerdoti del Sacro Cuore di Gesù (dehoniani) per approfondire il rapporto tra il carisma e le devozioni che da esso sono nate e che ne rappresentano gli aspetti visibili ed esterni. Un tema che può interessare tutto il comparto della vita consacrata maschile e femminile.
Una rivisitazione delle devozioni
L’idea di devozione è stata piuttosto criticata dopo il concilio Vaticano II, a causa di una certa reazione nei confronti di un carisma che insisteva troppo sulla devozione a detrimento del riferimento obbligato alla Scrittura e alla liturgia.
La ripresa odierna del tema della devozione non intende essere una riproposizione acritica delle pratiche di pietà di un tempo, ma una ricomprensione e riattualizzazione a partire dalla sensibilità contemporanea. Si è infatti consapevoli che, sull’onda del rinnovamento innescato dopo il Concilio, alcuni aspetti importanti della vita cristiana sono stati talvolta ideologicamente svalutati o persino frettolosamente rimossi.
L’attuale contesto culturale (e la riflessione teologica odierna) sta invece tornando nuovamente a riflettere su alcuni luoghi antropologici attraverso cui la religiosità o il rapporto con la trascendenza sono vissuti (e questo fenomeno interessa anche e forse soprattutto il mondo giovanile): gli affetti, il corpo, le rappresentazioni, i luoghi di pellegrinaggio ecc.
Si tratta di aspetti che richiedono un discernimento e una riflessione, a partire da quella che si potrebbe definire una comprensione teologico-sapienziale della devotio.
L’identità, oltre che aperta e in divenire, deve necessariamente essere intesa come plurale. Ogni continente ha infatti una legittima pluralità di prospettive e di priorità. Le devozioni autentiche assumono e consentono di apprezzare quanto di vero e di bello è presente nella cultura circostante e, insieme, ci fanno scoprire quanta ricchezza è contenuta nella nostra propria tradizione spirituale.
Apprezzabile, in particolare, la relazione che sussiste fra devozione e società o religioni. Mentre, in Europa, abbiamo talvolta l’idea della devozione come affare privato, altri approcci hanno sottolineato che la devozione può essere forma di resistenza anche politica ed espressione della sensibilità di un intero popolo (America Latina); luogo di contaminazione e di influenza delle spiritualità non cristiane (Asia); occasione di vicinanza e di condivisione con il popolo (Africa); occasione di una rinnovata riflessione sul rapporto fra estetica e prassi (America del nord).
Le devozioni sono innegabilmente fattori di forza del cattolicesimo (in confronto all’assenza di esse in altre confessioni cristiane), in quanto capaci di rendere viva la fede; al contempo, possono diventare la sua debolezza quando non sono autenticamente evangelizzate, come evidenzia il fatto che spesso le persone più “devote” sono anche quelle meno impegnate socialmente e viceversa. Si potrebbe addirittura parlare di un pericolo delle devozioni in quanto portano in sé, in qualche modo, il rischio di un’autoredenzione: quando dimenticano il loro valore strumentale, diventano lo scopo e corrono il rischio di proporsi come strumento di salvezza.
Per un approfondimento della “devotio”
Dal seminario è emerso un generale riconoscimento non solo della legittimità della devozione, ma anche della sua importanza. Il ruolo della devozione è pensabile in riferimento all’idea di “alimento”, di “sostegno”, di “fondamento” della vita spirituale. Mentre sul ruolo specifico delle devozioni prevale l’idea di “ritmo” e di “struttura”, nel senso che le pratiche scandiscono la giornata, la devozione è intesa come «interiore spirito di fede», che poi può, e addirittura deve, sfociare in atti, pratiche, espressioni esteriori che le diano visibilità e consistenza.
Questo riferimento all’interiore spirito di fede rappresenta anche il criterio di fondo per discernere la qualità teologale delle devozioni e la loro plausibilità ecclesiale. Il rinnovamento avvenuto dopo il Vaticano II rispetto alla tradizione devozionale appare precisamente orientato da questo spirito: abbandonare ciò che era diventato troppo formale ed esteriore per riappropriarsi di forme vitali e significative.
In particolare, possiamo parlare di un duplice superamento. Anzitutto quello di un codice linguistico che aveva nell’idea di perfezione una visione assai diffusa della vita religiosa. Questa impostazione aveva ricadute pesanti sull’autocomprensione dei religiosi e ne condizionava i comportamenti e i protocolli formativi.
In secondo luogo, il superamento di quel postulato che vedeva nell’imitazione delle virtù di Cristo il punto più elevato di una spiritualità compiuta, con il rischio però di ridurre a formalità esteriori il mistero di Gesù.
Ma, in positivo, come fondare una corretta impostazione del rapporto fra devozione e teologia? Come mostrare l’apporto della teologia che, mentre apprende dalla pratica fattuale della devozione, è chiamata a porsi come istanza critica della qualità teologale della devozione? Tre passaggi meritano di essere sottolineati: la ricalibratura cristologica della devotio; la mediazione pratico-sacramentale della devotio; la fedeltà allo Spirito che chiama.
Ricalibratura cristologica della “devotio”
L’acquisizione che si sta facendo strada è quella di un recupero della dimensione esistenziale di Gesù come vita di Cristo in me. La teologia ha già da tempo intrapreso questa feconda direzione che ha interessato tutti i trattati dell’enciclopedia teologica, ma è rimasta un’indicazione ancora acerba in seno alla vita degli Istituti religiosi.
Nelle narrazioni evangeliche ritroviamo la figura di Gesù che, mentre coglie a fondo il senso degli eventi nella profondità del proprio essere, è capace di vivere una profonda empatia (nel senso attribuito a questa parola da Edith Stein) con ogni uomo. L’essere-di-Cristo-per-altri (Bonhoeffer), che abbraccia tanto la sua trascendenza verso il Padre quanto la sua dedizione ai fratelli, è per noi un’indicazione normativa di cammino. Caritas Christi urget nos: il suo amore ci spinge propriamente da dentro. In questo senso, la vita di unione con Gesù è partecipazione al suo essere-per e diventa così spiritualità del cuore. Su questa base possono essere ripresi anche i misteri della vita di Gesù e quindi una recordatio mysteriorum non come semplice titolo, ma sviluppata e più fedele alla sua struttura evangelica.
Dimensione pratico-sacramentale della “devotio”
Il carisma che ci viene donato è in funzione della vita sacramentale. Ad ogni individuo, ad ogni congregazione, viene donata una maniera diversa di donarsi al Padre. Il carisma è lo Spirito che consente di essere in Cristo sacramentalmente: non sono io che vivo ma Cristo vive in me. Come vivere Cristo? Come viviamo Cristo in noi?
Questo interrogativo rimanda alla questione dell’educazione in ordine alla pratica devozionale. Come educare alla devozione? E come educare la devozione? La questione (della) pratica è qui decisiva. Così come è importante vedere la pratica devozionale in relazione con l’aspetto “corporeo” della nostra fede, che si esprime – e si educa – in un modo che non si limiti al piano teoretico o a quello del sentimento. Il sentimento, infatti, va educato. Questo aspetto dell’educazione del sentimento – all’interno di una pedagogia dell’umano – è anche una sorta di profezia critica verso una società che ritiene il sentimento non educabile e si abbandona alla sua immediata spontaneità.
In tal modo, la devozione si ricollega allo strutturarsi dell’identità. La devotio è segno di identità e strumento di edificazione dell’identità. Ci dice chi siamo ma, insieme, costruisce chi vogliamo essere. È insieme narrazione e pratica.
A questo proposito bisogna chiedersi: Quali sono gli elementi carismatici fondamentali? Quali elementi contribuiscono a definire una identità? E che coscienza abbiamo di questo sviluppo, di questo processo di costruzione progressiva? Va sottolineato che l’identificazione con il carisma non passa attraverso la semplice conoscenza di testi (approccio intellettuale), ma attraverso forme di vita, pratiche che si ricevono e si rielaborano dalla tradizione in cui si è inseriti.
Un aspetto di questa educazione è dato da un duplice rapporto: quello con la tradizione, da un lato, e quello fra individuo e comunità, dall’altro.
Per il primo aspetto, assistiamo oggi talvolta alla tendenza al semplice ripristino delle antiche devozioni, senza un’assunzione critica del loro significato e del contesto in cui sono nate. Si avverte, alle volte, una certa nostalgia delle forme devozionali classiche ed è interessante che si assista oggi, in alcuni contesti, a un ritorno alle pratiche devozionali da parte del mondo giovanile, spesso senza una necessaria consapevolezza critica.
Per quanto attiene al secondo aspetto, in generale si avverte una netta prevalenza della prospettiva personale sul carattere ecclesiale e comunitario.
La devozione raramente è vista nell’ottica di una celebrazione (che presuppone sempre un carattere comunitario), ma è concepita come un nutrimento per sé, qualcosa che serve a sostenere la propria vita di fede. La devozione, insomma, serve alla valorizzazione dell’individuo.
Tutte le devozioni e le pratiche religiose, però, non possono essere esclusivamente il tratto caratteristico di un individuo oppure di una comunità; devono essere “regola” di relazione all’altro. In questo senso hanno bisogno di una teologia autentica e di essere evangelizzate. Il tratto evangelico della devozione è visibile nella qualità della sua apertura all’altro, nel suo propiziare la disponibilità al Dio che vive in noi e nel servizio disinteressato al prossimo.
Nella fedeltà allo Spirito
Ogni congregazione è chiamata, secondo i tempi e secondo i luoghi, a vivere e a condividere la devotio e le devotiones, in simultaneità alle possibilità concrete della storia; ogni spiritualità devozionale, innervata da alcune pratiche, non è la combinazione di valori, pure altissimi, che vengono a coagularsi nell’esperienza di un Istituto, ma è propriamente una chiamata dello Spirito Santo. È lo Spirito che cristifica, che consente a Cristo di vivere in noi, di prendere forma nelle nostre comunità. E lo Spirito incarna, suscita e promuove la diversità. In tal senso, tentare una fenomenologia dei processi culturali che interessano la vita consacrata non può prescindere dall’annuncio dello Spirito se non si vuole smarrire il senso della storia come storia sacra.
Il cammino da fare è meno dottrinale che esperienziale. Da questo punto di vista, un recupero dei santi a noi cari, (e delle forme di santità – spesso nascoste – nel nostro tempo) è un capitolo della storia ancora da scrivere. Così come davanti a noi è anche il compito di una piena, consapevole assunzione della nostra tradizione devozionale per riviverla oggi, secondo l’appello dello Spirito, nella apertura cordiale ai “segni dei tempi” e nella fedeltà a quanto lo Spirito suggerisce alla Chiesa.